L’omicidio di Thomas a Pescara, la lunga strada verso il ritorno all'umanità
CronacaAffermare che manca l’empatia è il minimo, ma non ci serve. Il fatto è che non ci poniamo mai la domanda precedente, ossia come ci si è arrivati, chi sono i responsabili, quanto le testimonianze dei personaggi pubblici, in quella che è diventata, che afferma un filosofo francese, “la società dello spettacolo”, stanno sdoganando la violenza come modalità per dirimere ogni controversia, una scorciatoia sempre più “naturale”
Almeno stavolta per arrivare a Pescara bisognerà passare da Udine, dove si è compiuto, in contemporanea con l’eccidio del quasi bambino Christopher Thomas, il destino di un imprenditore cinese, colpevole di essere intervenuto per difendere un ragazzo che stava subendo un pestaggio.
Un pugno l’ha fatto sbattere con il cranio sullo spigolo di un marciapiede, mandando prima in coma e poi alla morte il soccorritore.
Ma mentre scrivo non mi abbandonano le immagini di un altro pestaggio, non in qualche periferia degradata ma alla Camera dei deputati, il cui valore simbolico è enormemente più alto degli altri, sia per il luogo, sia per i responsabili, pagati dai cittadini per fare altro e non per sfogare i loro istinti con metodi da angiporto.
Quando un paese decide di accettare questi spettacoli, deve sapere che sta perdendo il diritto di eccepire sul comportamento dei ragazzi.
Fatico a separare i contesti, non perché la mia mente sia impastata, ma perché in realtà non ci sono differenze, i giovani semmai servono come arma di distrazione. “Di malessere se n'è visto in giro, certo, talvolta tanto, ma per fortuna non è stato monopolizzato solo dai ragazzi. Forse dovremmo perdere l'abitudine di parlare di loro per non parlare di noi”. Mi scuso per l’autocitazione, ma sono parole di quindici anni fa, allora il processo era già in fase avanzata, adesso è nel pieno della sua maturazione e promette evoluzioni inquietanti.
In psicologia esiste un fenomeno che prende nome di sincretismo e dovrebbe riguardare soprattutto i bambini, quando tendono a percepire il mondo nella sua globalità e non nei particolari. In questo momento avverto forte un legame tra le aggressioni di cui sopra, almeno nella forma esteriore, anzi soprattutto nella forma esteriore, nella brutalità di esecuzione che rimanda alle caverne. I ragazzi questi film li vedono tutti i giorni, pensare che non lascino tracce nelle loro prassi è solo l’ennesima mancanza di rispetto nei confronti delle giovani generazioni.
Non possiamo portare i giovani cittadini dove noi stessi non siamo in grado di andare, solo una generazione di adulti stupidi può pensare il contrario.
Sempre noi grandi in queste circostanze ci affanniamo a dare un nome alle cose, un esorcismo collettivo, la parola magica del momento è empatia, data per lo più come carente o assente, ma dare i nomi alle cose e agli eventi non serve a molto, se non a fare sembrare colto chi li sceglie -si pensi a tutta la mistica creata intorno al concetto di resilienza, sostituta abusiva della vecchia e meravigliosa forza d’animo- oppure a trasferire da una persona all’altra un concetto, un’informazione.
Ora, posto che il brodo culturale è comune e che il nostro si è avvelenato da tempo, i fenomeni psicologici non si somigliano mai, si possono prendere solo uno alla volta, perché il campo di applicazione delle discipline della mente è il singolo individuo, solo secondariamente “gli” individui. Questo impedimento alla generalizzazione è dovuto al costruttore dei significati presente nel nostro mondo interiore, la “logica privata”, un filtro irreplicabile, uno stampo che modella tutti gli stimoli in entrata elaborandoli secondo criteri specifici di ogni individuo.
C’è una persona e c’è una logica privata. Per questo cadiamo in errore quando ripetiamo cose del tipo “questi giovani mancano di empatia”, per la stessa ragione fatichiamo a capire quello che agli esecutori di certi gesti appare naturale.
Se un testimone riferisce che mentre Christopher Thomas agonizzava gli aguzzini gli intimavano di stare zitto, come se gli stessero infliggendo solo coltellate virtuali, noi troveremo assurdo tutto questo, mentre per gli accoltellatori si tratterà di una conseguenza logica, anzi per ciascuno di essi sarà una rappresentazione diversa.
Basterebbe leggere i verbali delle bravate di gruppo di vario genere, si tratti di abusi piuttosto che di omicidi, per darsi conto dell’impossibilità di fare entrare tutti sotto lo stesso ombrello. Ragionare per blocchi sociali è ottuso, ma anche la prima causa dell’incapacità di trovare risposte.
Affermare che manca l’empatia è il minimo, ma non ci serve, è come dire a un uomo investito sulle strisce che la sua gamba è fratturata. Cose talmente evidenti che possiamo anche levarci il disturbo di ripeterle, tutti le conosciamo, il fatto è che non ci poniamo mai la domanda precedente, ossia come ci si è arrivati, chi sono i responsabili, quanto le testimonianze dei personaggi pubblici, in quella che è diventata, che afferma un filosofo francese, “la società dello spettacolo”, stanno sdoganando la violenza come modalità per dirimere ogni controversia, una scorciatoia sempre più “naturale”.
Se vogliamo dare la colpa alla droga, facciamo pure, bisogna però avere l’onestà di ricordare che la droga appartiene più agli effetti che alle cause.
Se vogliamo fare il processo ai genitori, facciamo pure, ma spero non si azzardino coloro i quali pensano che basti procreare per salvare la società. La famiglia non è mai stata così sola, disperatamente sola, ma in cambio riceve, da pulpiti squalificati, silenzi, risposte banali e involute o reprimende moralistiche.
Un uomo, disperato per la morte della figlia a causa di un incidente stradale, se la prende con Dio. “Questo non doveva farmelo -mi dice- vado a messa da quando sono piccolo e dico il rosario tutti i giorni”.
Floria Tosca, protagonista dell’omonima opera di Giacomo Puccini, dopo avere ricordato al Creatore di avere aiutato i bisognosi con discrezione, pregato con impegno, omaggiato la madonna con fiori e gioielli, gli chiede come mai “nell’ora del dolore” la rimunera così, considerato che il suo amato, Mario Cavaradossi, era finito in mano agli aguzzini della polizia vaticana.
Eccola l’ultima carta per molti cittadini scoraggiati, Dio, ma non è a questo che dovrebbe servire, non è uno spacciatore di premi, non è il suo lavoro, lo diventa quando c’è troppa gente sbagliata nei posti sbagliati.
Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, "Volere bene” (Ed. Castelvecchi)
Nella sua produzione è presente il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda) e non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/