Ospiti del direttore Giuseppe De Bellis, nel terzo dei quattro appuntamenti ci sono Anjana Ahuja, Brennan Jacoby, Jennifer Petriglieri, Carlo Rovelli e Cedric Villani.
“Abbiamo riaperto le nostre città, le nostre aziende, i nostri parchi, siamo usciti dalle nostre case e abbiamo cominciato a convivere con l'epidemia. Eppure, tante domande sono ancora senza risposta, e tante questioni ancora aperte." Il direttore di Sky Tg24 Giuseppe De Bellis apre la terza puntata dell'approfondimento "Idee per il dopo (GUARDA LA 3a PUNTATA DI IDEE PER IL DOPO: 1a PARTE E 2a PARTE, QUI TUTTI I VIDEO DELLE PUNTATE PRECEDENTI). "E allora continuiamo a capire come sarà la nostra vita di domani, come sarà la nostra nuova normalità. Ripartiamo dalle idee, benvenuti alla terza puntata di Idee per il dopo”. In questa terza puntata sono con noi: Anjana Ahuja, editorialista scientifica del Financial Times, Brennan Jacoby, fondatore di Philosophy at Work, Jennifer Petriglieri, docente di Organisational Behaviour della business school INSEAD, Carlo Rovelli, professore ordinario di Fisica teorica all’università di Aix-Marseille e Cedric Villani, matematico vincitore della medaglia Fields e parlamentare francese..
GLI INTERVENTI DELLA TERZA PUNTATA
Giuseppe De Bellis: Ahuja, comincerei da lei, lei ha scritto tantissimi articoli in questi giorni sul Financial Times, dove è editorialista scientifica, sulle conseguenze del coronavirus e anche sulla pandemia. Le chiedo: molti sistemi sanitari sono andati in crisi in moltissimi paesi, sia in Oriente, sia in Occidente, soprattutto nelle democrazie occidentali. Era così difficile per questi sistemi sanitari e per i governi di questi paesi prevedere una pandemia?
Anjana Ahuja: È la questione di cui parlano tutti nel Regno Unito, vale la pena sottolineare che i paesi che hanno sofferto di Sars nel 2002-2003, stanno facendo un ottimo lavoro nel controllare questa epidemia. È anche vero che i paesi che hanno seguito dell'Organizzazione Mondiale della sanità applicano un sistema aggressivo di monitoraggio, contact tracing, contenimento, isolamento e quarantena. Si sono comportati altrettanto bene e se si fa tutto ciò nel modo corretto si evita di sovraffollare il sistema sanitario. Credo sia lecito dire che è un evento senza precedenti, perché credo che molti paesi occidentali si siano preparati per un'influenza pandemica, il che è comprensibile ma come sappiamo il coronavirus non è un'influenza. Ha molte caratteristiche diverse tra cui il fatto che sia altamente trasmissibile, penso che la gente si stata presa alla sprovvista da molte cose e una della cose che noteremo, e che tutti dovrebbero prendere in considerazione, è se sia possibile rafforzare la sorveglianza e la preparazione in caso dovesse accadere di nuovo.
Giuseppe De Bellis: Villani, lei ha vinto la medaglia Fields nel 2010, è uno dei matematici più importanti della sua generazione. Allora le chiedo: la matematica ci ha aiutato a capire la diffusione del virus, può aiutarci anche adesso a gestire comportamenti della seconda fase quella con la convivenza il virus stesso?
Cedric Villani: È piuttosto chiaro che la matematica ha un ruolo preminente tra le scienze necessarie alla situazione e ne avrà anche di più tal proposito. La matematica ricorre a una serie di strumenti per gestire questa crisi. Per esempio, sappiamo tutti che al primo posto ci sono gli studi statistici e non solo. Ma c'è una cosa che devo menzionare della percezione matematica e cioè il fatto di dare un modello statistico dell'epidemia. Per una buona ragione, alla fine, quello che ha indotto tutti i paesi o gran parte di essi a sancire il lockdown è stata la paura che sistema sanitario fosse invaso e ci si è chiesto quante persone fossero infette in un determinato momento. E per questo motivo abbiamo cercato di preservare il bene collettivo, ossia la capacità del sistema sanitario, ed è per questo che abbiamo dovuto attuare delle misure economiche senza precedenti. Quindi la diagnosi, il modo in cui dovremo procedere, è controllare quanti casi, quanti pazienti si possa gestire in un determinato momento. Questa è una previsione che solo gli statistici epidemiologi sono in grado di fare. Ovviamente in combinazione con l'osservazione e se si pensa in termini di quanto la pandemia sia contagiosa, quel famoso fattore di contagio R, che i politici non conoscevano due mesi fa e di cui ora si parla in tutto il mondo. Se questo numero fosse superiore a 1, potrebbe esserci una crescita esponenziale dei contagiati, se inferiore l'epidemia è sotto controllo. Naturalmente ora siamo intorno al tre ma dobbiamo tenerlo al di sotto di 1: è questo l'obiettivo. Personalmente è la prima volta nella mia vita che vedo il parametro matematico di alcune equazioni come oggetto di discussione dei politici di tutto il mondo. Dobbiamo trovare le manovre necessarie per riportare il coefficiente al di sotto di 1, anche poco meno di 1, perché vogliamo essere in grado di vivere più liberamente possibile, pur mantenendo il contagio al minimo. Quindi la matematica sarà la chiave, insieme a tante altre scienze.
Giuseppe De Bellis: Rovelli, vengo da lei. Lei ha scritto negli ultimi anni alcuni dei saggi più importanti in Italia, scientifici, di divulgazione scientifica ma anche di considerazioni sulla nostra società. Le chiedo: questa pandemia ha dimostrato una divisione tra chi cerca la condivisione, sia su base scientifica, culturale, sociale e anche politica, e il suo contrario, cioè tra chi si è chiuso più in sé stesso. Parlo di politici, scienziati e la società. Secondo lei, in questo momento il mondo ne uscirà più collettivo o più individualista?
Carlo Rovelli: Grazie innanzitutto di avermi invitato, penso che questa domanda che lei mi fa, è la domanda cruciale da cui dipende un po' il futuro di tutti noi e dipende se riusciamo da questa crisi a trarne delle lezioni buone o, al contrario, se questa crisi ci getterà in disastri peggiori per tutti. È stata un'esperienza, questa crisi, ancora di grande unità perché l'umanità si è resa conto della sua fragilità. Questa fragilità c'era anche prima, c'è sempre stata ma non la vedevamo. Adesso un po' la vicinanza della morte, un po' la crisi economica, un po' lo sconcerto in cui tutti quanti ci siamo trovati, ci fanno vedere chiaramente quanto siamo fragili. Di fronte a questa fragilità ci sono due atteggiamenti: e nessuno sa credo, oggi, che direzione prenderà l'umanità. Una è prendersi paura e chiudersi, chiudersi vuol dire cercare di risolvere tutto da soli e dare la colpa ad altri. Purtroppo stiamo vedendo nel mondo intero, l'America, la Cina, si danno la colpa a vicenda, si cerca un capo espiatorio, per qualcosa che non ha una colpa e ci si mette l'uno contro l'altro. Se questa è la direzione che prendiamo è un disastro. È un disastro per l'umanità, perché la pandemia è un'avvisaglia ma noi sappiamo che di problemi seri l'umanità ne è incontrerà parecchi nel prossimo futuro. C'è il riscaldamento climatico, c'è la crisi ecologica globale, se ci mettiamo gli uni contro gli altri, l'umanità va dritta contro il muro. Se da questa fragilità capiamo che possiamo uscirne tutti insieme, collaborando, si è visto, diciamo. Tutto che siamo riusciti a fare è perché c'è un sapere condiviso e perché le risorse sono state messe in comune, allora c'è una speranza per l'umanità. Io direi: siamo tutti sulla stessa barca, se litighiamo la barca affonda, se riusciamo a lavorare insieme, mettendo insieme le risorse e i saperi, l'umanità ha un futuro possibile.
Giuseppe De Bellis: Jacoby, abbiamo parlato nelle prime tre risposte di scienza, le voglio chiedere: l'umanità, oltre alle conoscenze scientifiche, ha gli strumenti culturali per superare questa crisi?
Brennan Jacoby: Credo che la domanda sia giusta, abbiamo gli strumenti per superare il problema? Mi occupo di filosofia e la filosofia riguarda il significato e la comprensione e credo che il luogo in cui abbiamo una ricchezza di strumenti sia nel connubio di quelli che si chiamano strumenti di analisi dei dati. Quindi le scienze con gli studi di valore, quindi combiniamo i dati come quelli matematici di cui parlavano gli altri ospiti: il campionamento, le scienze, la medicina. Ma siamo anche in grado di considerare il grado più ampio e porci il quesito filosofico: come inquadriamo la nostra comprensione di quei dati? Come la esprimiamo? Solo allora riusciamo a usare queste forze al massimo del loro potenziale. Quindi la domanda è: possiamo farlo? Forse è polemico dirlo, ma ritengo che negli ultimi decenni abbiamo enfatizzato il valore di uno piuttosto che dell'altro, dando maggiore risalto ai fatti descrittivi. Abbiamo sottovalutato la solida natura degli strumenti di valore, ma ci sono e fanno parte della nostra cultura e ce ne stiamo accorgendo durante questa pandemia perché le persone si approcciano alle filosofie di tutto il mondo in cerca di varie fonti di ispirazione per capire come interpretare tutto questo. Come trovare un senso a questa situazione. Molti filosofici storici cercano di dire che dovremmo scoprire come vivere e morire bene e credo che esista una solida tradizione a cui possiamo attingere. Quindi sì, credo abbiamo gli strumenti ma dobbiamo prenderci un po' di tempo esaminarli e usarli al meglio.
Giuseppe De Bellis: Petriglieri, il virus è la pandemia ci hanno portato a essere distanti anche dai nostri affetti. Lei ha scritto un libro di grande successo, recentemente, sulle coppie che lavorano. Ma prima di andare su questo argomento che è molto interessante, le voglio chiedere: all'interno delle aziende, degli uffici, dove altrettanto siamo stati distanti, oggi, che stiamo pian piano rientrando, come ci comporteremo? Che cosa dovrà dire un leader o un capo azienda ai suoi collaboratori per farli uscire più velocemente dallo stato di paura che hanno avuto nelle ultime due settimane?
Jennifer Petriglieri: Credo ci siano due aspetti: c'è il punto di vista pratico, che riguarda i vincoli sociali, le misure restrittive, eccetera, e quello relazionale. Che vuol dire stare lontani così a lungo? In che modo evolvono i rapporti? E che significa tornare insieme? Penso che il commento precedente riguardo la fragilità valga anche per le aziende così come per le nostre case. Come si supera questa fragilità nelle aziende? Credo sia compito dei leader ricucire i rapporti, accorciare le distanze e fare in modo di superarle insieme.
Giuseppe De Bellis: Villani, torno da lei per chiederle una cosa sulla sua città, su Parigi. Lei è candidato a sindaco di Parigi e le voglio chiedere, siccome è una delle aeree metropolitane che è, come in tante nazioni, è stata colpita: come si immagina la sua città nel futuro?
Cedric Villani: Prima di tutto, riguardo la mia amata Parigi, lasciami dire che al momento si trova in uno stato mai visto prima. Le strade sono vuote, tutto sembra essere congelato, in letargo ma allo stesso tempo è bellissimo vedere che non c'è traffico e la città è più pulita. Ma è anche spaventoso che una metropoli famosa per la sua vitalità e speriamo tutti di assistere presto al risveglio di Parigi, tuttavia, è chiaro che in seguito alla crisi dovremo aspettare molto prima che le cose possano tornare come erano prima. Nell'aria ci sarà quell'atmosfera di distacco e tutto sarà più complicato. Per esempio, quando riprenderanno a circolare i mezzi pubblici, fra una settimana o, meglio, fra qualche giorno, funzioneranno solo al 24%: un quarto della loro capacità. Quindi la gente sarà scoraggiata a usare i mezzi pubblici. Prima della crisi si cercava di convincere le persone a spostarsi con i mezzi ma oggigiorno, dato che bisogna mantenere le distanze gli uni dagli altri, si dovranno riorganizzare i trasporti. Questa crisi ci ha dimostrato che dobbiamo avere un certo margine in tutto ciò che facciamo. Prima le strade erano affollate, c'erano sempre ingorghi, tutto era spinto al limite, che spesso si oltrepassava. Come società dobbiamo recuperare questi margini, quindi i mezzi pubblici devono essere più grandi per consentire le distanze e questo discorso vale anche per tutto il resto.
Giuseppe De Bellis: Ahuja , abbiamo parlato prima con lei dei sistemi sanitari di molti paesi le chiedo, il dibattito, secondo lei avrà un effetto?
Anjana Ahuja: Certo, una delle cose sulle quali dobbiamo essere chiari è che la ragione per cui le città sono state chiuse e i paesi sono stati chiusi, e per cui gli uffici sono chiusi e le scuole sono chiuse, è che dobbiamo mantenere il distanziamento fisico perché la malattia non si diffonda. Questo perché ci troviamo di fronte a un virus che è completamente nuovo, quindi nessuno di noi, nessuno nel mondo, ha l'immunità. Lo sviluppo fondamentale deve essere per forza un vaccino perché questo è il modo in cui si combattono le malattie infettive. Questo è il motivo per cui, nonostante ci siano molte malattie contagiose nel mondo come il morbillo, l'influenza, la ragione per cui possiamo continuare a vivere nelle città ad alta densità, stando ammassati e avendo quelle azioni sociali che mancano a tutti noi, è che ci sono i vaccini. Se non ci sono i vaccini dobbiamo avere delle terapie che funzionano ed entrambe le opzioni richiedono investimenti, non solo per trovare quale sia il vaccino corretto. Sono sicura che nell'arco dei prossimi sei mesi ci saranno dei candidati molto promettenti, ma anche per avere le piattaforme e le capacità di produzione necessarie per essere in grado di produrre i vaccini quando ne abbiamo bisogno e nella quantità che serve. E dobbiamo poter vaccinare l'intera popolazione mondiale cosa che spero vivamente perché è una malattia terribile che ha rovinato davvero ogni cosa, ha interferito con le nostre vite e ricordare niente di simile in tutta la mia esistenza. Anche se abbiamo già vissuto altre pandemie. Dobbiamo riuscire ad avere la capacità di produzione. I nostri sistemi sanitari devono essere in grado di eseguire le sperimentazioni molto rapidamente, di riunire insieme una moltitudine di organizzazioni di università, centri di ricerca private, governi e via dicendo e dobbiamo farli mobilitare nell'interesse dell'umanità perché fino a che non vengono attuati quegli interventi farmaceutici come vengono chiamati, noi rimanemmo bloccati con le stesse contro misure non farmacologiche che è un nome pomposo per il distanziamento, gli uffici chiusi, le scuole chiuse, i trasporti bloccati e così via.
Giuseppe De Bellis: Grazie. Rovelli, abbiamo parlato in questo frangente, soprattutto di spazio, delle città, dei luoghi, però con lei vorrei parlare invece del tempo. Cioè, con il lockdown come è cambiato il nostro rapporto col tempo, se è cambiato?
Carlo Rovelli: Credo che sia cambiato in maniera diversa per diverse persone. Certamente un po' per il fatto semplicemente di restare chiusi in casa e questo ha cambiato completamente le nostre abitudini. Cambiare abitudini significa cambiare il senso del tempo. Il tempo come lo sperimentiamo noi esseri umani, ovviamente non è solo il tempo dell'orologio, è un tempo complesso che comprende quello che facciamo delle nostre esperienze, delle nostre memorie, della nostra azione, di come pensiamo al passato, di quanto intensamente vediamo, di come pensiamo il futuro. Però io credo che il senso che molti di noi hanno avuto della differenza del tempo di adesso dal tempo di prima, più che il fatto di stare in casa, è dovuto al timore e alla rottura della normalità precedente che ci ha portato a riflettere. E forse più di tutto a questa sensazione della vicinanza della morte, il numero di morti di cui ci parla la televisione ogni giorno ci ha messo davanti agli occhi. Da questo punto di vista, credo che l'esperienza e il modo diverso in cui viviamo il presente e il futuro siano stati intensi, abbiamo cambiato il nostro modo di sentire il tempo, ma non sono stati negativi, nel disastro. Io non penso che il problema sia costruire una società priva di rischi, priva di sofferenze, rischi ci sono sempre. È il contrario: dobbiamo accettare il fatto che viviamo in mezzo ai rischi e che c'è parte della vita che è sofferenza. Il fatto di vederla più chiaramente, credo, ci ha aiutato. Ovviamente tutto il nostro sforzo è per diminuire i rischi. Tutto il nostro sforzo è per diminuire le sofferenze, ma muore un sacco di gente anche senza l'epidemia, anzi, tuttora nel mondo muore molta più gente indipendentemente dall'epidemia che non a causa dell'epidemia e ogni singola persona che muore porta sofferenza dolore alle persone che gli sono intorno.
Giuseppe De Bellis: Jacoby, vengo proprio da lei sul tema che stava accennando Rovelli. Abbiamo visto come questa situazione ha generato un dualismo tra la necessità diciamo di sopravvivere al rischio della morte e le conseguenze catastrofiche sull'economia. Come si fa dal punto di vista filosofico a sopravvivere a questo dualismo?
Brennan Jacoby: Nonostante tutte le difficoltà, per sopravvivere bisogna affrontarle. E questa è una frase strappata letteralmente agli scritti di filosofia storica in cui, come ha detto Carlo Rovelli, l'ostacolo diventa la nuova via da seguire e come ha detto lui c'è una sorta di dualismo che vede da una lato le procedure per riaprire le scuole, tornare insieme e questo è molto importante e ritengo che sia una delle cose che ci spinge nella vita e che mi pare abbia citato anche il signor Rovelli nel suo intervento. Dal un lato non dobbiamo perdere il desiderio di vivere insieme, capire come fare funzionare la società insieme e dall'altro dobbiamo cercare di mantenere un bilanciamento fra questo e come ci comportiamo di fronte alla realtà dei fatti. Quindi sono d'accordo con la sua affermazione che parte di ciò che ha portato questa crisi è un momento di maggiore e più profonda riflessione e questa è una sfida per noi. Ma sono convinto che la soluzione per andare avanti sia riconoscerlo non come dualismo ma come una dialettica nella quale abbiamo due cose che sono in conflitto e proprio da questo conflitto nasce una sintesi, una nuova via per andare avanti e non so in cosa consisterà. Credo che nessuno di noi possa conoscere il futuro ma la mia ipotesi è che mentre riflettiamo su come affrontare il dolore di questa terribile crisi, allo stesso tempo riconosciamo alcuni dei lati positivi che attraversare tutto questo può portare, mettendo su una bilancia vita e morte. Di tutto questo vedono opportunità per una nuova., anche se non del tutto, una maniera diversa di interagire con gli altri e di vedere la vita. Una delle cose da dire è che la bellezza di questo sforzo di riflessione è che non lo si può traferire a nessun altro. Quindi ognuno di noi deve pensarci per contro proprio. Possiamo sentire quello che hanno da dire gli esperi e questo può esserci di ispirazione o incoraggiamento ma ognuno deve fare i suoi ragionamenti morali. Non possiamo delegare il nostro giudizio morale e questa è una cosa buona perché se fossimo davvero in grado di affidare ad altri la nostra moralità la vita perderebbe tutto il suo colore. Ritengo sia difficile ma va anche detto che allo stesso tempo ci sta arricchendo
Giuseppe De Bellis: Petriglieri, il lockdown ci ha portato, come dicevamo prima, a vivere lontani dei nostri colleghi, quindi fuori, non nei nostri uffici, ma vivere tantissimo nelle nostre case, per cui a contatto con mariti, mogli, figli. Che effetto può avere questo sul lungo periodo o anche sul medio periodo?
Jennifer Petriglieri: Sì, ciò che vediamo al momento è che le famiglie si ritrovano a sostenere il peso e lo stress di questa crisi spesso ci sono uno o più lavori, bambini, tutti sotto lo stesso tetto e a breve termine si è vista una polarizzazione. Per alcune coppie il confinamento sta creando problemi. Fine della storia per loro. Per altre coppie il confinamento le porta a stare insieme a vivere la propria intimità, una delle cose da chiedersi è quali siano le differenze tra la via del divorzio e quella del riavvicinamento. Una parte della risposta risiede nelle coppie stesse. Se si stanno impegnando a questo riguardo per capire come comportarsi, ma ovviamente un'altra parte riguarda la società e il sostengo delle famiglie da parte della comunità, delle aziende, dei datori di lavoro per superare questa crisi. Dal momento che le famiglie sono società microcosmiche vengono influenzate molto dalle politiche correnti nel campo dell'educazione, per esempio, e si crea un vero tornado nelle famiglie che le spinge in tutte le direzioni.
Giuseppe De Bellis: Ahuja, prima parlava del dell'importanza del vaccino. Sentiamo questa necessità tutti lo sentiamo tutti i giorni, le chiedo: secondo lei è soltanto una necessità scientifica o è anche non necessita politica?
Anjana Ahuja: Riguardo al fatto se la questione sia politica, credo piuttosto che sia umanitaria. Non possiamo fare niente di niente finché non comprendiamo a fondo questo nemico sconosciuto e assolutamente nuovo. Mi hanno molto colpita gli interventi degli altri ospiti, perché credo che una delle cose più umilianti per tutti noi sia che questo coronavirus ci ha mostrato i limiti della nostra conoscenza e delle nostre idee sul modo in cui viviamo. Perché una delle cose di cui ci siamo accorti e forse avrete visto i miei figli che scorrazzano dietro di me, infatti, sto cercando di organizzarmi per insegnare a casa i bambini ed è molto difficile, è che io, ad esempio, mi sono fatta un'opinione diversa di figure preziose come gli insegnanti, i commercianti, i corrieri, i cuochi, gli infermieri e così via. Anche se mia madre era un'infermiera, ora ho un'idea radicalmente diversa e sento di aver capito quali sono le professioni davvero indispensabili alla società e secondo me l'ironia di questa crisi è il nostro sistema economico paga persone che guadagnano molto per restare a casa mentre altri lavoratori sottopagati, sono in prima linea, e rimangono esposti al Virus. Tornando al vaccino, credo che la questione politica riguardi chi lo avrà per primo e poi potremmo iniziare a vedere delle conseguenze geopolitiche così come dei problemi interni alle nazioni, abbiamo già visto la competizione, per esempio, con alcuni stati che dicono che sei il vaccino o il trattamento verrà sviluppato in determinati paesi, potrebbero limitarne le esportazioni altrove e questo ci dimostra quanto sia limitato nazionalistico, perché quello che stiamo affrontando è un problema mondiale e internazionale e dobbiamo trovare una soluzione equa per risolverlo al lungo termine. Sospetto che ci riusciremo a lungo andare, che troveremo un vaccino o una terapia, ma non so dire chi arriverà per primo. Nel frattempo, penso che ciò che ci ha concesso il lockdown, almeno ad alcuni di noi, è tempo per riflettere su queste domande maggiori riguardo la correttezza, l'equità, i limiti della conoscenza, il modo in cui vogliamo strutturare i processi e i vari sistemi in futuro, compreso quello sanitario. Lo sviluppo della ricerca e la condivisione dei tuoi vantaggi e la necessità di vivere tutti su un pianeta che si espande rapidamente in termini di popolazione ma che possiede delle risorse limitate. Come vivremo tutto ciò a lungo termine perché un'altra considerazione da fare è: ci saranno altre malattie come questa? Il modo in cui viviamo, con le pressioni di cui siamo sottoposti dovendo stare gomito a gomito in territori che prima non consideravamo, credo ci porteranno al contatto con altre malattie. Quindi vorrei che questa fosse vista da tutto il mondo come un'opportunità per imparare.
Giuseppe De Bellis: Stando su questo discorso Villani, che cosa dobbiamo chiedere ai politici nei prossimi mesi?
Cedric Villani: I politici al momento hanno una grande responsabilità sulle spalle. Perché in tutto il mondo stanno garantendo e supervisionando il processo di riapertura cercando di capire talvolta, non senza pressioni e contestazioni, quali sono le misure che bisogna attuare per riportare il paese a vivere. Senza provocare una nuova ondata di contagi, il che sarebbe un disastro. Ci aspettiamo che durante questo processo riescano a fornire delle spiegazioni, e far sì che ci sia dialogo tra la scienza la società e i politici un dialogo molto difficile, in cui gli scienziati danno la propria opinione e a volte cambiano con l'avanzare della ricerca o addirittura ribaltano la situazione rispetto a ciò che sappiamo e i politici devono spiegare cosa bisogna fare perché dobbiamo farlo, perché è bene seguire le raccomandazioni degli scienziati, erché a volte ricercatori diversi hanno opinioni contraddittorie o che differiscono dalle idee della popolazione. E i politici devono occuparsi in modo chiaro di scienza e società. La seconda cosa che i politici devono fare e cooperare insieme e in modo efficace, finora ci sono state collaborazioni sia buone che pessime, perché si sa che le crisi tirano fuori il meglio e il peggio. MI ha fatto arrabbiare non poco vedere che l'Europa si è rivelata piuttosto debole in termini politici in alcuni problemi di cooperazione fra gli stati, mentre in altre città forte. Per esempio, la Banca Centrale Europea ha reagito prontamente, ma in altre questioni come quella di definire una strategia politica comune sui problemi di sovranità digitale e analogica sono stati pessimi. Il monitoraggio europeo va tutt'altro che bene e così via, quindi dobbiamo avere una cooperazione perché è un problema globale, ma serve che i politici di tutto il mondo collaborino fra di loro. La terza cosa di cui abbiamo bisogno da parte dei dirigenti politici è che spieghino cosa succederà in futuro. Sono totalmente d'accordo con quello che ha detto Carlo Rovelli. E cioè che la cosa più importante che la crisi ci ha ricordato è che siamo mortali, vulnerabili e soggetti alle stesse leggi fisiche e biologiche che regolano il resto del mondo. Ed è impossibile avere un'umanità sana senza un pianeta sano. Bisogna prendere in considerazione questo aspetto in futuro, prendendo sul serio, gli avvertimenti dell'ambiente, lavorando seriamente per limitare al minimo le emissioni di carbonio per preservare la biodiversità per riflettere sul serio su tutti gli sprechi che ci sono nel mondo e per preservare le preziose risorse naturali che abbiamo in comune, quindi abbiamo bisogno di tre cose da parte dei dirigenti: spiegare e al tempo stesso supervisionare, collaborare fra di loro e mostrare il futuro e le buone abitudini da tenere in futuro. Non sarà facile, ma ti serve.
Giuseppe De Bellis: Rovelli, vorrei stare ancora su questo tema con lei perché il rapporto tra l'uomo e la natura è uno dei grandi temi della contemporaneità. La pandemia ha cambiato questo rapporto oppure è rimasto identico?
Carlo Rovelli: Non ha cambiato il rapporto, ha cambiato certamente la nostra consapevolezza dell'importanza di questo rapporto, quello che diceva un attimo fa Cedric Villani è cruciale, secondo me, ci ha messo di fronte questa epidemia, questa pandemia all'importanza di non non dimenticarci che non c'è solo l'umanità con le sue fabbriche e la sua economia, c'è la natura intorno sterminata che è molto molto più forte di noi, molto, molto, molto più forte di noi. Basta un virus, polverina impalpabile, e decine di migliaia di noi muoiono e noi non possiamo fare niente. La scienza sa questa cosa e lei ripete che ci sono pericoli seri, serissimi cui l'umanità sta andando incontro. Però la scienza non è la soluzione dei problemi e anche in questo Cedric Villan ha molto ragione. In questa epidemia, il pubblico si è molto rivolto alla scienza cercando delle risposte e i politici hanno spesso messo la scienza davanti. Abbiamo sentito in tantissimi paesi la dirigenza politica dire: faccio quello che la scienza dice. Allora, c'è un lato molto buono in questo, la scienza non è una casta sacerdotale, è semplicemente l'insieme di quello che sappiamo sul mondo. Purtroppo molto spesso la politica lo ignora e l'abbiamo visto che il riscaldamento climatico, molto spesso la politica, la gente, i media, fanno come se non sapessimo delle cose, invece delle cose le sappiamo. Ma c'è anche il lato opposto questa cosa qui, e cioè le decisioni non le possono prendere gli scienziati perché sapere qualche cosa non è la stessa cosa che decidere. Le decisioni politiche, le decisioni sono prese da tutti i cittadini e sono prese da chi sta al potere che è votato dai cittadini, o in qualche maniera scelto o sorretto dalla dell'opinione pubblica. Villani diceva: “la politica deve fare da arbitrage”, a me sembra che una delle cose più sorprendenti di questa crisi è stata quanto tutti ci siamo rivolti allo Stato. Anche nei paesi come l'Inghilterra o l'America dove più forti solo le tensioni contro lo stato. La società indipendente, nelle grandi aziende sono indipendenti ciascuno di noi fa quello che vuole, siamo tutti liberi, eccetera eccetera. Lo stato meno tasse possibili, meno influenza possibile. Poi viene un momento di difficoltà, "stato aiutaci: dacci i soldi perché dobbiamo pagare l'affitto, dacci i soldi perché le mie aziende stanno andando male", è allo stato a cui ci rivolgiamo. Lo stato vuol dire semplicemente la vita di tutti insieme e decidere tutti insieme, e decidere tutti insieme vuol dire ascoltare la scienza, ma poi però le decisioni solo politiche.
Giuseppe De Bellis: Jacobbi, le voglio chiedere la sospensione su questo: abbiamo i leader giusti o c'è bisogno di leader diversi?
Brennan Jacoby: Una domanda impegnativa, grazie. L'importanza di avere i giusti leader, credo che dipenda moltissimo dal contesto. Ogni volta che c'è una leadership e quando questa diventa importante, sono presenti tre fattori: abbiamo persone, siamo di fronte a qualche sfida, parlando negativamente diremmo problema e positivamente la chiameremmo opportunità ma ci sono sempre persone, un leader e la gente che risponde a quel leader, c'è sempre una sfida e c'è sempre l'uso del potere. Queste tre cose combinate insieme creano il contesto per la leadership, la mettono alla prova, se ne parla spesso in politica, ma si assume nell'abilità di un dirigente di reagire nel modo più corretto alla persone e ai problemi e alle opportunità che ci troviamo di fronte. Una delle domande principali che mi faccio riguardo la pandemia è quale tipo di problemi stiamo affrontando? Di conseguenza, quale potere è più appropriato e per rispondere alla domanda se abbiamo i leader giusti, chiederei piuttosto se i leader che abbiamo al momento stiano usando il loro potere nel modo corretto, dato il tipo di sfida che stiamo affrontando. E qui vorrei attingere dalla letteratura accademica riguardo tali questioni e nello specifico faccio riferimento al cosiddetto problema complesso. Un problema di questo tipo è un quesito caratterizzato da un alto grado di incertezza, un alto grado di complessità e nuove variabili. E credo che la crisi corrente di coronavirus sia l'esempio perfetto di un problema del genere. Questo è in contrasto con quelli che chiameremo problemi docili o timidi, ossia problemi altrettanto critici ma che nonostante comportino una certa impellenza non presentano un alto grado di variabilità e complessità. E se la paragoniamo con altre pandemie come la SARS o simili, questa sembra molto differente, per i motivi per cui abbiamo già discusso. Va concepita come un problema complesso, la ragione per cui è importante, è che è stato dimostrato che davanti un problema complesso il modo in cui si dovrebbe usare il potere di leader non è solo quello di dare risposte veloci, ma di fare domande quando. Quando siamo di fronte a un problema urgente ma più semplice come, ad esempio, un edificio da evacuare in fretta. È quello il momento in cui un leader deve dire “vai da quella parte!”, ma quando si presenta una sfida complessa e incerta come il coronavirus, è meglio non avere qualcuno che si alza in piedi e dica “Sono il solo a conoscere le risposte. Solo io so cosa bisogna fare”
Giuseppe De Bellis: PetrigIieri, volevo chiedere anche la sua opinione sui leader: se li abbiamo giusti o no. E poi però le chiedo anche se il mondo del futuro sarà più ansioso o invece più rilassato.
Jennifer Petriglieri: Sarà senz'altro un mondo più ansioso e sono convinta che ci sia una cosa che molti dei nostri leader non hanno capito e cioè non pensano alle disparità, abbiamo detto che il virus non colpisce allo stesso modo. Sappiamo che negli Stati Uniti alcune minoranze hanno una percentuale di contagio maggiore delle altre e maggiori tassi di mortalità. Vediamo, a esempio, che le donne sono più soggette ad essere licenziate rispetto agli uomini. Vediamo nelle famiglie delle disuguaglianze riguardo a chi ha il controllo dei soldi e chi si occupa della casa e chi no. Perciò una delle cose che mi preoccupa è che i nostri leader sono così comprensibilmente concentrati sul virus, sulla ricerca di un vaccino, sui servizi sanitari, che le disuguaglianze del mondo si faranno sempre più importanti nella nostra società. A lungo termine questo porterà un problema enorme che dovremo affrontare, a meno che i leader non smettono di pensare in questa maniera.
Giuseppe De Bellis: Ahuja, la globalizzazione è stato sicuramente un vantaggio per la scienza, lo abbiamo visto anche in questo frangente come la collaborazione di cui parlava poco fa tra scienziati, sta diventando fondamentale per contenere il problema, ma le faccio una domanda provocatoria: la globalizzazione non può essere anche il problema?
Anjana Ahuja: Ecco cosa penso al riguardo, sono rimasta molto colpita ad alcuni dei punti sollevati in precedenza dagli altri, perché una cosa che sappiamo ma a volte dimentichiamo è che ci sono paesi che hanno affrontato lo stesso identico problema e hanno ottenuto risultati migliori. Dovremmo chiederci che tipo di governi hanno queste nazioni per capire se c'è qualcosa in quei leader che ci può far capire chi è in grado di far fronte alla crisi, ricercando la conoscenza che gli serve da qualunque posto provenga per risolvere il problema peri suoi connazionali. E ammetto di essere rimasta colpita dal fatto che, a differenza del resto dell'Europa, Angela Merkel in Germania ha fatto un lavoro davvero eccezionale. Non possiamo saperlo con certezza al momento perché non sappiamo come siano stati contati i casi. Ma a me sembra che sia la Germania, che la Corea del Sud che apparentemente ha fatto un lavoro straordinario nel contenere il virus, siano nazioni dalla mentalità scientifica con leader volenterosi di acquisire competenze dall'estero. Hanno un'attenzione verso l'esterno e sono pronti a usare tutte le informazioni a disposizione e fare tutto ciò che serve per risolvere il problema. Ritengo che sia una lezione importante in termini di globalizzazione e in generale, credo, io vengo da un ambiente scientifico, era una scienziata e non credo che troverete alcune scienziato che si opporrebbe alla collaborazione, in particolare quella internazionale. Riallacciandomi a quale possa essere la soluzione a questo problema, c'è bisogno che si lavori con le menti migliori del mondo ovunque siano. Preferibilmente mettendo in comune le risorse. Perché, come dicevo prima, questo non è un problema nazionale che il singolo paese deve affrontare da solo, questo è un problema enorme, che non ha soluzioni a breve termine e che può avere conseguenze a lungo termine e nonostante io sia d'accordo sul fatto che la scienza non è tutto e apprezzo il signor Rovelli quando dice che la scienza non ha tutte le risposte, io sono convinta che dobbiamo essere molto seri nell'assumere un atteggiamento scientifico per risolvere il problema, perché questo è l'unico modo per uscire da questo disastro sociale in cui siamo finiti, che ha comportato il blocco delle nostre economie
Giuseppe De Bellis: Rovelli secondo lei, l'effetto della pandemia, ma anche quello dello lockdown, rallenteranno i cambiamenti socio-economici che erano già in corso? Penso, per esempio, a una sempre maggiore automazione del lavoro della società.
Carlo Rovelli: No, penso di no. Penso che anzi accelerano alcuni dei cambiamenti. Io penso che questo è un momento in cui siamo particolarmente scossii da tutto quello che succede. C'è una buona probabilità, nessuno sa cosa succederà in futuro, ma c'è una buona probabilità che questa crisi ci sembrerà meno grave fra un po'. Se un vaccino viene trovato molto presto, questa diventa una malattia come altre, di cui abbiamo vaccino. Se non viene trovato c'è anche la probabilità che prima o poi passiamo tutti attraverso questa malattia, o la gran parte di noi, e quindi, diciamo, che l'epidemia si placa come tutte l'epidemia della storia si sono placate. E forse il grande dramma di oggi non ci sembrerà così.
Giuseppe De Bellis: Petriglieri, il tracciamento che arriverà con le app, che è già cominciato con le app, che quindi inevitabilmente toccherà la nostra privacy, secondo lei genera più sicurezza o più preoccupazione nei cittadini?
Jennifer Petriglieri: Penso che sia una decisione difficile perché da un lato possiamo usarle per aumentare la nostra sicurezza. Ma la storia ci insegna che è difficile farlo nel modo corretto. E credo che in Europa in particolare, dove siamo molto presi dai diritti civili, credo sarà dura farlo accettare ai cittadini. Sappiamo anche che questa tecnologia non è semplice, in particolare per chi vive in città, se abitiamo in un palazzo o in un grattacielo, non può dirci esattamente con chi siamo stati a contatto. Bisogna essere davvero molto cauti, come società nell'implementare questi sistemi e capire cosa significano a lungo termine, come salverebbero veramente e se vale la pena limitare la libertà civile.
Giuseppe De Bellis: Villani, mi interessa anche il suo giudizio su questo: la tecnologia è in questo caso un rischio o un'opportunità?
Cedric Villani: La tecnologia è entrambe le cose, un rischio e un'opportunità. Anche nelle nostre vite, quando sono state inventate le email, con l'avvento degli smartphone e l'arrivo dei social network eravamo tutti elettrizzati. Nessuno si aspettava che sarebbero stati un impedimento tale ai nostri programmi, che avrebbero causato la diffusione dell'informazione, che ci sarebbero stati così tanti problemi di bullismo sui social network e simili e che la gente avrebbe avuto bisogno di disintossicarsi, sia dai social che dagli smartphone, me incluso. La tecnologia è sempre un rischio e un'opportunità. Il pericolo è in quello che ne facciamo e spesso e volentieri il problema non è la tecnologia in sé ma l'uso che ne facciamo noi esseri umani. Questo vale, anche per le tecnologie nel contesto del coronavirus. Quando si parla delle applicazioni di contact tracing che sono in grado di ricostruire automaticamente la rete di persone con cui si è stati in contatto e avvertirle di sottoporsi al tampone, di mettersi in quarantena, farsi controllare e così via. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che, primo, abbiamo già un sistema di tracciamento a cui ci sottoponiamo volontariamente quando carichiamo informazioni personali sui social network o geolocalizzazione dei telefoni e via dicendo. Molti di noi non ne sono consapevoli, anche se non sappiamo non ci facciamo caso. Quando si parla dei pericoli di creare un nuovo database nelle mani del governo che registri e tenga traccia di tutte le persone che sono state infettate dal virus. Dobbiamo tenere in considerazione che esistono già molti database nel sistema sanitario che raccolgono informazioni sulla salute, spesso in condizioni di sicurezza informatica e non sono il massimo. Ci sono molti più rischi in queste tecnologie preesistenti che in quelle nuove. Ma questi discorsi vanno inseriti nel loro contesto che, come già è stato detto, è molto complesso al momento, quindi c'è molta più attenzione verso questa tecnologia che verso le precedenti ma se la conseguenza sarà aumentare la nostra consapevolezza sarà un bene. Personalmente sono uno scienziato e lavoro nell'ufficio parlamentare della scienza e dopo aver studiato a fondo le app di contact tracing non sono affatto preoccupato dei rischi per la vita privata e per il tracciamento, anzi. Credo che i rischi ci siano ma se confrontati dai potenziali benefici, i vantaggi sono maggiori e sono a favore. D'altro canto, ovviamente, dobbiamo mettere dei limiti alla sicurezza informatica è salvaguardare la privacy degli utenti, tenendo presente che saranno usate soltanto per un breve intervallo di tempo. Mi preoccupa molto di più quello che sta emergendo ora che queste app sono in corso di sviluppo e cioè che nei paesi europei e in tutto il mondo alla fine, si farà affidamento, in molti stati europei, se non in tutti, sulla benevolenza di Google e della Apple. E questo ci dimostra quanto ne siamo dipendenti e il fatto che ci sono in gioco delle decisioni politiche importanti per cui saranno necessarie la buona volontà e la cooperazione di questi colossi americani. Questo poi ci ricorda anche la mancanza di una sovranità nel campo digitale europeo.
Giuseppe De Bellis: Grazie, per chiudere come abbiamo fatto nelle altre puntate, vorrei chiedere a ciascuno di voi la definizione personale di New Normal. Comincerei con Jacoby.
Brennan Jacoby: Il New Normal è la ricerca umile ma coraggiosa di un modo per vivere al meglio.
Giuseppe De Bellis: Ahuja
Anjana Ahuja: Il new normal consiste nel tornare a un certo tipo di vita, ma non a quella che conoscevamo. E anzi avere lo spazio di ripensare a cosa ha valore, a quello che conta ai limiti della conoscenza, nel senso di umiltà che dobbiamo far nascere dentro di noi, nel ricordarsi che viviamo su questo pianeta insieme a molte altre specie.
Giuseppe De Bellis: Villani il suo new normal che cos'è?
Cedric Villani: Il new normal significa ricordare all'intero genere umano che siamo mortali. Dobbiamo godere della vita, per noi stessi, per i nostri figli e per le generazioni future. Questa sarebbe dovuta essere la normalità anche prima, ma speriamo che il new normal sia così.
Giuseppe De Bellis: Petriglieri
Jennifer Petriglieri: Si spera che il new normal sia un ritorno alle origini e che ci faccia capire quello che conta davvero. Vivremo più in comune con la natura e sappiamo che è iniziato tutto dalla disarmonia. Speriamo che ci sia più fiducia nella scienza in tutto il mondo.
Giuseppe De Bellis: Rovelli
Carlo Rovelli: Recuperare la serenità della vita ma con maggiore consapevolezza della nostra fragilità e dell'importanza di collaborare tutti
Giuseppe De Bellis: Grazie di essere stati con noi. Ringrazio quindi Brennan Jacoby, Anjana Ahuja, Cedric Villani, Jennifer Petriglieri e Carlo Rovelli. Buonasera e arrivederci alla prossima puntata di Idee per il dopo.