Morire di carcere, 3500 decessi sospetti dal 2000

Cronaca

Raffaella Daino

65 suicidi nel 2022. La Sicilia è la regione con il più alto numero di detenuti che si sono tolti la vita in cella. A Palermo l’Osservatorio Antigone ha organizzato un sit in con i genitori di alcuni ragazzi morti in carcere

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“Quel posto è un inferno, da lì i più fragili non escono vivi” dice tra le lacrime Maria, mamma di Francesco Chiofalo, entrato al carcere Pagliarelli di Palermo il 17 luglio 2019 e morto in circostanze ancora non chiarite il 27 marzo 2021. “La nostra agonia dura da 18 mesi, non ci dicono cosa è successo, come è morto Francesco, ci hanno genericamente detto che è stato colto da un malore ma non ci hanno mai fornito i risultati dell’autopsia. Chi sa qualcosa parli”. Lancia il suo appello disperato, Maria, per chiedere che si conosca la verità su una delle tante, troppe morti misteriose avvenute dietro le sbarre. Il volto del figlio stampato sulle magliette che indossano lei, il marito e i figli davanti al tribunale durante un sit in di protesta organizzato dall’Osservatorio Antigone.

 

3500 casi di decessi avvenuti in circostanze poco chiare dal 2000, l’ultimo caso il 3 ottobre, al carcere Ucciardone di Palermo, e già 65 suicidi da inizio anno, di cui 10 nei penitenziari siciliani, che soffrono sovraffollamento, strutture fatiscenti, carenza di psicologi e mediatori. “Una emergenza ignorata dalla politica”, dice Pino Apprendi da sempre in prima linea con l’associazione Antigone Sicilia per i diritti dei detenuti “Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di giovani in carcere per reati minori - aggiunge -  e in condizioni di fragilità psicofisica. A chi è stato condannato è giusto far scontare le pene inflitte per i reati commessi, ma queste non possono e non devono trasformarsi in condanne a morte, devono essere una speranza di cambiamento, come peraltro è previsto dal nostro ordinamento”.

 

Rita Barbera è stata per oltre 30 anni direttrice di penitenziari. “Persone con disturbi psichici e problemi di tossicodipendenza dovrebbero esser seguiti in comunità e non finire in carcere dove le loro condizioni non possono che aggravarsi”.  Ma i posti nelle comunità sono pochi e l’attesa lunghissima,  a volte troppo lunga.  E davanti al tribunale si intrecciano le storie di tanti genitori che hanno perso un figlio nel più tragico dei modi. Ragazzi con problemi di tossicodipendenza, finiti in cella per piccoli furti e rapine, che avevano bisogno di cure, che erano destinati ad una comunità e non dovevano trovarsi in carcere. Ragazzi come Roberto e come Samuele, che stavano male, così male da non farcela più.

 

Il papà di Roberto, Ino, è un poliziotto in pensione. “A luglio” – mi racconta – “avevamo ricevuto una lettera in cui mio figlio si scusava per i problemi che ci aveva causato e mi diceva papà ti voglio bene. Il 28 agosto ha deciso di uccidersi. Un’ora prima ci aveva rassicurato, nonostante le condizioni in carcere fossero invivibili, aggravate dal caldo atroce di questa estate, celle roventi, 40 gradi e solo una doccia permessa a settimana. “Mio figlio chiedeva aiuto, diceva di star male e nessuno lo ha ascoltato, nessuno lo ha aiutato. Era in cura per problemi psichiatrici, doveva essere trasferito in un’altra struttura, ma un posto per Roberto non si è mai trovato”.

 

Roberto Vitale è morto il 15 settembre dopo una lunga agonia in ospedale. Aveva 29 anni, come Samuele Bua, il volto sorridente stampato sulla maglietta che davanti al Palazzo di Giustizia indossa la mamma Lucia. “Mio figlio non doveva stare in una cella. Il suo grido d’aiuto è rimasto inascoltato”. Entrato in carcere il 3 maggio del 2018, è morto il 4 novembre. Suicidio, hanno scritto i medici. Ma mamma Lucia non riesce, ancora, a crederci.  “Ucciso dall’indifferenza, dalla solitudine”.

 

 

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