Scuola, lo psicopedagogista Rossi: “Non cerchiamo rassicurazioni nel passato”

Il testo delle nuove Indicazioni nazionali per le scuole primarie e secondarie di primo grado – elementari e medie, per intendersi – è arrivato. Ma molte delle sue proposte, ancora da passare al vaglio del dibattito con professori e sindacati, fanno discutere da mesi: lettura della Bibbia in aula dalla prima elementare, storia solo dell’Occidente, poesie a memoria e latino alle medie. “Molti insegnanti sono disorientati” assicura lo psicopedagogista Stefano Rossi che ha formato, in tema di educazione alle relazioni, i docenti di centinaia di istituti scolastici e che “ogni giorno dialoga con i dirigenti scolastici”. I dubbi non riguardano soltanto i futuri libri e programmi scolastici, ma anche le premesse con cui la commissione, nominata dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, suggerisce di ‘fare scuola’. Quelle secondo cui il docente è anche “Maestro”, le relazioni sono da costruire sulla base della “bona fides” alla maniera latina e la scrittura è migliore se corsiva. “Il rischio – commenta Rossi – è di non guardare al futuro ma di incaponirsi in una riproposizione del passato. Sono perplesso da queste proposte, specialmente se presentate a classi sempre più multietniche”. Ripartiamo dalla materia che ha fatto più discutere: la storia. Nelle Indicazioni si dice che la “conosce solo l’Occidente”. Che effetto le fa questa frase? Le dico che si tratta di “retrotopia” e che il motivo per cui ci muoviamo in questa direzione ce l’ha già spiegato il filosofo Zygmunt Baumann. Ci spieghi. Come dice Baumann, quando il futuro diventa più incerto, ovvero liquido, gli individui e gli Stati cercano rassicurazioni voltando il proprio sguardo verso il passato, dove cercano qualche soluzione, che però è granitica. Serve fare attenzione a questo approccio, perché il rischio è di intrappolarsi in questa ricostruzione del passato. E come si traduce questo approccio nel contesto della scuola italiana? Il problema è culturale. Il rischio è, di fronte a un mondo sempre più globale, di “ipersolidificare” la nostra cultura formando concetti sempre più polari. Mi spiego: da una parte ci siamo noi Occidente e noi italiani e, dall’altra, il resto. Applicare questo nel contesto scolastico mi lascia perplesso. Andiamo nello specifico, cosa ne pensa della lettura della Bibbia in aula dalla prima elementare? Dobbiamo immaginare che facciamo questa proposta in una società multietnica con classi multietniche, questo è un dato di fatto. Sono aule ben diverse da quelle che affollavano le scuole qualche decennio fa e dobbiamo fare ragionamenti diversi da quelli passati quando di fronte abbiamo bambine e bambini che, legittimamente, praticano religioni differenti. In generale, a livello educativo, la consapevolezza delle nostre radici dovrebbe portarci ad avere uno sguardo attento, aperto, riflessivo empatico ed inclusivo. Non può essere altrimenti a scuola. Parliamo, appunto, di inclusione. Le nuove Indicazioni annunciano una scuola che terrà conto dei bisogni educativi speciali e delle esigenze di tutti gli studenti ma, al contempo, presentano molti obiettivi ‘quantitativi’: penso ai 3 libri obbligatori da leggere ogni anno alle medie o all’apprendimento della calligrafia. Si rischia di lasciare indietro gli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento? Le rispondo in merito. Non possiamo stigmatizzare la scrittura in stampatello . Per i bambini e le bambine che vivono con dislessia, disgrafia o disortografia lo stampato diventa una forma inclusiva per poter accedere alla scrittura. Non si tratta di una scrittura di serie B e non possiamo semplicemente parlarne male. Sarebbe come non tutelare il diritto a portare gli occhiali per chi ne ha bisogno per vedere. La novità del testo di Valditara è sicuramente l’intelligenza artificiale, anche se il documento non spiega chiaramente come impiegarla in aula. Ha qualche suggerimento? Viviamo in un’epoca in cui le intelligenze artificiali avanzano con un ritmo a tratti preoccupante. Lo vedo con il mio mestiere di scrittore. Ecco, credo che in questo contesto dobbiamo coltivare una capacità critica nei ragazzi: la scuola, cioè, non deve dirti cosa pensare ma insegnarti strategie di pensiero, come pensare. Io da anni propongo ai docenti di lavorare con i bambini e le bambine in piccoli gruppi, credo sia un’ottima strategia sia per insegnare il pensiero critico sia per dialogare con la differenza. Senza la pretesa di eliminarla. A tal proposito, le Indicazioni nazionali parlano anche di educazione alle relazioni. Nel capitolo dedicato, definiscono la violenza di genere come “triste patologia”. Si può parlare di ‘patologia’ in questo caso? La violenza è una questione di educazione. Anzi, di maleducazione sentimentale. Me ne accorgo parlando con ragazzi giovani: spesso, quando facciamo gli eventi a teatro, chiedo a una platea di circa 500 studenti se la gelosia sia una forma di amore o se controllare il proprio partner sia una ‘cosa normale’. Ecco, le risposte sono sconfortanti. Il maschio è ancora visto come un predatore anaffettivo e la ragazza come una schiava del piacere che deve sempre dire di sì. La scuola, oggi più che mai, deve offrire educazione sentimentale, deve proporre ‘lezioni d’amore’. Ma deve farlo all’interno di una cornice scientifica e psicopedagogica, senza tirare in ballo ideologie di qualunque tipo. Nelle premesse, le Indicazioni parlano anche di libertà dello studente. La associano all’ “etica del rispetto verso il prossimo” e al “senso del limite”. I nostri ragazzi sono incuranti delle autorità? C’è un fondo di vero: viviamo una situazione di emergenza educativa. Io chiamo “classi tempesta” quelle in cui i ragazzi e le ragazze hanno discontrollo e disregolazione emotiva. Spesso hanno perso coordinate affettive familiari e arrivano a scuola cercando uno sfogo. Così, capita che si scaglino contro i compagni e contro i professori. Purtroppo, non è un’eccezione. La sfida educativa adesso è integrare nell’educazione l’equilibrio tra libertà e responsabilità. Da un lato, c’è la società no limits, in cui il bambino ottiene tutto di fronte a genitori con la fobia del ‘no’. Dall’altro, servono adulti in grado di ascoltare oltre che dire ‘no’, docenti che siano capaci di insegnare progressivamente l’autoregolamentazione. Insomma, abbiamo bisogno di un insegnante che sia un “porto sicuro”. Non, dunque, un “Maestro” modello come suggerisce il Ministero? Le rispondo con le parole del filosofo Edgar Morin. Credo che il docente debba formare delle teste ben fatte piuttosto che delle teste ben piene.

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