Ex-Ilva in crisi: decarbonizzare o chiudere
Cronaca ©GettyLe prossime saranno settimane cruciali per il futuro del più grande gruppo siderurgico italiano, arrivato ad un punto di non ritorno
La crisi dell’ex-Ilva è arrivata ormai a un punto di non ritorno. E non basteranno, come in passato, interventi tampone o decreti ad hoc, per risollevare le sorti dell’acciaieria di Taranto, la più grande d’Europa, l’impianto simbolo di quello che resta il più importante gruppo siderurgico italiano. Per continuare a tenerlo in vita e rilanciarlo, serve ora voltare pagina, e tutti sembrano d’accordo sul fatto che la nuova parola d’ordine debba essere decarbonizzazione. Senza una svolta green, non c’è futuro per la “grande fabbrica”, ma servono soldi, tanti soldi, sacrifici occupazionali e un’intesa tra le parti finora mai raggiunta.
Il vertice a Palazzo Chigi
Governo e sindacati hanno finalmente trovato l’accordo sul loro nuovo incontro a Palazzo Chigi, che si terrà il prossimo 9 giugno. Le posizioni restano distanti e al ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che fa notare come il problema occupazionale esista (“metà produzione significa inevitabilmente metà occupazione”, ha detto Urso riferendosi alla “marcia” ridotta cui l’incendio dell’altoforno ha costretto il siderurgico), i sindacati rispondono che l'occupazione va salvaguardata tutta, perché ci sono le condizioni per investire e garantire le capacità produttive. Compito, proseguono i rappresentanti dei lavoratori, che spetta allo Stato, perché il futuro dell’ex Ilva, prim’ancora che dalla decarbonizzazione, passa dalla nazionalizzazione del gruppo.
La pista azera
La trattativa con Baku Steel, intanto, resta in stand-by. Difficile che gli azeri si siano fatti prendere alla sprovvista dall’incidente del 7 maggio che ha messo in evidenza, una volta di più, le pessime condizioni in cui versa il siderurgico tarantino. Più facile che sullo stallo abbia inciso quel che è successo dopo, con il sequestro, inevitabile, dell’impianto, e lo scontro tra il ministro Urso e i magistrati tarantini. La sensazione, insomma, è che Baku Steel resti in attesa degli eventi, pronta con ogni probabilità a rivedere al ribasso la propria offerta economica ed occupazionale, ma comunque decisa a non rinunciare ad un affare nel quale entrano in gioco anche le grandi disponibilità azere di gas, elemento necessario per realizzare la transizione energetica del gruppo, con il passaggio dagli altiforni a carbone ai forni elettrici.
L’autorizzazione integrata ambientale
Ultimo aspetto, ma non certo per importanza, le prescrizioni ambientali. Per l’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, a capo di un gruppo leader nella trasformazione dell’acciaio, "Se vogliamo ancora una produzione siderurgica in Italia serve "una Aia normale, come negli altri Paesi europei: non possiamo fare un Aia che se c'è vento si deve fermare l'altoforno". Concetto rilanciato dal ministro Urso, secondo il quale l'autorizzazione integrata ambientale, oltre che la più avanzata in Europa, per la tutela della salute e dell'ambiente, deve anche essere economicamente sostenibile per il nuovo acquirente, che deve sapere quanto gli costerà. Una questione sulla quale, quando sarà il momento, anche la città, con il suo nuovo sindaco, vorrà dire la sua.
