Giornata Mondiale Fotografia, intervista al fotografo Fontcuberta: “Deepfake è pedagogico"
Cronaca
“Siamo nel bel mezzo di una svolta straordinaria, paragonabile a quando nel 1839 venne presentato il dagherrotipo”: il fotografo catalano racconta il cambiamento che stiamo vivendo tra guerra, intelligenza artificiale e social network. Come decifrare le immagini che ci circondano nell'era della post verità?
Si è ritratto nei panni del cosmonauta fantasma Ivan Istochnikov; ha manipolato uno degli scatti più iconici del "rey emerito"; ora genera, a partire da foto reali, paesaggi naturali che non esistono con l’aiuto di moderni programmi di elaborazione digitale di immagini. Joan Fontcuberta, vincitore nel 2013 del prestigioso “Nobel fotografico” Hasselblad Award, è da sempre un artista di confine, sospeso tra reale e irreale. Negli ultimi anni, si è dedicato intensamente all’intelligenza artificiale, “un linguaggio” – così lo definisce – che utilizza in modo provocatorio e maieutico. Per il fotografo catalano, grazie ai deepfake e alle insidie dell’A.I. stiamo re-imparando a dubitare di tutto, a farci delle domande. Nel suo ultimo libro Contro Barthes. Saggio visivo sull'indice, edito da Mimesis, riflette sulla condizione crepuscolare della fotografia.
In che fase si trova la fotografia?
Per la fotografia è arrivato il tempo di "uccidere il padre", per dirla in termini freudiani. I padri a volte rendono la vita difficile. Li amiamo, ma quando sono troppo ingombranti, ci impediscono di andare avanti, progredire. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a cambiamenti culturali eccezionali dal punto di vista tecnologico, culturale, politico. Le teorie dei maestri del pensiero fotografico del passato non sono più valide.
Per questo ha scritto un libro Contra Barthes, uno dei più importanti teorici della fotografia?
Barthes chiamava il “noema” della fotografia, cioè l'essenza, "ça a été". In francese significa "questo è stato". Secondo lui, quello che differenziava la fotografia dagli altri sistemi di rappresentazione non era tanto il realismo, la veridicità, l’artisticità, ma "il riferimento all’oggetto": la fotografia nel paradigma barthesiano dà conto dell’esistenza di qualcosa davanti all’obiettivo della camera. Questo è corretto, ma a mio giudizio quarant’anni più tardi non è sufficiente.
Cosa intende?
Dobbiamo andare oltre. Sì, è vero, qualcosa è successo davanti alla macchina fotografica, ma quello che ci interessa è sapere che diavolo sia successo, come interpretarlo. Dobbiamo chiederci quanto questa informazione visuale serva per aumentare la nostra conoscenza, la nostra capacità di prendere decisioni su alcuni aspetti della realtà. Pertanto quando dico "contra Barthes", nel mio libro, gioco con la polisemia della preposizione "contro" che può essere contro nel senso antagonistico o “contro” come “di fronte a”. È il momento di farci delle domande, di avventurarci in speculazioni su cosa avrebbe pensato Barthes della fotografia di oggi che definisco post-fotografia.
Che significato dà alla post-fotografia, di cui lei è uno dei padri fondatori?
È la fotografia filtrata dalla cultura digitale, da Internet, dai social network, dalla telefonia mobile, dall'intelligenza artificiale, dagli algoritmi. In questo momento, siamo nel bel mezzo mezzo di una svolta assolutamente formidabile, paragonabile a quando nel 1839 venne presentato il dagherrotipo (inventato il 19 agosto di 2 anni prima) e il pubblico parigino non intese fino in fondo la meraviglia, il miracolo. Era una specie di gioco di prestigio: uno specchio poteva incapsulare il riflesso. Lì per lì nessuno si rese conto dell’importanza di quella innovazione nell’ambito della comunicazione e della cultura, ma ne furono sorpresi, come si resta sorpresi davanti a un mago, a un prestigiatore. È simile a quello che stiamo vivendo adesso
La fotografia deve temere la tecnologia?
Nonostante tutti i rischi, penso che i cambiamenti a cui stiamo assistendo siano positivi: ci sono più informazioni disponibili, a portata di mano del cittadino. Ci siamo trasformati in uomini fotografici: oltre ai nostri occhi abbiamo la possibilità con il nostro telefono cellulare di andare captando quello che vediamo. Ci convertiamo in reporter con estrema facilità. Questa grande quantità di copertura non necessariamente professionale, che si serve anche dei nuovi canali di comunicazione, ha reso la fotografia meno gerarchizzata e più partecipativa.
Come destreggiarsi in questo mondo in cui il rischio di imbattersi nel "falso che sembra vero" è altissimo?
Certo, si è aperto un varco per le fake news e le post verità, ma io la vedo da un altro punto di vista: è un modo per constringerci a filtrare le informazioni in modo critico. Il pubblico può scegliere, è investito di nuove importanti responsabilità. II deepfake è prezioso perché ci obbliga a essere più cauti, a dubitare. Noi oggi sappiamo che qualunque immagine può essere fotograficamente ingannevole, che dietro un’apparenza fotorealista può celarsi il falso e che può esserci un processo digitale e algoritmico. La svolta per me è ripensare il fake e il deepfake come uno strumento. C’è un aspetto pedagogico e anche profilattico.
Quindi il deepfake non è una minaccia, ma un’opportunità?
Questi falsi algoritmici saranno molto positivi per insegnare al pubblico a essere più critico nei confronti delle informazioni visuali che riceve. Questa è una delle ragioni per cui mi piace lavorare su questo: non voglio burlarmi dello spettatore, né ingannarlo. Desidero, al contrario, rendere la gente consapevole di questa possibilità tremenda rappresentata dalla creazione di immagini basata sulle tecnologie avanzate.
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Qual è il ruolo dell’arte in tutto questo?
Il deepfake ha riportato in auge la dimensione del dubbio. L’arte può fare sì che lo sguardo passivo che abbiamo tenuto fino a ora sia sostituito da uno sguardo più proattivo e critico. Non dobbiamo inoltre dimenticare che il deepfake permette una serie di giochi ironici, satirici, alcuni usi politici.
A proposito di questo, in uno dei suoi lavori ha generato delle foto fake di Trump, Berlusconi e Strauss-Kahn nel mezzo di un orgasmo. Come è entrata la politica nella sua opera?
È stata un pretesto. Io e Pilar Rosado volevamo utilizzare questa tecnologia e ci è parso che il massimo delle contraddizioni emergesse nelle figure pubbliche che abusano del loro potere, anche a livello sessuale, o che semplicemente sono state protagoniste del gossip e di scandali, caratterizzandosi per un’assoluta mancanza di etica, sebbene nei discorsi ufficiali pubblici diano consigli e ci dicano come dobbiamo comportarci. Mi sembrava divertente mostrare fino a che punto possa arrivare la doppia morale: una cosa è quello che pretendiamo che gli altri facciano e altra cosa è quello che facciamo noi.
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Politica a parte, si è occupato molto della violenza e della guerra. Qual è la foto che racconta meglio quello che sta succedendo in Ucraina?
Normalmente le immagini iconiche diventano iconiche a posteriori. Per esempio pensiamo alla fotografia del soldato repubblicano abbattuto durante la Guerra civile spagnola, gli scatti di Robert Capa nella Seconda guerra mondiale, pensiamo alla Guerra del Vietnam e all'esecuzione sommaria di un Viet Cong resa immortale. Parliamo di foto che possono avere un impatto immediato nel momento di attualità sulla stampa, ma passano alla memoria collettiva soltanto più tardi: in un secondo tempo riescono a condensare parole, emozioni, sentimenti, l’irrazionale. Si trasformano così in un’immagine sintetica di quello che è potuto essere il conflitto. La guerra in Ucraina è troppo recente, sta accadendo ora. È presto per scegliere una foto che la descriva in modo definitivo. Serve una certa prospettiva per capire quale siano le immagini documentali che resteranno scolpite nella memoria. Quello che possiamo già constatare è che potrà essere una foto che non è passata attraverso i media tradizionali, ma che è stata diffusa sui social.
Da quello che ha potuto vedere fino adesso come fotografo, qual è il dato più significativo del dopo 24 febbraio?
Il ruolo dei droni. Le foto che stanno avendo un impatto maggiore non sono ritratti, foto dal fronte o di combattimenti. Sono quelle che mostrano la loro capacità di distruzione tremenda, sia quelli dell'esercito ucraino contro i tank russi sia quelli russi che bombardano Kiev. Nelle prime guerre fotografate, le immagini erano praticamente una visione teatralizzata sublimata perché la tecnologia non permetteva una visione diretta e rapida. Oggi, a parte le foto realizzate dai professionisti, ci sono molte informazioni fotografiche realizzate dai cittadini, come dicevamo. Questo cambia tutto.
Dinanzi a tutti questi sconvolgimenti, cosa resta della fotografia tradizionale?
Cambia la “cucina”, cioè la fabbricazione delle immagini, ma continua ad essere importante il concetto, l’idea, lo scopo. Utilizzo tutto il repertorio di moderni strumenti a disposizione perché arricchiscono la nostra palette creativa. Si tratta di scegliere i dispositivi che consentono di cristallizzare al meglio un’idea in un’immagine.
Qual è il suo prossimo progetto?
In questo momento, lavoro con Stable diffusion (N.d.R. un modello di apprendimento automatico profondo che partendo da un testo genera un’immagine precisa) per creare paesaggi che non esistono: alberi, piante, fiori. Mescolo queste immagini apparentemente documentali con foto reali per riprodurre scenari immaginari di nature esotiche. Sto preparando un’esposizione, il cui titolo sarà “What Darwin missed”, dove cercherò di capire cosa è sfuggito a Darwin. Ho viaggiato per mesi e visitato le Isole Galapagos sulle orme della sua celebre spedizione scientifica.
Abbiamo detto che anche il fake può avere un valore positivo. Da cosa dobbiamo diffidare, allora?
Non dobbiamo cadere nel dogma, sacralizzando il sistema più attuale, potente e performante, ma stabilire un equilibrio tra il risultato artistico che vogliamo ottenere e il linguaggio per conseguirlo. Non abbandono la macchina fotografica tradizionale, mi servo di tutto quello che ho a disposizione.