Expat, la vita all’estero fra stage, retribuzione e work-life balance

Cronaca

Nadia Cavalleri

Com’è vivere, studiare e soprattutto lavorare all’estero? Ci sono davvero grosse differenze a livello di retribuzione? gli stage sono pagati meglio? Si riesce ad avere un ottimo bilanciamento fra vita privata e lavoro? Lo abbiamo chiesto ai giovani italiani che stanno vivendo questa esperienza

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Le storie 

“Avevo vissuto in Italia tutta la vita” dice Sebastien, che adesso lavora nell’ambito dei finanziamenti alle start up tecnologiche, “quindi ho scelto di fare l’università inglese perché avevo voglia di fare un’esperienza all’estero. Dall’inizio c’è sempre stata questa idea che non volevo stare in Italia tutta la vita” precisa Sebastien, che fa anche un paragone con alcuni suoi coetanei che sono rimasti in Italia: “i miei amici che sono rimasti e hanno fatto università bellissime come la Bocconi e poi hanno iniziato a lavorare in Italia, finiscono per fare tirocini dove non vengono pagati tanto, quindi fino a 26 o 27 anni si trovano a fare un sacco di internship senza avere una retribuzione adeguata, mentre all’estero per gli stessi tirocini vieni pagato molto di più”.

“Nella situazione in cui siamo noi come piccoli imprenditori” spiega invece Marco, che oggi vive in Polonia dove con la compagna ha avviato un’azienda che produce abbigliamento, “paghiamo meno tasse e quindi automaticamente risparmiamo…in più la vita qui in Polonia costa meno, perciò alla fine riesci a mettere più soldi da parte”. “Per quanto riguarda il life-work balance” prosegue Marco  “posso dire che in Italia non l’ho mai avuto: lavoravo sempre, senza vere tempo per me, la mia famiglia, gli amici… e questo non mi piaceva affatto”.

“Gli stipendi sono molto più alti” conferma Sofia, graphicdesigner in Svezia, “uno stage arriva ad essere retribuito fino a 1.800 euro netti al mese, che sono considerevoli rispetto ai 700 cui potresti aspirare in Italia”.

“Ho colto la palla al balzo sia perché ho trovato un’opportunità a livello professionale e sono andata a lavorare in una realtà internazionale, sia perché a livello personale sto realizzando un sogno che era proprio quello di vivere all’estero” ci racconta invece Francesca, a Madrid come product manager. “Nella mia azienda le ore lavorative giornaliere sono 7, quindi devo dire che nel mio specifico caso c’è un ottimo bilanciamento fra lavoro e vita privata” ci spiega.

L’esperienza di Rachele è ancora diversa e unisce tutti gli elementi che spingono la partenza: studio, lavoro e amore. Dopo aver fatto un master in Cina durante il suo percorso di studi infatti, si è fermata lì, ha iniziato a lavorare e ha anche trovato l’amore. Da sei anni ormai vive in Cina e ha un’agenzia di marketing insieme al marito. Entrambi hanno spopolato sui social “il nostro lavoro è iniziato un po’ per gioco” ci ha raccontato “oltre alla nostra agenzia siamo diventati influencer: in Cina abbiamo tre milioni di follower. Quando è iniziata la pandemia eravamo in casa e ci annoiavamo tantissimo, quindi abbiamo iniziato a registrare dei video per raccontare la nostra quotidianità… e questi video sono subito andati virali su tutte le piattaforme”.

“L’idea più diffusa”  ci spiega Delfina Licata, Caporedattrice del Rapporto Italiani nel mondo di Fondazione Migrantes “è che la maggior parte delle partenze riguarderebbe gli altamente qualificati, ma così non è: nello spostamento ci sono i laureati e anche gli altamente qualificati che hanno un percorso migratorio più facile, perché molte volte si spostano già con un contratto di lavoro in tasca, ma ci sono anche quelli con una preparazione medio-alta che partono con un diploma e che all’estero hanno la possibilità di trovare un lavoro confacente al loro titolo”.

La "mobilità malata"

Le storie sono tutte diverse: alcune partono da un percorso di studi, altre da un desiderio di affermazione personale, altre dall’esigenza di trovare uno stipendio adeguato. Delfina Licata di Fondazione Migrantes, che ogni anno intervista decine di giovani partiti per l'estero, chiarisce il punto per quanto riguarda proprio la spinta a partire “si parla del nostro tempo come l’epoca delle migrazioni. Il viaggio è più a portata di mano e i tempi ridotti, i costi ridotti, fanno sperimentare il percorso di mobilità in età molto più giovane”. “Parlo di una mobilità malata in questo momento dall’Italia” conclude Delfina “perché è unidirezionale: dall’Italia si può partire e quando si è all’estero non si può scegliere di tornare”.

“Mi chiedono tutti quanto rimarrò all’estero” conferma Francesca “in questo preciso momento non riesco né a vedermi a lungo termine in Spagna, né a tornare in Italia e nemmeno ad andare da un’altra parte. Per adesso sono qui, sto bene e voglio fare qualche altro anno di esperienza così. Valuto anche, un domani, di rientrare in Italia? Onestamente sì, ma quando avrò le condizioni per rientrare come un ‘cervello che rientra’ e quindi con la tassazione agevolata”.

 

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