Violenza sulle donne, la mamma di una vittima: non giratevi dall'altra parte

Cronaca
Monica Peruzzi

Monica Peruzzi

Maria Teresa D’Abdon, la mamma di Monica Ravizza, uccisa e bruciata dall’ex compagno Diego Armando Mancuso. Era la notte fra il 18 e il 19 settembre del 2003. "Non ci si può liberare dal dolore, ma combattere per eliminare il fenomeno del femminicidio". Con lo spettacolo "Credi davvero che sia sincero", tratto dal romanzo di Roberto Ottonelli, con la regia di Alice Grati, porta in scena la rappresentazione di un rapporto tossico con un "ragazzo normale",  che si trasforma in una gabbia fino all'epilogo tragico. "Il

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"Nella notte del 18 e il 19 settembre del 2003, ci arriva una telefonata da una vicina di casa la vicina di casa. Ci dice che dalla finestra di Monica veniva fuori del fumo, Noi ci siamo precipitati, con mio Marito, ci siamo messi in macchina e siamo arrivati dove viveva Monica. La strada era tutta transennata, c’erano Polizia, Carabinieri, c’era di tutto, però non riuscivamo a sapere niente. Ho visto solo una barella, che era coperta, e ho detto fra me e me, 'ti ringrazio mia figlia è viva'. Poi ci hanno lasciato lì, senza dirci nulla. Al mattino ci hanno chiamati nella caserma dei Carabinieri e ci hanno detto 'guardate che vostra figlia purtroppo non ce l'ha fatta. E' stata violentemente accoltellata e poi lui ha cercato di bruciarne metà del corpo'. Aveva anche un bimbo in grembo, ma noi non sapevamo neanche che aspettava un bambino".

La testimonianza è di Maria Teresa D’Abdon, la mamma di Monica Ravizza, uccisa e bruciata dall’ex compagno, Diego Armando Mancuso, nella notte fra il 18 e il 19 settembre del 2003.

"Noi lui non lo abbiamo mai conosciuto. Solo al processo. ilIn Primo grado gli sono stati dati 18 anni e 6 mesi , poi in appello 16. Ma dopo 5 anni dal delitto era fuori, a lavorare vicino a casa. Io sono andata dietro le porte del cancello dove lavorava, però sono ritornata indietro, perché mi sono resa conto che era un qualcosa di inutile. Noi continuiamo a vivere come in un ergastolo a vita, perché ormai la nostra Monica non c’era più. Monica era una ragazza solare, amava stare con gli altri,  andare a ballare. Quando ho conosciuto lui si è isolata da tutti". Non abbiamo avuto il tempo di intervenire, renderci conto, perché  lui l'aveva isolata da tutti, dalle sue amiche, dalla famiglia. Ogni volta che Monica veniva a casa lui continuava a telefonargli, le chiedeva di tornare subito a casa. Purtroppo non siamo riusciti a percepire quello che succedeva".

20 anni dopo, il dolore resta identico, anche perché la scia di donne uccise per il solo fatto di essere donne, non si ferma.

Dal dolore di Maria Teresa d'Abdon è nato prima un libro, scritto da Roberto Ottonelli, e poi uno spettacolo teatrale, "Credi davvero che sia sincero", che mette in scena la relazione tossica in cui era finita Monica.

"Nonostante tutti i nostri, sforzi, 20 anni dopo il femminicidio di Monica, le donne continuano a essere uccise, spesso da chi dice di amarle - prosegue Maria Teresa d'Abdon - Io attribuisco la responsabilità anche alle famiglie. Penso che i genitori abbiano abbandonato i propri figli, non gli è stato permesso di fargli capire cosa sia un sì e cosa sia un no. Un giorno avevo deciso che dovevo incontrare la mamma del ragazzo, perché giustamente era una mamma che aveva un dolore diverso dal mio, però secondo me era giusto condividerlo. Così mi decisi e in  occasione di un anniversario della morte di mia figlia ho mandato degli appelli, ho scritto una lettera, sono andata a casa sua e l’ho messo nella buca. Quel giorno si è presentata la mamma del ragazzo, io gli sono andata incontro per abbracciarla, ma lei ha giustificato suo figlio, dicendo 'eh purtroppo il coltello era lì'.

Mi sono detta ora basta, devo cercare di di far vivere mia figlia, essere disponibile verso gli altri, aiutare i ragazzi a crescere, a non avere quell’odio e quella mancanza di rispetto che ha dimostrato l'assassino di Monica".

 

Roberto Ottonelli, scrittore, è entrato in contatto con alstoria di Monica Ravizza attraverso la moglie, una delle amiche che, come si legge e si vede nello spettacolo, tentano di strappare Monica da un uomo che la stava maniploando e isolando.

"Quando quando si parla di femminicidio, inevitabilmente l’attenzione è tutta sulla vittima, non si considera che non ci sono solo i familiare, ma anche gli amici, i compagni di scuola, i colleghi di lavoro. Resta un vuoto enorme. Così ho deciso  di raccontare questa storia, da entrambi i punti di vista, quello della vittima e quello del suo assassino, perché  per me era importante porre l’attenzione sulla figura maschile, focalizzarci su questo confine molto sottile fra un uomo molto gentile, premuroso, attento, e un uomo possessivo, che ha la necessità di controllare e limitare le libertà di quella che considera la 'sua donna', ma intesa come una proprietà.  Poi quando conosciuto Alice Grati, che ha scritto la sceneggiatura e che è la regista dello spettacolo, abbiamo deciso di portarlo nelle scuole, dove alla fine ci mettiamo a disposizione dei ragazzi, insieme alla mamma di Monica, che non perde neppure una rappresentazione, per spiegare, portare una testimonianza, metterci in ascolto dei ragazzi e delle ragazze che molto spesso, proprio dopo aver visto lo spettacolo, si rendono conto di molte coswe che li circondano e che fino a quel momento avevano sottovalutato".

"La cultura patriarcale è qualcosa che permea la vita di tutti, senza che ce ne accorgiamo. Siamo tutti immersi in una cultura che giustifica la violenza. Quello che è accaduto a Monica è un estremo atto di violenza, ma la violenza può essere verbale, psicologica, economica. Le forme di controllo sono talmente tante e così sfumate che sono difficili da individuare - racconta Alice Grati, regista e sceneggiatrice -  Si  parla spesso di 'mostro', quando ci si riferisce ai femminicidi, ma il mostro non esiste. Quando abbiamo lavorato a questo spettacolo abbiamo provato a mettere in scena le dinamiche di possesso che ognuna di noi ha vissuto, sia in prima persona che attraverso i racconti di amiche o amici. Le scene che ci sono nello spettacolo non sono dichiarati atti fisici di violenza o esplosioni di rabbia. Sono situazioni di tensione che, bene o male, possono vivere tutti. L'interlocutore più più problematico è l’uomo adulto intorno ai 40,  che si sente molto preso in causa, perché viene rappresentata una quotidianità di relazione di controllo e di dinamica violenta. Di fronte a questa immagine arriva la negazione e la cosa che ci sentiamo dire più spesso è 'sì, ma non tutti gli uomini'. Oppure l’altra l’altra grande risposta che arriva è 'però queste madri che non educano i figli, che poi crescono assassini'. Questo è uno degli scogli che ci troviamo ad affrontare, a livello culturale, adesso in Italia. 

 

"Ogni storia vale per se stessa, però sicuramente ci sono quei segnali, quegli elementi ricorrenti, che siamo convinti che se riconosciuti, possono fare la differenza.  - continua Roberto Ottonelli  - Spesso invece vengono sottovalutati, giustificati.  Quello che osserviamo, anche negli ultimi casi di cronaca, è la trasformazione di un uomo, di un ragazzo, da una persona definita 'normale' a un assassino. Sono tutti ragazzi qualsiasi , non c’è il mostro, che è una figura che in qualche modo rassicura, perché il mostro non sono io, non è il vicino di casa, perché serve a spersonalizzare e ad allontanare la responsabilità collettiva. Sono tutte persone qualsiasi, che però maturano questa necessità assoluta di possedere, controllare, riversano il senso stesso della loro esistenza sulla persona che gli sta accanto, in un un meccanismo così perverso che fa sì che alla fine la vittima si senta colpevole, si senta sbagliata, si isoli. Il problema, secondo me, è maschile. Siamo noi che ci dobbiamo ribellare a una cultura patriarcale che oggettivamente ci permea a tutti. Siamo tutti figli di questa cultura patriarcale che parte da quando siamo bambini, quando si piange ci viene detto di non fare la femminuccia, una cosa che non solo è svilente nei confronti delle donne, ma esprime anche il concetto che gli uomini non possono mostrarsi deboli, non possono chiedere aiuto, parlare delle proprie emozioni.  Io personalmente non mi sento tirato in causa come corresponsabile, però sento la responsabilità di denunciare, oppormi a questo stato di cose, che è un dato di fatto, credo che  ciascuno di noi debba fare la sua parte"

"La cultura del patriarcato è una cultura intrinsecamente violenta, che giustifica la violenza a livello strutturale - spiega Alessia Grati - Ma l’esercizio di consapevolezza, l’ascolto, la  scelta di parlare dei propri sentiment e il saper dare parole giuste ai propri sentimenti,alle proprie azioni, salva. Salv voi stessi, le persone che amate e interrompe questa cultura".

 

"Ai genitori dico di far capire ai loro figli, soprattutto ai maschi, che non devono essere violenti, che le donne devono essere rispettate, amate. No rimanete in silenzio, parlate con i vostri figli - conclude Maria Teresa d'Abdon - E se c'è  qualcuno al fianco della ragazza, se si capisce che può aver bisogno di aiuto, non vi girate dall'altra parte. La solitudice uccide". 

 

 

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