Cosa significa il maxiblitz antimafia di Palermo

I mandamenti mafiosi più potenti di Palermo colpiti in un’unica operazione della direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano. 183 le persone finite in manette. Boss, colonnelli, gregari. Pronti per ricostituire la cupola di cosa nostra funestata dalle operazioni, negli ultimi mesi, hanno messo a segno le forze dell’ordine. Associazione mafiosa, estorsione, traffico e spaccio di stupefacenti. Questo alcuni dei reati che i magistrati contestano agli arrestati nel blitz portato a termine dai carabinieri del comando provinciali e del Ros, il reparto operativo speciale dell’Arma. 1200 i militari impegnati nell’operazione che ha rastrellato intero quartieri del capoluogo siciliano. Da San Lorenzo a Falsomiele. Da Porta Nuova a Santa Maria di Gesù. Roccaforti storiche della mafia palermitana. In carcere sono finiti boss che avevano finito da poco di scontare le condanne che erano state inflitte loro per altri reati e “picciotti”, le nuove leve alle quali Cosa Nostra si affida. Una Cosa Nostra che è tutt’altro in crisi di vocazione. Una mafia “sommersa” l’ha definita il procuratore della Dda di Palermo Maurizio de Lucia, ma pienamente operativa. I boss appena scarcerati non ci hanno messo molto a cercare di riprendere in mano gli affari e a gestire le cosche. Ma, ed è questa la cosa più preoccupante, non hanno in realtà mai smesso. Dal carcere, infatti, hanno continuato a gestire tutto e lo hanno fatto grazie ai telefoni cellulari che venivano fatti entrate all’interno degli istituti penitenziari. Da chi è ancora in fase di indagine. Sta di fatto che i capimafia ne avevano disponibilità e ne facevano un uso “normale”, come se fossero a piede libero. Telefonavano a qualsiasi ora del giorno o della notte e organizzavano ogni cosa. Prendevano decisioni e stabilivano la quota del pizzo da imporre a commercianti ed imprenditori che, nella maggior parte dei casi, sono purtroppo tornati a non denunciare preferendo pagare la “messa in regola” alla mafia. “Le indagini – ha detto il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo che ha partecipato alla conferenza stampa a Palermo – dimostrano che le aree di alta sicurezza delle carceri sono di dominio della criminalità che continua a fare ciò che vuole e ad avere a disposizione apparecchiature che consentono di avere rapporti con l’esterno”. Un allarme che non può e non deve rimanere inascoltato. Un altro elemento importante emerso da questa inchiesta è il ruolo della mafia nel traffico di cocaina. Un ruolo tornato ad essere di primo piano. Durante i due anni di indagine sono stati sequestrati oltre 43 chili di cocaina purissima. Una goccia nel mare rispetto alle quantità che vengono spacciato ogni giorno nel capoluogo siciliano. Dalle intercettazioni si capisce inoltre che i boss conoscono esattamente le rotte della droga dal Sudamerica all’Europa e sanno, soprattutto, con chi devono fare affari. Sono emersi, infatti, contatti con esponenti della ‘Ndrangheta calabrese. Dai loro porti passa quasi tutta la polvere bianca che poi finisce sul mercato. La mafia siciliana e palermitana in particolare insegue di nuovo il business della droga. Come negli anni di “Pizza Connection”, quando quasi tutti gli introiti delle cosche provenivano dal traffico di droga con le famiglie americane. Per continuare a combattere la mafia è necessario poter contare su un numero adeguato da magistrati. “Alla procura di Palermo – ha detto il procuratore de Lucia – da tempo mancano almeno 13 pm in organico”. La lotta alla mafia non si può vincere se le armi sono spuntate.

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