Violenza sulle donne, il lavoro in carcere con i detenuti autori di maltrattamenti

Cronaca
Chiara Martinoli

Chiara Martinoli

Stefano è stato condannato a sette anni per maltrattamenti in famiglia e violenza. All'interno del carcere ha seguito un percorso che lo ha portato a capire ciò che aveva fatto. Anche questo è un tassello fondamentale dello sforzo collettivo da impiegare nella lotta contro la violenza sulle donne. Perché non basta tutelare le vittime, è agli uomini che bisogna insegnare a dire "basta" alla violenza

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“Sono iniziati i maltrattamenti verbali. Usavo parole forti. Sei una stronza, sei una poco di buono, sei una bastarda, sei una figlia di puttana, non vali niente… Fin quando poi non riesci più a trattenere la gestione della rabbia e ho iniziato a metterle le mani addosso. E lì arrivi al fondo della bottiglia. Hai toccato il fondo della bottiglia nel senso che non puoi fare più niente. Sei dentro quel meccanismo lì. Per me non è facile parlarne, soprattutto adesso: ultimamente sento al telegiornale delle cose terribili, che mi toccano profondamente… perché io ci sono dentro a questa cosa qua, io so che cosa significa essere violento con una donna”. (BASTA - LACAMPAGNA DI SKY TG24 CONTRO I FEMMINICIDI)

 

L’uomo che parla è una persona detenuta nel carcere di Bollate, alle porte di Milano, per reati di maltrattamenti in famiglia e violenza. Lo chiameremo Stefano, è un nome di fantasia. Aveva una compagna, che picchiava ripetutamente, e aveva due figli, che ora non può più né vedere né sentire. Ma quella che vogliamo raccontarvi non è la sua storia, o non soltanto la sua. È il racconto di un percorso, nell’ambito della pena detentiva, che viene svolto dagli uomini autori di violenze contro le donne. Perché sì, non basta tutelare le donne. È sugli uomini che bisogna agire, è a loro che bisogna insegnare a dire basta alla violenza. Se ne occupa il CIPM, cooperativa sociale che dal 2005 lavora presso il carcere di Bollate con un’unità di trattamento intensificato rivolta ad autori di reati sessuali. Dal 2022, è nata una seconda unità rivolta agli autori di reati connessi alla violenza di genere.

Assumersi la responsabilità 

“Gli autori di questo tipo di reati tendenzialmente sono convinti di essere dalla parte del giusto – spiega Francesca Garbarino, criminologa clinica e vicepresidente del CIPM - e quindi spostano la responsabilità sulla vittima. Non vedono la propria responsabilità né si rendono conto dei danni che provocano alla vittima. È per questo che abbiamo introdotto un trattamento specifico, per offrire uno spazio di riflessione a queste persone: l’obiettivo è che riescano ad assumere una responsabilità non soltanto formale, cioè comminata dalla pena, ma sostanziale, ovvero una presa di coscienza reale di ciò che si è fatto. È una forma di giustizia ancora più profonda”.

 

“Quando sono finito in galera, in seguito alla denuncia della mia compagna, io non avevo assolutamente capito perché mi trovassi dietro le sbarre – ammette Stefano – il fatto è che per me la violenza era diventata quasi un automatismo, una cosa che faceva parte di me. Avevo problemi di alcol, bevevo, picchiavo la mia compagna e non mi importava né di lei né dei figli che vedevano quello che facevo e che piano piano si sono allontanati da me perché facevo loro paura. La galera è stata un trauma. Sono stato costretto a convivere con me stesso e con il male che avevo fatto. Poi ho iniziato a seguire il percorso all’interno dell’unità di trattamento intensificato e piano piano tutto ha iniziato a prendere forma: mi sono reso conto della violenza che ho conosciuto durante l’infanzia e che per me era diventata la normalità, una normalità che ho poi trasferito all’interno della mia famiglia. Ma questa volta ero io a fare del male alle persone che mi volevano bene”.

 

L'importanza di fare rete

Attraverso un’equipe multidisciplinare, l’unità di trattamento intensificato offre ai detenuti una serie di proposte che affrontano gli aspetti psicologici, culturali, educativi legati ai reati commessi. Si tratta di un tassello fondamentale, nell’ambito del lavoro nella lotta contro la violenza sulle donne. Importantissimo è riuscire a fare un lavoro di rete, che coinvolga tutte le strutture e le associazioni impegnate in questa battaglia: dai centri per la tutela delle vittime agli enti che si occupano degli uomini autori di violenza.

 

"Una persona migliore"

All’interno del carcere di Bollate, il lavoro svolto grazie a questi progetti, si inserisce pienamente nell’ambito della finalità rieducativa della pena: “Questo trattamento – continua Francesca Garbarino – favorisce un lavoro di elaborazione rispetto al reato, che metta al centro proprio la vittima. Ciò è fondamentale per questo tipo di reati, che sono relazionali. Perché chi compie questa tipologia di reati tende a non vedere la vittima e a non vedere il dolore che è stato provocato. È importante quindi che la pena sia riempita di contenuto, che il periodo trascorso in carcere non sia solo un momento di congelamento delle proprie azioni ma un’occasione di trasformazione”.

 

Il lavoro svolto all’interno dell’unità di trattamento intensificato è molto duro e faticoso dal punto di vista emotivo. “Guardare in faccia i propri errori e il male che si è fatto è qualcosa che ti distrugge dentro. Ma è importantissimo. Io sono stato fortunato, perché non tutti hanno la possibilità di fare un percorso come questo. Adesso, grazie a questo percorso, ho ben chiaro che persona sono. Ho ben chiaro chi ero e ciò che facevo. Qui in galera sto capendo tante cose. Il carcere mi ha aiutato a essere una persona migliore”. Se potesse parlare ad altri uomini autori di violenze, Stefano non avrebbe dubbio su cosa dire: “Chiedete aiuto. Se la vostra compagna ha paura di voi, se i vostri figli hanno paura di voi, chiedete aiuto. Perché anche se pensate che la colpa non sia vostra, scoprirete che è così. E salverete voi stessi e le persone che vi vogliono bene”.

 

Giustizia per le vittime

“Il lavoro svolto all’interno del carcere di Bollate – conclude Francesca Garbarino – va nella direzione della sicurezza delle vittime: sì, perché l’obiettivo più immediato e concreto è quello di evitare la recidiva, evitare nuove vittime”. Ma c’è anche molto più di questo: “Il lavoro va anche nella direzione della giustizia riparativa: sì, perché comprendere il male che si è fatto è un modo per rendere giustizia alla vittima, ai familiari della vittima, a chi è rimasto”.

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