L'ultimo appuntamento con la tavola rotonda virtuale condotta dal direttore Giuseppe De Bellis. Nella puntata vengono proposti i migliori interventi raccolti nel corso di questa edizione
"Idee per il dopo" ha raccolto in un'unica puntata tutti i migliori interventi della tavola rotonda virtuale per capire come sarà la vita dopo il Covid-19. Lo speciale è disponibile sia sul sito di Sky Tg24 (QUI TUTTI I VIDEO DELLE PUNTATE) e On Demand. (LO SPECIALE)
Dieci puntate tra ospiti internazionali e idee per il futuro
Per dieci puntate numerosi ospiti internazionali, intervistati e stimolati dal direttore di Sky TG24 Giuseppe De Bellis, hanno proposto idee e riflessioni per immaginare il futuro post Covid, per capire come sarà il "New normal", in ambiti fondamentali della nostra vita sociale, riflettendo su lavoro, potere, democrazia, leadership e globalizzazione. Tra i temi affrontati anche la vita digitale, il futuro delle città e la nuova urbanistica, il ruolo dell’automazione, la scienza e la ricerca di un vaccino. A queste domande hanno dato una risposta quaranta tra le menti più brillanti di questa era, collegate da tutto il mondo in uno studio dalla scenografia spettacolare e immersiva. L’appuntamento ripropone tutti gli spunti e le proposte più interessanti per ripensare la società, come collettività e come individui, ma anche per immaginare possibili scenari futuri in ambito economico e politico, per capire come potremo vivere, e convivere, con il Coronavirus.
Tutti gli ospiti dello speciale conclusivo
Gli ospiti delle dieci puntate e protagonisti dello speciale conclusivo sono: Anjana Ahuja, Paola Antonelli, Paul Berman, Brunello Cucinelli, Amy C. Edmondson, Claudio Descalzi, Luciano Floridi, Carl Benedikt Frey, Francesca Gino, Megan Greene, Brennan Jacoby, Andrew Keen, Simon Kuper, Jill Lepore, Gideon Lichfield, Winy Maas, Tim Marshall, Alessia Melegaro, Giorgio Metta, Douglas Murray, Sabina Nawaz, Moises Naim, Sabina Nuti, Gianpiero Petriglieri, Jennifer Petriglieri, Alessandro Profumo, Tomas Pueyo, David Quammen, Carlo Ratti, Alec Ross, Carlo Rovelli, Riccardo Sabatini, Maria Savona, Jeffrey Schnapp, Giuseppe Soda, Helle Soholt, Andrew Ross Sorkin, Francesco Starace, Cedric Villani e Lawrence Wright.
Speciale Idee per il dopo
Giuseppe De Bellis: Siamo all'ultimo appuntamento di Idee per il dopo. Abbiamo vissuto questa esperienza unica del Covid-19, prima, durante il lockdown, e poi nella fase di riapertura. Abbiamo avuto 40 ospiti, 40 tra le menti più brillanti di questa era. Le loro idee hanno disegnato il percorso di questo programma e questa sera le riascoltate in una formula nuova. Benvenuti a Speciale Idee per il dopo.
David Quammen: Ce la siamo andati a cercare, nel senso che i nuovi virus come questo arrivano sempre dagli animali selvatici. Partono dagli animali e vengono trasmessi all'uomo, perciò più distruttivo è il nostro rapporto con loro, e con i vari ecosistemi in cui vivono, maggiore è il pericolo di trasmissione di un nuovo virus agli umani. Così cmoe la possibilità che non faccia ammalare solo un individuo ma che si possa trasmettere da uomo a uomo, dando vita a un'epidemia e successivamente anche a una pandemia. Questo è quanto. Sì, è costoso prepararsi per un evento come questo ma non era un evento improbabile: sapevamo che stava arrivando qualcosa del genere, ignoravamo soltanto quando sarebbe successo. Sapevamo che avrebbe richiesto miliardi di dollari per essere davvero pronti ed era una grossa spesa, ma ora stiamo perdendo svariati miliardi di dollari in più, a causa della reazione tardiva. Possiamo incolpare solo noi stessi per aver causato la trasmissione e non esserci fatti trovare pronti nel contenerla una volta avvenuta.
Lawrence Wright: Credo che ci troviamo a un bivio. Le guerre e le depressioni della pandemia dimostrano il tipo di società in cui viviamo. È evidente come se la guardassimo con i raggi X, siamo tutti al corrente delle carenze della nostra civiltà, in particolare la parzialità, l'inutile rivalità con la ragione, la mancanza di rispetto verso le scienze, c'è una lunga serie di difetti a cui bisogna porre rimedio e possiamo farlo. Abbiamo già avuto ragione di sfidarla prima d'ora. In America, durante la Grande Depressione, abbiamo riplasmato totalmente la società, dopo il 1918, la fine della Prima Guerra Mondiale, c'è stata un'altra spinta verso i ruggenti Anni Venti. L'11 settembre ha portato all'invasione dell'Iraq, quindi abbiamo tra le mani l'occasione di sottoporre la società a un cambiamento radicale che la renda, più forte e coerente, più comprensiva, ma sta a noi farlo succedere.
Francesco Starace: Quello che ha fatto questo virus, questa epidemia che ci sta contagiando o comunque che aleggia intorno a noi, ci ha fatto comprendere, come se avessimo fatto un viaggio nel tempo, delle cose che stavamo già capendo. Cioè ci ha fatto capire il valore di determinati temi, ci ha fatto capire il disvalore di determinati comportamenti e ce lo fa capire in mesi invece che in anni e di conseguenza ci dà la possibilità di prendere adesso decisioni che avremo magari ripreso o che stavamo, in qualche maniera, elaborando lentamente all'interno dei nostri processi decisionali. Quindi, il clima, i rapporti tra di noi, certi valori. Il fatto di non lasciare disastri dietro di noi ma sostanzialmente migliorato quello che in questo momento abbiamo. Tutti pensieri che avevamo anche prima, non che è che li abbiamo scoperti durante questo periodo, ma questo periodo ce li ha fatti maturare con una velocità straordinaria. E penso che abbia in qualche maniera indirettamente convinto chi non era magari tanto convinto. Ci troviamo in mezzo a un sacco di sofferenza, in una crisi economica assurda, ma con una incredibile opportunità: quella di fare un reset e veramente accelerare nella direzione giusta.
Carlo Rovelli: In questa epidemia, il pubblico si è molto rivolto alla scienza cercando delle risposte e i politici hanno spesso messo la scienza davanti. Abbiamo sentito in tantissimi paesi la dirigenza politica dire: faccio quello che la scienza dice. Allora, c'è un lato molto buono in questo, la scienza non è una casta sacerdotale, è semplicemente l'insieme di quello che sappiamo sul mondo. Purtroppo molto spesso la politica lo ignora e l'abbiamo visto con il riscaldamento climatico. Molto spesso la politica, la gente, i media, fanno come se non sapessimo delle cose, invece delle cose le sappiamo. Ma c'è anche il lato opposto di questa cosa qui, e cioè le decisioni non le possono prendere gli scienziati perché sapere qualche cosa non è la stessa cosa che decidere. Le decisioni sono politiche, le decisioni sono prese da tutti i cittadini e sono prese da chi sta al potere che è votato dai cittadini, o in qualche maniera scelto o sorretto dalla dell'opinione pubblica.
Douglas Murray: Vorrei far notare solo che, nel panorama politico, sono successe delle cose affascinanti. Direi che la prima interessa tutti i nostri paesi in qualche modo e vale la pena menzionarla perché passa spesso inosservata. L'Italia negli ultimi anni, o il mio paese, la Gran Bretagna, e tutti gli stati europei che mi vengono in mente, parlano da anni del fatto di non essere uniti. Sostengono che manchi la fiducia nelle istituzioni politiche, che non ci si fidi degli esperti, eccetera. Credo che questa crisi abbia dimostrato che non è vero, o perlomeno che ci siano poche teste calde. Ne abbiamo discusso molto ed è emerso che quando un dirigente politico eletto informa la popolazione di un problema serio come la pandemia; quando gli scienziati esperti appaiono pubblicamente la gente ascolta. È una cosa che non è stata rimarcata abbastanza, ma su cui penso potremmo fare affidamento nei prossimi anni. Qual è la fiducia vera e quali sono le discussioni fasulle sulla fiducia.
Giuseppe De Bellis: Che cosa significa per ciascuno di voi il new normal, in una frase o in una parola.
David Quammen: Se ci sarà un new normal, includerà la consapevolezza che la normalità è molto fragile
Lawrence Wright: Le città potrebbero riorganizzarsi in modo interessante, per esempio creando una sensazione di igiene.
Francesco Starace: Penso che ci sarà più verità, più coraggio e più solidarietà tra le persone.
Carlo Rovelli: Recuperare la serenità della vita ma con maggiore consapevolezza della nostra fragilità e dell'importanza di collaborare tutti
Douglas Murray: Ci ricorderemo quali legami e contatti hanno veramente significato per noi. In particolare quali sono le persone più vicine.
Giuseppe De Bellis: Abbiamo i leader giusti o c'è bisogno di leader diversi?
Brennan Jacoby: Chiederei piuttosto se i leader che abbiamo al momento stiano usando il loro potere nel modo corretto, dato il tipo di sfida che stiamo affrontando. E qui vorrei attingere dalla letteratura accademica riguardo tali questioni: Nello specifico faccio riferimento al cosiddetto problema complesso. Un problema di questo tipo è un quesito caratterizzato da un alto grado di incertezza, un alto grado di complessità e nuove variabili. E credo che la crisi corrente di coronavirus sia l'esempio perfetto di un problema del genere. Questo è in contrasto con quelli che chiameremmo problemi docili o timidi, ossia problemi altrettanto critici ma che nonostante comportino una certa impellenza non presentano un alto grado di variabilità e complessità. E se la paragoniamo con altre pandemie come la SARS o simili, questa sembra molto differente, per i motivi per cui abbiamo già discusso. Va concepita come un problema complesso, la ragione per cui è importante, è che è stato dimostrato che davanti un problema complesso il modo in cui si dovrebbe usare il potere di leader non è solo quello di dare risposte veloci, ma di fare domande. Quando siamo di fronte a un problema urgente ma più semplice come, ad esempio, un edificio da evacuare in fretta. È quello il momento in cui un leader deve dire “vai da quella parte!”, ma quando si presenta una sfida complessa e incerta come il coronavirus, è meglio non avere qualcuno che si alza in piedi e dica “Sono il solo a conoscere le risposte. Solo io so cosa bisogna fare”
Amy C. Edmondson: I leader di cui ci fidiamo sono quelli che ci sembrano più sinceri con noi, parlano oggettivamente, ci dicono quello che sanno e quello che non sanno e in questo momento, che risulta così pieno di problemi, ci danno una base razionale a cui aggrapparci. Ci fanno sapere che sono convinti che siamo in grado di superare le sfide che si presentano davanti ai nostri occhi e lo fanno con un senso di apprensione ed empatia riguardo quello che dobbiamo affrontare. Quindi: oggettività, speranza e comprensione, sono questi gli ingredienti per instaurare la fiducia e per aiutarci ad affrontare alcune delle cose che ci aspettano e che saremo obbligati a fare in modo che la società riesca a superare questa pandemia.
Gianpiero Petriglieri: Una crisi sanitaria globale non è una guerra. Non c’è il nemico, non c’è il cattivo nelle caverne da andare a scovare, non c’è la vendetta, non c’è il confine da proteggere, siamo tutti esposti a un’ansia, non legata all'attacco di un nemico ma esistenziale, per cui una crisi globale non si risolve con la guerra ma si risolve con la cura. Se vogliamo cercare una leadership competente guardiamo alle terapie intensive, non guardiamo ai generali, non guardiamo agli atleti, non guardiamo ai profeti che sono i nostri classici modelli di leadership. Qui abbiamo bisogno del clinico, dello scienziato, di quello che abbiamo denigrato per decadi, il noiosissimo manager che organizza una risposta capillare, che coordina, che controlla, che guarda i dati, che guarda la scienza, prende magari delle decisioni difficili non soltanto per il benessere economico o soltanto per il benessere sociale, ma per trovare un compromesso tra questi imperativi diversi. Tutto questo noi lo abbiamo diminuito con il culto della leadership che ci ha intossicato e che ci ha sedotto negli ultimi trenta/quaranta anni e adesso ne paghiamo il prezzo.
Francesca Gino: Mi aspetto che i leader che emergeranno come vincenti, secondo la mia opinione, sono quelli che stanno cercando di mantenere una visione di lungo periodo. Sono quei leader che invece di fare delle scelte molto veloci che potrebbero salvare dei costi in questo momento, pensano a come utilizzare le risorse che hanno per essere più creativi nel modo in cui lavoriamo. Sono i leader che non stanno aspettando che questa crisi finisca, ma stanno valutando veramente come pensare in modo nuovo e più innovativo quello che sta succedendo.
Jennifer Petriglieri: Sarà senz'altro un mondo più ansioso e sono convinta che ci sia una cosa che molti dei nostri leader non hanno capito: non pensano alle disparità, abbiamo detto che il virus non colpisce allo stesso modo. Sappiamo che negli Stati Uniti alcune minoranze hanno una percentuale di contagio maggiore delle altre e maggiori tassi di mortalità. Vediamo, ad esempio, che le donne sono più soggette ad essere licenziate rispetto agli uomini. Vediamo nelle famiglie delle disuguaglianze riguardo a chi ha il controllo dei soldi e chi si occupa della casa e chi no. Perciò una delle cose che mi preoccupa è che i nostri leader sono così comprensibilmente concentrati sul virus, sulla ricerca di un vaccino, sui servizi sanitari, che le disuguaglianze del mondo si faranno sempre più importanti nella nostra società. A lungo termine questo porterà un problema enorme che dovremo affrontare, a meno che i leader non smettano di pensare in questa maniera.
Jill Lepore: Credo che un grosso problema internazionale sia un'assenza di leadership americana sulla scena mondiale, e la domanda da porsi, a cui rispondere, sul rapporto tra Usa e Cina e sul globalismo in generale sia se c'è ancora posto sulla scena mondiale per gli Stati Uniti dopo Trump. Vale a dire, gli Stati Uniti si sono posti, a partire da Roosevelt, come leader di un ordine mondiale post bellico di stampo liberale. Nonostante i molti fallimenti, esercitavano una specie di forza motivante con una serietà democratica nei confronti di quel ruolo. Un'umanità e una generosità di spirito e una buona fede che sono venute a mancare dall'inizio della presidenza di Trump. Anzi, sono state totalmente distrutte. Quindi penso che il dubbio riguardo alle elezioni americane di novembre sia: se Trump dovesse perdere, ci sarà ancora un posto per il prossimo presidente?
Brennan Jacoby: Il New Normal è la ricerca umile ma coraggiosa di un modo per vivere al meglio.
Amy C. Edmondson: Spero che il new normal prenda in considerazione il vero problema cioè il cambiamento climatico.
Gianpiero Petriglieri: Il new normal non esiste.
Francesca Gino: Io vorrei che il new normal fosse un momento in cui essere più capaci di apprezzare le cose piccole nella vita che ci danno la gioia e di mantenere la prospettiva.
Jennifer Petriglieri: Si spera che il new normal sia un ritorno alle origini e che ci faccia capire quello che conta davvero.
Jill Lepore: Penso che ormai sarà impossibile respingere ancora la questione della giustizia razziale ed economica.
Giuseppe De Bellis: In una fattispecie come quella del Covid-19, la democrazia può essere un limite?
Tim Marshall: Sì, ma è un prezzo che paghiamo per la ricompensa maggiore che è la libertà. Questo si ricollega a un altro argomento, ad esempio, si è sempre ritenuto che ci fosse bisogno di una democrazia liberale, per avere un economia florida, e la Cina ha dimostrato che non è necessariamente così. Perché ora, la dittatura cinese, che è un regime brutale, sta dimostrando che può usare metodi coercitivi per controllare le persone e questa è una cosa molto negativa. La nostra libertà a volte si rivela essere una debolezza ma viene bilanciata da suoi punti di forza. La mia paura è che quando sarà finita, perché finirà, l'urgente bisogno di alimentare la nostra economia farà in modo che le idee che ci servirebbero davvero, se non messe da parte, saranno un pensiero secondario. Questa idea di rinverdire le città potrebbe essere oscurata dalle pressioni politiche sul sistema economico. Per concludere, penso che fra le grandi tendenze storiche, il Covid-19 non avrà un grande impatto come ad esempio i cambiamenti climatici. Pensiamo all'influenza spagnola del 1919, non ha cambiato il corso della storia, quello che l'ha fatto è stata la caduta dell'Impero austroungarico e dell'Impero ottomano e quello che è successo negli anni '30 e '40. Questi eventi hanno avuto effetti più grandi ma sono completamente d'accordo con gli altri, bisogna riuscire a sfruttare questa opportunità per educare le persone su come, forse, dovremmo provare a vivere. Ma ho paura che possano essere sovrastati da altre voci.
Moises Naim: Stiamo cominciando a vedere i dati dei Paesi dove le istituzioni e la democrazia funzionano meglio. Stiamo vedendo che è necessario che ci sia lo Stato, che ci sia un governo, che ci sia la capacità di coordinare differenti segmenti della società. E allora è una combinazione di libertà e competenza dello Stato. C'è bisogno dello Stato che fa le cose meglio. Credo che c'è anche una chiarezza non sufficente per i leader in questi tempi: non bastano le promesse, non bastano le storie che fanno felici chi li segue ma che sono molto divisive. Credo che ci sarà un appetito maggiore per la competenza, per fare le cose bene, per leader che non dicano bugie. Uno dei grandi temi di questo tempo sono le bugie come strumento politico.
Paul Berman: Siamo in una posizione che ricorda molto da vicino la guerra e stiamo affrontando gli stessi quesiti che l’umanità si è posta durante e dopo la guerra mondiale, più di 70 anni fa. Ci sarà una reazione collettiva a tutto quello che accade nel mondo? E in caso affermativo sarà migliore di quella che c’è ora? Oppure tutto questo provocherà un ritorno alla situazione politica che era in vigore prima della Seconda Guerra Mondiale? Che poi è lo stesso mondo in cui c’erano nazionalismi separatisti, belligeranti oppur basati sulla tenuicità, e altri movimenti simili. Quelle sono le domande, quelli sono gli interrogativi che in questo momento dobbiamo porci nella vita di tutti i giorni in ogni Paese e sono gli stessi a livello internazionale.
Tim Marshall: Quello che ci attende fra un anno, se tutto va bene, è molto simile alla vecchia normalità
Moises Naim: Never normal, non ci sarà una normalità stabile, ci sarà un'enorme incertezza e un'enorme volatilità
Paul Berman: Per me la nuova normalità consiste nel mistero, nell'incertezza, nell'ansia e nella paura.
Giuseppe De Bellis: Sorkin, quanto la crisi economica, che è conseguenza della pandemia globale, secondo lei, è una crisi sistemica o una crisi congiunturale? Cioè è una crisi che ci porteremo avanti per molto tempo o siamo già certi che la potremo superare nel prossimo anno?
Andrew Ross Sorkin: Ci sono due crisi in atto in questo momento. La prima è l'emergenza sanitaria, che alla fine verrà risolta dalla scienza e dagli esperti tramite vaccini, trovando delle terapie che impediscano alla persone di ammalarsi o di morire: ma questo è tutto da vedere, anche se dovremmo essere fiduciosi per il bene dell'umanità. Quanto alla seconda crisi, che secondo me si sovrappone a questa, riguarda il campo economico e potrebbe avere conseguenze sia a breve che a lungo termine. A breve termine si tratta di quella che alcuni descrivono come un crisi di liquidità per le piccole aziende di tutto il mondo e la domanda è se riusciranno a superare i problemi avuti tra febbraio e marzo e rimettersi in piedi. Potrebbe anche diventare una crisi della solvibilità, quelle imprese potrebbero faticare a restare aperte. Oltre a questo si pone un interrogativo più grande, o meglio un problema monetario. Le banche centrali di tutto il mondo faranno fronte alla crisi stampando moneta in quantità mai vista prima, quindi penso che la vera domanda sia: che cosa significhi quando tutte le banche stampano soldi, in pratica compriamo la nostra valuta, e se ci pensiamo bene, ogni crisi finanziaria comincia con la speculazione. E quando viene a mancare la fiducia nel sistema, questo viene abbattuto. Questa è una domanda a cui, secondo me, non abbiamo ancora una risposta.
Megan Greene: Non penso che qualcuno potesse prepararsi alla scala della crisi che stiamo affrontando, era un rischio circoscritto e prepararsi a questo sarebbe stato costoso e insensato, data la scarsa probabilità che si verificasse. Ma detto questo, c'è qualcosa che avremmo potuto fare. Credo che l'Europa si sia comportata meglio degli Stati Uniti in alcuni casi, soprattutto perché gli stati europei hanno in generale una rete di sicurezza sociale migliore di quelli americani e quello che abbiamo scoperto negli Stati Uniti è che quella rete di sicurezza ci manca. La risposta della politica in tutto il mondo è stata quella di mettere l'economia nel congelatore per un paio di mesi mentre conteniamo il virus e l'idea è che si possa tirare fuori e scongelarla una volta che il virus sarà stato debellato. Ora stiamo scoprendo che questo richiederà più di qualche mese, quindi il recupero a forma di V che molti economisti ipotizzavano all'inizio della pandemia sembra molto improbabile a questo punto. È difficile capire quanto durerà o che curva seguirà la ripresa perché questa è una domanda che riguarda più l'epidemiologia che l'economia, ma penso che l'idea che si possa scongelare l'economia e tornare alla normalità sia fuori discussione.
Andrew Ross Sorkin: Il new normal sarà un punto interrogativo sulla globalizzazione e sul ruolo dell'America come leader di questo mondo.
Megan Greene: Credo che la globalizzazione dovuta ai governi top-down calerà drasticamente, mentre la globalizzazione digitale bottom-up aumenterà.
Giuseppe De Bellis: Le voglio chiedere una cosa su una recente intervista fatta dal principale leader del mondo libero, cioè il presidente degli Stati Uniti, in cui ha detto che già prima del Covid, ma poi anche per effetto del Covid, l'era della globalizzazione è definitivamente tramontata. Lei è d'accordo?
Alessandro Profumo: Sono parzialmente d'accordo, certamente il Covid ha avuto questa diffusione così veloce proprio perché siamo in un'era globale, in cui merci e persone viaggiano moltissimo. Penso anche che una parte delle soluzioni arriveranno dalla capacità di mettere insieme i mondi più diversi. Pensiamo in modo semplice al vaccino: è abbastanza chiaro che un singolo Paese non avrà la capacità di sviluppare un vaccino, non avrà la capacità di produrre i miliardi di dosi che saranno necessari. Quindi certamente delle forme di interconnessione fra capacità diverse continueranno a essere fondamentali.
Claudio Descalzi: La globalizzazione non è una cosa che si può spegnere e accendere, in quanto per come è strutturata da un punto di vista degli approvvigionamenti, della supply chain, dell'interconnessione fra industrie, ma non solo su questo, anche nella farmaceutica non c'è nessuno che fa tutto da solo ed è completamente in grado di essere autosufficiente. Quindi non è una cosa che si può spegnere, ma è proprio un sistema connesso dal punto di vista della ricerca scientifica, della digitalizzazione, della capacità di calcolo, della capacità di mettere a fattore comune idee e soluzioni che possono portare a rimedi. I vaccini non sono l'unico rimedio, anche perché poi molte pandemie convivono: in Africa abbiamo avuto tre cicli di pandemie, che poi fortunatamente non sono arrivate in Europa, che sono state seguite e curate grazie un approccio globale visto che poi in molti casi, come in questo specifico dell'Africa, non potevano farlo da soli.
Giuseppe Soda: La globalizzazione in verità stava subendo una ritirata già prima del Covid. Questo perché le guerre commerciali avevano già influenzato molto il flusso del commercio internazionale. Certo, il Covid ha dato una accelerata importante, ma attenzione perché la globalizzazione non è solo le merci. Pensate agli spostamenti delle persone: noi, ad esempio, abbiamo tantissimi studenti internazionali. In questi mesi non abbiamo osservato una riduzione della propensione a muoversi per andare a studiare in altri posti. Certo, adesso c'è un po' di paura però riguardo a quella propensione, a quei comportamenti, che spingono milioni di studenti a muoversi in tutto il mondo, al momento non abbiamo osservato una modifica sostanziale.
Sabina Nuti: A me piacerebbe, coniare una parola. Potremmo diventare glocal. Cioè, da un lato, secondo me, recuperare l'identità dei propri territori. Una cosa incredibile successa in questo periodo è come le persone abbiano riscoperto alcune tradizioni, anche di tipo culinario, per esempio. Come trovare tempo per riscoprire chi siamo. Da questo punto di vista locali. Anche l'idea di non potersi muovere è una prospettiva incredibile. Penso soprattutto sia stata una nuova esperienza per i nostri ragazzi. Al tempo stesso credo che tutti i collegamenti - come quello che stiamo facendo in questo momento - la possibilità di incontrarci in un dibattito con persone che sono dall'altra parte del mondo. La facilità con cui avere informazioni da tutti e il fatto che tutti stiamo vivendo la stessa criticità ci fa sentire anche più vicini. E quindi in un certo senso glocal, anche global. Penso che le due prospettive, incredibilmente, si possono matchare, che si possono combinare.
Tomas Pueyo: Non è possibile che diventeremo più locali. Sono d'accordo sul fatto che proveremo a vivere in modo più locale. Ma questo è un problema globale. Che richiede soluzioni globali e le misure che abbiamo adottato in questa situazione, come ad esempio il lavoro a distanza e quant'altro, andranno a promuovere anch'esse le interazioni a distanza. Detto questo, sono d'accordo con chi diceva che l'essere umano ha bisogno di avere un contatto fisico con i suoi simili, ma ciò non vuol dire assolutamente che in futuro diventeremo più locali che in passato: saremo sicuramente più globali. Tutti i problemi e le soluzioni e gli strumenti che usiamo vanno in quella direzione.
Alessandro Profumo: Per me il new normal dev'essere un mondo in cui riusciamo a mettere un po' da parte il tipico individualismo italiano e iniziamo a operare come sistema in modo più forte.
Claudio Descalzi: Spero che questo new normal ci faccia essere più generosi, più all'ascolto, e che si riesca a volere più bene agli altri.
Giuseppe Soda: Il new normal è non pensare che il lavoro sia solo un insieme di task che si possono eseguire dovunque.
Sabina Nuti: Credo che ripensare all'equilibrio e alle priorità nella nostra vita sia ciò che ci porteremo dietro nel nostro futuro.
Tomas Pueyo: Ci sono due tipi di new normal: quello prima del vaccino e quello dopo.
Giuseppe De Bellis: Sabatini, lei si occupa di ricerca genomica. Mi interessa sapere se questo campo della ricerca può portare dei risultati anche nella ricerca legata alla soluzione del problema Covid-19 o no?
Riccardo Sabatini: Certamente. Uno dei tentativi delle ricerche che vengono portate avanti è quello di cercare di capire se esistono dei pattern genetici che spieghino, appunto, la prevalenza e la mortalità fra alcune sotto popolazioni. Anche nella comparazione Italia verso mondo, Europa verso mondo. In generale, la mappatura del genoma ha dato le tecnologie per fare la mappatura di qualsiasi genoma. Ripeto: dopo pochi giorni dall'identificazione del virus, abbiamo avuto il sequenziamento del genoma del virus. Se si fosse parlato 10 anni fa di una cosa del genere, sarebbe sembrata una storia da Zoolander, che in 10 giorni, due settimane si riusciva a fare il sequenziamento di un virus. È stata un'evoluzione cambriana. Avere la possibilità di poter sequenziare un virus è anche la capacità di seguire le sue mutazioni durante l'evoluzione della pandemia. I virus mutano, si adattano, si adattano agli host, si adattano in generale all'ecosistema su cui stanno appoggiando il loro spread. La capacità di mappare il genoma è la capacità di mappare le diverse generazioni del virus, cercando di capire quali siano i punti stabili di attacco. Così da andare a fare una terapia di vaccinazione che protegga la popolazione da uno spettro di virus che ha subito un pool di mutazioni differenti. Si sta facendo ancora una volta uno sforzo incredibile, non credo di aver mai visto un simile numero di pubblicazioni, di scambio di dati scientifici attraverso ricerca pubblica, ricerca privata. L'informazione genomica è la chiave del futuro dell'evoluzione del virus, della capacità di costruire vaccini, di difenderci in maniera predittiva, rispetto anche alle future mutazioni. Di fondamentale importanza, ormai è uno strumento che usiamo costantemente.
Anjana Ahuja: Abbiamo già visto la competizione, per esempio, con alcuni stati che dicono che se il vaccino o il trattamento verrà sviluppato in determinati paesi, potrebbero limitarne le esportazioni altrove. Questo ci dimostra quanto sia limitato il nazionalismo, perché quello che stiamo affrontando è un problema mondiale e internazionale e dobbiamo trovare una soluzione equa per risolverlo al lungo termine. Sospetto che ci riusciremo a lungo andare, che troveremo un vaccino o una terapia, ma non so dire chi arriverà per primo. Nel frattempo, penso che ciò che ci ha concesso il lockdown, almeno ad alcuni di noi, è tempo per riflettere su queste domande riguardo la correttezza, l'equità, i limiti della conoscenza, il modo in cui vogliamo strutturare i processi e i vari sistemi in futuro, compreso quello sanitario. Lo sviluppo della ricerca e la condivisione dei tuoi vantaggi e la necessità di vivere tutti su un pianeta che si espande rapidamente in termini di popolazione ma che possiede delle risorse limitate. Come vivremo tutto ciò a lungo termine perché un'altra considerazione da fare è: ci saranno altre malattie come questa? Il modo in cui viviamo, con le pressioni cui siamo sottoposti, lo stare gomito a gomito in territori che prima non consideravamo, credo ci porteranno a contatto con altre malattie. Quindi vorrei che questa fosse vista da tutto il mondo come un'opportunità per imparare.
Brunello Cucinelli: Credo che ci sia una grande disputa fra il Creato e la Biologia, il Creato ci ha chiesto aiuto e noi glielo daremo. Sono abbastanza convinto di questo, quindi siamo nella fase di ricostruzione della nostra umanità. È chiaro che i cambiamenti saranno forti, saranno forti perché probabilmente non volgeremo le spalle alla povertà, perché torneremo a rivalutare il grande tema della vita: l'equilibrio tra profitto e dono e non vi è dubbio che incontreremo esseri umani, così ho detto ai ragazzi che lavorano con noi, questo è un momento dove, dopo così tanto dolore incontreremo esseri umani addolorati che hanno perso il lavoro, spaventati. E quindi dobbiamo essere speciali. Speciali significa: umani, gentili, educati, garbati, perché abbiamo bisogno, da una parte di grande umanità, dall'altra di coraggio e creatività. È un mondo nuovo e ci siamo resi conto che probabilmente abbiamo bisogno di tornare a investire nei grandi ideali. Primo di tutti, secondo me, l'educazione.
Anjana Ahuja: Il new normal consiste nel tornare a un certo tipo di vita, ma non a quella che conoscevamo.
Riccardo Sabatini: come riuscire ad aiutare i pazienti, come riuscire a costruire vaccini, come riuscire ad attivare il sistema immunitario.
Brunello Cucinelli: Io, onestamente, non sono troppo preoccupato: abbiamo la creatività, abbiamo coraggio e abbiamo umiltà.
Giuseppe De Bellis: Lei dirige il Digital Ethics Lab dell'Università di Oxford e ha coniato il termine “onlife”, ovvero quella vita che sta a metà, al confine, tra la vita reale e la vita digitale. La prima cosa che le voglio chiedere è: secondo lei, in questo momento, questo confine è stato superato o c'è ancora?
Luciano Floridi: In realtà ci siamo spostati tutti da una parte, cioè verso il digitale: è come se cercando l'equilibrio avessimo adesso necessariamente esagerato con una vita distaccata, digitale, online. Allora, quando si parla di onlife, e sono contento di vedere questa parola girare un po' per il mondo, è l'idea in realtà di combinare tutt'e due: cioè di unire sia l'online, sia l'offline, sia il digitale, sia l'analogico a esempio nello smartworking. Non nella telepresenza soltanto a casa, facendo a casa quello che dovrei fare in ufficio ma in realtà combinando al meglio tutte le componenti. Ecco, oggi viviamo molto online, poco onlife. Speriamo che il recupero dopo la pandemia sia veramente onlife.
Simon Kuper: Sono d'accordo che il futuro sarà più online, vale a dire che troveremo un equilibrio, che sarà diverso da quello che esisteva prima della pandemia. Le persone si sono sempre recate in ufficio cinque giorni a settimana, ma non credo che torneremo a questo. Costa alle aziende in termini di soldi e spazi, i dipendenti perdono tempo negli spostamenti. Ovviamente non si può lavorare da casa tutti i giorni. Immagino si lavorerà da casa quattro giorni, mentre il quinto si andrà in ufficio o in un bar, o in una sala riunioni, o in uno spazio apposito per rincontrare i colleghi, discutere i vari progetti, creare legami personali ma l'equilibrio sarà molto diverso dal passato. Sarà molto più spostato verso il digitale di quanto non lo sia mai stato.
Andrew Keen: Credo che la pandemia acceleri il futuro in molti modi diversi. Prima di tutto distrugge l'industria analogica e la vendita al dettaglio e trasforma lo spazio fisico in spazio digitale. Facciamo tutto on-line, compresa questa conversazione. In secondo luogo sta alterando la natura stessa dell'economia. In America, le 5 società informatiche più grandi fanno il 20% dell'economia. Da un lato, questa crisi aumenterà il dominio del mercato da parte di una piccola manciata di aziende che detengono il monopolio informatico. Ma alla lunga accelererà anche la reazione contro questa tendenza. Penso che man mano che la crisi si risolverà, la gente tornerà alla normalità. Inizierà ad apprezzare di più il valore dell'analogico e del fisico. Quindi l'effetto di questa crisi non è soltanto accelerare il trionfo del digitale. Questo succederà, soprattutto a breve e medio termine; alla lunga provocherà il contrattacco dell'analogico e ci renderemo conto che molti di noi non vogliono vivere in forma digitale. Vogliono tornare al mondo fisico.
Gideon Lichfield: Non c’è mai stata un’epoca finora in cui le macchine siano state più importanti dell’uomo o roba del genere, ma quello che stiamo osservando è una dipendenza crescente dalla tecnologia, soprattutto in alcuni ambiti, ovviamente questo si può già capire da quello che stiamo facendo adesso: siamo tutti seduti nei nostri salotti connessi via Skype in questa videoconferenza per parlarci a vicenda. Credo che assisteremo a un aumento della dipendenza da alcune tecnologie come le intelligenze artificiali che avevano già iniziato a farsi strada, per esempio, nella sanità dove sono state usate nella diagnosi di alcune patologie o nei sistemi di priorità del pronto soccorso per scegliere quale paziente trattare per primo. Assisteremo a un’accelerazione di questi processi perché è risultato molto utile durante il Covid-19. Alcune di queste tecnologie, che siamo stati costretti a implementare a causa della malattia, non verranno eliminate quando tutto finirà, verranno portate avanti. L’intelligenza artificiale verrà usata nel campo della medicina e vi sarà un’automazione più utile nei posti di lavoro, probabilmente crescerà l’uso delle videoconferenze, delle conferenze virtuali e delle riunioni virtuali perché ci stiamo rendendo conto che alcuni degli spostamenti che compivamo non erano necessari e penso che questo possa essere un fatto positivo. Credo anche che quello che tutto ciò sottolinea è la nostra dipendenza dalla tecnologia per risolvere una crisi come il Covid. Quello che conta non è la tecnologia, ma sapere come usarla nel modo più corretto e avere dei governi che siano tecnocraticamente capaci e che siano in grado di comprendere le potenzialità della tecnologia nella scienza e come applicarla.
Cedric Villani: La tecnologia è sempre un rischio e un'opportunità. Il pericolo è in quello che facciamo- Spesso e volentieri il problema non è la tecnologia in sé ma l'uso che ne facciamo noi esseri umani. Questo vale anche per le tecnologie nel contesto del coronavirus. Quando si parla delle applicazioni di contact tracing che sono in grado di ricostruire automaticamente la rete di persone con cui si è stati in contatto e avvertirle di sottoporsi al tampone, di mettersi in quarantena, farsi controllare e così via. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che, primo, abbiamo già un sistema di tracciamento a cui ci sottoponiamo volontariamente quando carichiamo informazioni personali sui social network o geolocalizzazione dei telefoni e via dicendo. Molti di noi non ne sono consapevoli, anche se non sappiamo non ci facciamo caso. Quando si parla dei pericoli di creare un nuovo database nelle mani del governo che registri e tenga traccia di tutte le persone che sono state infettate dal virus. Dobbiamo tenere in considerazione che esistono già molti database nel sistema sanitario che raccolgono informazioni sulla salute, spesso in condizioni di sicurezza informatica e non sono il massimo. Ci sono molti più rischi in queste tecnologie preesistenti che in quelle nuove. Ma questi discorsi vanno inseriti nel loro contesto che, come già è stato detto, è molto complesso al momento, quindi c'è molta più attenzione verso questa tecnologia che verso le precedenti ma se la conseguenza sarà aumentare la nostra consapevolezza sarà un bene. Personalmente sono uno scienziato e lavoro nell'ufficio parlamentare della scienza e dopo aver studiato a fondo le app di contact tracing non sono affatto preoccupato dei rischi per la vita privata e per il tracciamento, anzi. Credo che i rischi ci siano ma se confrontati dai potenziali benefici, i vantaggi sono maggiori e sono a favore. D'altro canto, ovviamente, dobbiamo mettere dei limiti alla sicurezza informatica è salvaguardare la privacy degli utenti, tenendo presente che saranno usate soltanto per un breve intervallo di tempo. Mi preoccupa molto di più quello che sta emergendo ora che queste app sono in corso di sviluppo e cioè che nei paesi europei e in tutto il mondo alla fine, si farà affidamento, in molti stati europei, se non in tutti, sulla benevolenza di Google e della Apple. E questo ci dimostra quanto ne siamo dipendenti e il fatto che ci sono in gioco delle decisioni politiche importanti per cui saranno necessarie la buona volontà e la cooperazione di questi colossi americani. Questo poi ci ricorda anche la mancanza di una sovranità nel campo digitale europeo.
Alec Ross: Se io sono italiano, se sono europeo e non voglio né il modello cinese - con le autorità che controllano le informazioni - né tantomeno quello americano - con le singole multinazionali che cercano solo di fare soldi, che hanno accesso illimitato ai miei dati e alle mie informazioni personali - sono convinto che questa sia una grande opportunità per dare vita a un nuovo modello europeo o italiano di come approcciarsi a questo tema. Per come la vedo io, la terra è stata la materia prima dell’era dell’agricoltura, il ferro è stato la materia prima dell’era industriale, i dati sono la materia prima dell’economia di oggi e di domani. Quindi il modo in cui viene regolato l’uso dei dati avrà la stessa importanza che avevano la gestione della Terra durante l’era agricola e il modo in cui erano organizzate le industrie e le fabbriche durante l’era industriale. Quindi c’è molto di cui avere paura e il risultato non è ancora noto, ma credo che questa sia un’ottima occasione sia per l’Europa che per l’Italia di imporre dei propri modelli che possono essere in contrapposizione allo stile americano e a quello cinese.
Gideon Lichfield: Penso che il new normal, sarà uno stato di consapevolezza amplificata, in cui faremo maggior affidamento su chi ci circonda.
Luciano Floridi: “We the people. Quando ci si mette e quando facciamo sul serio non c'è problema che non possiamo risolvere”.
Simon Kuper: Non ci sarà una soluzione internazionale perché c'è poca cooperazione tra i Paesi, quindi qualcuno troverà una soluzione che valga all'interno del proprio Paese o al massimo all'interno dell'Unione Europea.
Cedric Villani: Il new normal significa ricordare all'intero genere umano che siamo mortali.
Andrew Keen: Penso che il new normal sia la vittoria schiacciante del digitale con tutte le sue conseguenze.
Alec Ross: Credo che uno degli effetti del Covid-19 sarà che prenderemo più seriamente problemi come il riscaldamento globale, per questo sono convinto che ci renderà una società molto più seria.
Giuseppe De Bellis: Secondo lei, l'automazione va frenata in qualche modo o solo regolata, o addirittura non va regolata affatto?
Carl Benedikt Frey: Certo che no, l'automazione è una delle chiavi della crescita e della prosperità da oltre 200 anni, da prima della Rivoluzione Industriale che ha portato l'avvento delle macchine. Durante la Rivoluzione Industriale le persone lavoravano nelle fabbriche e nelle miniere di carbone, le condizioni di lavoro erano orribili e le persone percepivano magri stipendi. L'unica cosa che può alzare lo standard di vita a lungo termine è il ricambio tecnologico. Infatti, nel passaggio dalle miniere di carbone, dalle fabbriche dalla condizioni di lavoro pessime, si sono sviluppate di conseguenza possibilità migliori. Ma quello che bisogna tenere presente è che alcune persone, costrette a perdere il lavoro, faranno fatica ad adattarsi. Questa è una cosa che abbiamo visto specialmente durante i tempi morti dell'economia, che negli anni porta tensione sociale, come le rivolte luddiste in Gran Bretagna, in cui gli operai hanno cercato di distruggere i macchinari, come quelli durante le guerre napoleoniche e l'annesso embargo continentale in cui gli inglesi hanno sofferto una crisi per l'interruzione del commercio. Una situazione simile per gli operai si è verificata negli anni Trenta. La Grande Depressione ha reso più grave perdere il lavoro, perché se si poteva essere sostituiti da una macchina, c'erano meno posti disponibili. Questo ha portato il presidente Roosvelt a portare delle restrizioni nell'uso dei macchinari nel Nationl Recovery Act che io ritengo estremamente sbagliato. Allo stesso modo abbiamo visto un ritorno dell'automazione dopo la recessione dovuta alla guerra in Corea. L'abbiamo visto durante la Grande Recessione e credo che vedremo una preoccupazione crescente verso l'automazione in risposta al Covid-19. Penso che la cosa più importante ora sia pensare a lungo termine, capire che senza la tecnologia dell'automazione staremmo tutti molto peggio di come stiamo adesso, ma ci servono delle misure di salvaguardia sociale che aiutino le persone ad adattarsi ed è per questo che ritengo serva, ad esempio, un contributo che fornisca un salario minimo, una sorta di cuscinetto per le persone che perdono il lavoro. Diventerà una misura necessaria alla fine di questa crisi e per questo sono convinto che dovremo investire molte più risorse nella riqualificazione, nella conversione e anche nella rilocazione, perché molte delle nuove professioni che vediamo emergere e che nasceranno dopo la crisi, saranno in località molto diverse rispetto ai lavori odierni. Alcuni di quei lavori potranno essere svolti da remoto ma questo non sarà possibile per tutti. C'è una ragione per cui assistiamo all'accelerazione nell'urbanizzazione nonostante i miglioramenti della digitalizzazione negli ultimi 20 anni. Dopo il Covid-19 più professioni saranno svolte da remoto, ma tante persone si troveranno a tornare a lavorare nei vecchi uffici e molte resteranno a vivere nelle città, come hanno fatto fino a questo momento.
Maria Savona: Gli effetti dell'automazione o della digitalizzazione sul mercato del lavoro che a esempio sono per me la fonte prima di disuguaglianza, erano già presenti. C'è stato un effetto polarizzante nel mercato del lavoro già da diversi anni.
Giorgio Metta: Non credo che le macchine ci sostituiranno se non su tempi piuttosto lunghi. L'automazione funziona bene nei settori in cui il lavoro è molto, molto, prevedibile e i volumi sono tali da giustificare l'automazione. Ma per una serie di compiti più complicati, la robotica, l'automazione stessa, fanno ancora molta fatica a sostituire l'essere umano. Se mai arriveranno a quel punto di diffusione capillare tale da poter sostituire effettivamente l'essere umano, credo che ci sarà tempo per riposizionarci nel fare cose, secondo me, molto più di alto livello e molto più creative che non il lavoro ripetitivo.
Sabina Nawaz: C'è sicuramente una perdita in ogni cambiamento. Come ha detto una volta Ronald Heifetz “Non resistiamo al cambiamento ma alla perdita”. Abbiamo perso qualcosa passando allo smart working e perderemo qualcos'altro tornando indietro verso gli uffici, in una sorta di modello ibrido. La perdita di alcune cose farà più male di altre: la prima è la perdita di quelle interazioni che si hanno con i colleghi, non parlo del rituale in sé e per sé, ma della sua spontaneità. Molti mi dicono che spesso facevano capolino negli uffici dei propri dirigenti per fare una domanda veloce, ora se sono cose di poco conto li imbarazza chiedere una videoconferenza e questo ostacola il loro lavoro. In uno degli articoli che ho scritto, parlo proprio di questo, di come i dirigenti possano creare un piano di reperibilità, quindi è possibile fare altrimenti. Molti degli amministratori con cui lavoro hanno un orario di ricevimento aperto a tutti i dipendenti, se un problema è risolvibile in 10 minuti chiudono la porta e gli altri attendono nella sala d'aspetto mentre una persona si occupa di quella questione. Questa è una delle perdite. Un altro aspetto è anche la connessione con sé stessi, con la casa e il lavoro che si confondono, soprattutto se dobbiamo prenderci cura di altre persone, non rimane spazio per noi stessi. Non stiamo perdendo soltanto il tempo in ufficio, stiamo perdendo il tempo liminale, il tempo di transizione tra casa e lavoro e viceversa. Non abbiamo quello che mi piace chiamare spazio bianco per riflettere, per fare un passo indietro e permettere al subconscio di farsi avanti e fornirci le soluzioni. Come lo ricreiamo? Ci sono vari modi ed è su questo che lavoro con i miei clienti.
Jeffrey Schnapp: Credo che ci sia, aldilà delle difficoltà a livello di gestione di questa nuova di situazione del lavoro, una difficoltà architettonica, la chiamerei. Di solito noi siamo smart workers in spazi non previsti, come luoghi di lavoro: si tratta del tavolo della cucina, dello studio a casa e credo che ci sia un processo di definizione che cosa sia un luogo di lavoro che ha questo carattere, dove quelle necessità di una frontiera tra spazio quotidiano personale, privato, di famiglia, e questo spazio che è uno spazio di rappresentanza, di lavoro, sociale, e quella barriera la dobbiamo interpretare da un punto di vista anche architettonico. Quello è un processo che è per il momento solo un'idea, perché non ho ancora visto uno studio concepito proprio come luogo di telelavoro, ed è un'ipotesi che mi interessa quanto qualcuno che lavora nel settore del design.
Maria Savona: Mi auguro che il new normal sia una percezione molto più significativa del valore pubblico e del valore collettivo.
Carl Benedikt Frey: Ci saranno dei modelli più ibridi in cui la gente lavorerà più da casa.
Giorgio Metta: Mi auguro una progettualità a livello globale.
Jeffrey Schnapp: Abbiamo l'opportunità di invetare un nuovo modello di società.
Sabina Nawaz: Una parola: integrazione.
Giuseppe De Bellis: abbiamo visto quanto l'urbanizzazione, quindi l'avere tanta gente in un unico posto, come accade nelle metropoli, abbia contribuito alla diffusione del virus. Le chiedo, in futuro, anche per effetto di questa esperienza, la gente avrà la tendenza, la tentazione di abbandonare le città, oppure no?
Winy Maas: C'è il rischio che lo faccia, però non sono sicuro che sia la scelta migliore perché le città ci danno l'occasione di incontrare altre persone, di fare cose insieme, e danno anche la possibilità di avere spazi aperti in periferie per l'agricoltura, ad esempio, e per la gestione delle foreste e dell'acqua. Dal punto di vista ecologico, non è la soluzione migliore per i prossimi anni. Mi piacerebbe usare questo momento per spezzare una lancia in favore di un ambiente cittadino che riesca a combinare questi aspetti di umanità e di vicinanza, con una soluzione soddisfacente per gli spazi verdi. Immaginate di combinare l'alta densità di case con delle aree verdi posizionate in cima ai tetti, sulle terrazze dei condomini e in questo modo trasformare le nostre città in piccoli polmoni verdi che potrebbe aiutare molto in futuro.
Carlo Ratti: Dobbiamo dividere due periodi: il primo periodo è il periodo della ripresa dei prossimi mesi, speriamo che duri poco, per ripresa intendo quando usciremo dalla crisi attuale. Poi c'è il periodo un po’ più di lungo termine, in quello di lungo termine io penso che le nostre città risorgeranno in maniera simile a prima. L’abbiamo visto, se noi pensiamo a una delle ultime grandi pandemie, all’influenza spagnola di circa un centinaio d’anni fa, quello che è successo dopo nei ruggenti anni Venti del secolo passato, furono degli anni di sublimazione della vita urbana con un grandissimo fervore nelle città di tutto il mondo. Penso che le nostre città hanno visto di peggio e ritorneranno. Quello che non tornerà probabilmente sono cose che stavano già cambiando prima. Per esempio il lavoro pensato in modo più flessibile, in parte a distanza, stava già cambiando e la crisi ha accelerato i cambiamenti che erano in corso. Oppure i cambiamenti portati dalle tecnologie, per quanto riguarda i trasporti, tutto questo è stato un po’ accelerato da queste settimane di crisi.
Alessia Melegaro: Le persone si abitueranno al fatto che ci sono dei comportamenti che riducono la probabilità di trasmettere il virus, che sia il corona, che sia un virus influenzale o qualunque altro virus respiratorio. Noi come cittadini possiamo fare delle cose e quindi mi auguro che questa situazione drammatica porti au un aumento della consapevolezza e della responsabilità sociale delle persone.
Helle Soholt: Di sicuro quello che emerge in questo momento è che la salute e il benessere saranno alcuni dei parametri di progettazione più importanti nell'immediato futuro. Vent'anni fa abbiamo visto che lo sviluppo sostenibile, forse non era un parametro centrale. Ora la sostenibilità è diventata un fattore che ogni progettista e architetto nel mondo si trova a considerare nella progettazione. Abbiamo visto alcuni degli effetti dell'11 settembre del 2001 per cui molte installazioni temporanee e misure di sicurezza, per combattere il terrorismo, ci accompagnano ancora oggi nelle nostre città, negli aeroporti, nelle sale d'aspetto. Adesso, allo stesso tempo, la pandemia cambierà di sicuro il nostro modo di pianificare le città in maniera che salute e benessere diventino un fattore determinante negli anni a venire.
Paola Antonelli: Nell'evoluzione di questa crisi, il design sarà importantissimo anche per aiutare a disegnare e a progettare nuovi comportamenti. Per esempio, ovviamente qui si parla soprattutto di classe media e di alta, per quando riguarda i laboratori in fabbrica c'è un lavoro enorme da fare in cui ci vuole un ingegneria profonda. Ma per quanto riguarda i comportamenti della gente nei negozi, negli spazi comuni, al lavoro, il fatto che così tante aziende hanno colto l'occasione per dire alle persone “oh potete lavorare da casa”, che cosa vuol dire? Che le aziende applicano una responsabilità, perché, per esempio, a New York, la gente ha case piccole e conta sull'ufficio, allora ci sarà una sovvenzione da parte dell'azienda per mettere a posto un ufficio a casa. Ci sono tantissimi cambiamenti capillari, generali, in cui il design sarà importantissimo, il design di tutti i tipi. Non soltanto di mobili, di oggetti ma anche il design dell'interfacce e dei comportamenti.
Helle Soholt: Mi sento di affermare che il new normal è la riscoperta della salute e del benessere.
Winy Maas: Spero che sia in arrivo una nuova normalità più intelligente.
Alessia Melegaro: Vedo l'aumentare di una consapevolezza individuale/collettiva sul piacere di passare del tempo insieme.
Paola Antonelli: Dipende molto anche dalla generazione che adesso ha tra i 20 e i 30/35 anni.
Carlo Ratti: Sono in disaccordo con tutti gli altri. Il new normal sarà un salto nel futuro.
Giuseppe De Bellis: Avete visto quante risposte diverse sul new normal? Se c'è una cosa che abbiamo capito a Idee per il dopo è che ognuno avrà la sua nuova normalità. Un'altra cosa che abbiamo capito è che le idee sono fondamentali, fondamentali in questo periodo per capire come potrà essere il mondo del futuro e come noi, che viviamo questo mondo, potremo adattarci alla convivenza con un virus che ha cambiato radicalmente il nostro modo di vivere. Speriamo che queste idee siano state utili ai rappresentanti dei governi per capire un po' di più, come abbiamo fatto noi, quello che è accaduto in questo momento e quello che accadrà nei prossimi mesi e speriamo che queste idee siano in parte messe in pratica. Perché siamo convinti che dalle menti brillanti che abbiamo ospitato, qualcosa di buono sia venuto fuori. Grazie a tutti