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I nostri figli che sporcano l'arte per l'amore dell'ambiente

Cronaca

Domenico Barrilà

Nella tragica asimmetria tra un pianeta che oramai sembra perduto e l’incapacità delle nazioni di ascoltarsi, si trova la spiegazione dei gesti dimostrativi, che molti ritengono giustamente sgradevoli, ma che dovrebbero farci aprire gli occhi, come quello dei due giovani che un paio di settimane fa avevano imbrattato una versione dei Girasoli di Van Gogh, esposta presso la National Gallery di Londra

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Oggi, 26 ottobre 2022, un ragazzino si è dimenticato la felpa nel mio studio. La sera mi telefona, si scusa, dice che stava morendo dal caldo, sebbene nel mio studio le finestre fossero aperte.

Negli ultimi giorni è accaduto altre volte, le persone arrivano più coperte di quanto dovrebbero, conformandosi ai giorni del calendario, così appoggiano una giacca, un pullover o qualcosa del genere sul portabiti o dove capita e poi, non avvertendo la necessità di coprirsi, vista la temperatura, dimenticano di prelevarli.

Al giovane sedutosi qualche ora dopo il padrone della felpa, invece, è passato di mente che la settimana scorsa cadeva il secondo anniversario della rottura con la fidanzata, proprio l’avvenimento che lo aveva spinto a rivolgersi allo psicologo. Mentre me ne parlava mi veniva in mente l’indumento di prima, vittima dello stesso meccanismo: quando riteniamo che qualcosa non ci serva più, ce ne dimentichiamo.

Eppure, l’episodio che riguarda felpa possiede un valore simbolico assai più grande di quello che saremmo portati ad attribuire all’altro, poiché la catena di eventi che conduce dell’oblio è innescata surriscaldamento del Pianeta. Malgrado ciò, quasi nessuno si soffermerebbe sui motivi per i quali la felpa è stata abbandonata, salvo coloro che negli ultimi decenni, a qualche titolo, si sono dedicati alla causa della salute della Terra, a cominciare da Rachel Carson, che con il suo celebre volume “Primavera silenziosa”, pose le basi dell’ambientalismo, di cui sono figli proprio quei giovani che in queste ore stanno alzando il livello della provocazione, introducendosi nei musei di diversi paesi, rovesciando salse di pomodoro o altre essenze sopra celebri tele. Comportamenti che fanno discutere, ma che forse nascondono l’esasperazione di una generazione che non riesce a capacitarsi dell’incredibile sfasamento che esiste tra i continui allarmi lanciati dalle agenzie internazionali e i comportamenti degli stati.

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Appena lo scorso anno è stato pubblicato dall’Onu il sesto rapporto, sul clima in poco meno di quarant’anni, denunciando, con un linguaggio privo di mitigazioni diplomatiche che la crisi è reale e le sue conseguenze ormai irreversibili, preannunciando per i prossimi anni fenomeni metereologici spaventosi e imprevedibili, a cominciare da crescenti ondate di calore, piogge torrentizie, stagioni calde più lunghe e inverni sempre più brevi.

Di fatto l’agenzia delle Nazioni Unite, autrice del rapporto, ci spiega perché il mio giovane paziente si è dimenticato la sua felpa sopra il divano dell’anticamera, dove attendeva il proprio turno, aggiungendo che oramai è certa la correlazione tra i fenomeni climatici verificatisi negli ultimi tempi -surriscaldamento dell'atmosfera, degli oceani e della terra- e le infrazioni dell'uomo, le quali non accennano a diminuire, anzi proprio la nostra specie si segnala per la strafottenza che mostra per un pianeta la nostra casa, oramai agonizzante. Pochi mesi dopo il rilascio del rapporto di cui si diceva, 190 paesi si sono riuniti a Madrid, per una conferenza sul clima, che si è miseramente arenata sotto le spinte di interessi contrapposti, che impediscono di trovare una ragione per ridurre entro pochi anni la temperatura del pianeta.

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In questa tragica asimmetria tra un pianeta che oramai sembra perduto e l’incapacità delle nazioni di ascoltarsi, si trova la spiegazione dei gesti dimostrativi, che molti ritengono giustamente sgradevoli, ma che dovrebbero farci aprire gli occhi, come quello dei due giovani che un paio di settimane fa avevano imbrattato una versione dei Girasoli di Van Gogh, esposta presso la National Gallery di Londra. L’intento non era certo quello di compromettere l’opera, opportunamente riparata dal vetro, ma di domandare a noi se siamo più interessati all’arte oppure alla vita. Quest’estate altri giovani si erano “incollati”, con le medesime finalità, alla Primavera di Botticelli, agli Uffizi, ma gli episodi, dell’uno e dell’altro tipo sono diversi, così come sono diverse le declinazioni della protesta, che diventa sempre più sistematica e clamorosa, com’è accaduto, sempre in questo periodo, sulle tangenziali Roma e Milano, bloccate dagli ambientalisti.

Lo stile è sempre più clamoroso, con effetti che sembrano ledere, almeno apparentemente, gli interessi della causa. Una miriade di persone bloccate mentre tornato a casa dal lavoro o una pletora di appassionati dell’arte che vanno in ansia per il destino dei capolavori che amano, non possono istintivamente simpatizzare per i manifestanti, eppure pare che oggi questi ultimi siano tra i pochi ad avere occhi per il futuro, mostrando una normalità psichica che al resto dell’umanità, impegnata nella giusta causa della sopravvivenza quotidiana, sembra sfuggire.

La psiche umana possiede una forte vocazione verso il futuro, il suo stesso funzionamento è finalisticamente orientato, attratto in modo costante da scopi molto precisi, due dei quali ci accomunano e prevalgono su ogni altra istanza, ossia la ricerca di considerazione e di sicurezza, che si estrinsecano attraverso i compiti vitali, rappresentati dall’amore, dall’amicizia e dal lavoro.

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Tali scopi, però, non sono buoni per definizione, perché lo diventino devono trovare una declinazione prosociale, cooperativa, perché fuori da questa condizione il Pianeta muore, come sta accadendo. Se ogni individuo decide di perseguire quegli obiettivi, che in sé sono sacrosanti, in dispregio dell’interesse collettivo, in modo distruttivo, finirà per ammalarsi e per ammalare l’ambiente circostante. La crisi climatica è la conseguenza del prevalere in ciascuno di noi di un’istanza velenosa, che prende nome di volontà di potenza, a danno dell’altra istanza fondamentale, il sentimento sociale, uno sfasamento che la nostra specie non potrà mai permettersi, pena l’estinzione collettiva.

In questo momento, quei ragazzi, che agli occhi sempre più distratti di chi corre senza porsi domande, spesso perché costretto, compiono azioni tanto sgradevoli e irritanti, sono tra i pochi fari accesi sul nostro futuro. Le loro pretese sono sane, perché puntano l’interesse collettivo. Fermarsi sulle modalità con cui ci provocano non aiuta né noi, né loro, né tantomeno il Pianeta, ma soprattutto non ci permette di cogliere l’atto d’amore incluso nei loro schiaffi al senso comune, incapace di farci prendere atto che stiamo morendo, che prima della guerra potrebbe ucciderci, come già fa abbondantemente, l’impazzimento del clima, a sua volta conseguenza di altri impazzimenti.

Nei giorni scorsi scrivevo che se rallentassimo solo del venti per cento, io perderei oltre metà dei miei pazienti, vittime di un modo di vivere indegno di noi, che ci ammala e riproduce in piccolo quello che la sommatoria di quelle corse sconsiderate sta infliggendo al Pianeta, abitato da animali, piante, esseri umani.

Certo, i modi dei contestatori non sono ortodossi, ma se in questo momento io ne scrivo e voi leggete, forse non sono vani.

 

 

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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