A 50 anni dalla strage parla il giudice Guido Salvini che negli anni '80-'90 condusse le indagini su piazza Fontana. Dopo 7 processi conclusi nel 2005 con una sentenza definitiva e nessun colpevole, Salvini ha continuato a fare ricerche che oggi sono diventate un libro.
“Ci sono storie che non si staccano, che ti seguono ovunque e non ti lasciano più, come certi personaggi per alcuni scrittori che li hanno inventati o per alcuni attori che li hanno interpretati. Piazza Fontana per me è una di queste, un’ombra, un pensiero di sottofondo. Ti occupi d’altro, ma ci ritorni sempre. Da quando eri adolescente” (tratto dal libro “La maledizione di Piazza Fontana”).
Incontro il giudice Guido Salvini dieci anni dopo l’ultima intervista su piazza Fontana, allora per i 40 anni dalla strage. Non è cambiato molto, sempre con la sua pipa in bocca, ma sembra affaticato. Le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario che si avvicina sono un tour de force anche per lui, che non si è mai sottratto quando si è trattato di parlare della strage, di quella strage, della “madre di tutte le stragi” anche se non ama venga definita così, si è sempre rifiutato di associare il concetto di maternità a quello di morte. Ripenso a quelle tre righe nascoste tra le prime pagine del suo libro “La maledizione di Piazza Fontana”, scritto con Andrea Sceresini ed edito da Chiarelettere, e gliele vedo cucite addosso mentre si sistema sulla sedia trasparente in attesa che si accenda la luce rossa della telecamera.
Dottor Salvini perché è tornato a scrivere di piazza Fontana?
Piazza Fontana non si dimentica, è rimasto un po’ un archetipo del mistero e del tradimento. Del mistero perché non si saprebbe cosa è successo e del tradimento perché è stata chiamata la strage di Stato, quindi il tradimento dello Stato nei confronti dei cittadini. Ma io sono convinto che dopo tanti anni, dopo tanti processi e indagini piazza Fontana non sia più un mistero. Noi abbiamo ormai una ricostruzione completa di quello che successe quell'anno, il primo gradino è sicuramente l'indagine iniziata dai colleghi di Padova che diede inizio alla pista nera perché prima c'era la pista anarchica, una pista verosimilmente fabbricata apposta. Proprio gli attentati precedenti furono attribuiti a un gruppo di anarchici milanesi che furono processati sulla base di una serie di prove false raccolte dalla Questura, perché attribuire agli anarchici quella prima serie di attentati avrebbe poi consentito di attribuire loro anche ciò che di più grave sarebbe accaduto dopo. Questo meccanismo, che poi continua con l'incriminazione a Valpreda, si rompe con la nascita della pista nera che porta al processo di Catanzaro e alle prime verità.
Quale disegno politico c’era dietro la strage? E quali furono le reali conseguenze dell’azione degli stragisti?
C’erano all’interno di quella catena di attentati due linee. Quella che continuassero gli attentati dimostrativi mese dopo mese al fine di mantenere uno status quo e magari facilitare una svolta autoritaria ma leggera. Questa era l’ipotesi morbida, probabilmente quella caldeggiata dai nostri Servizi di Sicurezza. E poi c’era l’altra linea, quella seguita dagli esecutori di Ordine Nuovo i quali a un certo punto pensarono che era venuto ormai il momento per dare una spallata al sistema democratico. Sono gli anni in cui alla presidenza del Consiglio si susseguono Andreotti e Rumor, ministro della Difesa è Tanassi e loro cercano di tamponare la falla per questo venne chiamata strage di Stato, perché ci fu quel tentativo di coprire ciò che era successo e certamente anche se l'obiettivo di scardinamento o di restringimento della libertà democratica non fu raggiunto - a Milano per i funerali delle vittime della strage scesero in piazza tutti in silenzio e senza incidenti dalla borghesia agli operai, fu una risposta insuperabile - c'è stato però un risultato secondario che è durato più a lungo e che forse non si è mai estinto anzi forse si è ripetuto nei decenni: il fatto che lo Stato abbia colluso e protetto persone che avevano ucciso dei cittadini in un luogo pubblico dove ognuno di noi si poteva trovare, ha creato una sfiducia nello Stato e nei suoi organi e questa percezione è quella che è durata aldilà del fallimento della strategia che effettivamente non riuscì.
A 50 anni dalla strage, dopo 7 processi, 36 anni di indagini e nessun colpevole che cosa sappiamo? Quali prove sono state raccolte a supporto della tesi che mette in correlazione Stato e terrorismo?
La sfortuna del lavoro che è stato fatto è che le prove, le testimonianze e le carte sono comparse a distanza di tempo, addirittura in decadi diverse '70 -'80 - '90 - 2000 per cui non c'è mai stato un processo con tutti gli elementi raccolti a carico di tutti. Quando si raccoglievano prove a carico di qualcuno questi erano già stati giudicati oppure addirittura erano morti. Però ciò non toglie che alcuni dati sicuri ormai li abbiamo e portano a una paternità della strage ormai certa. Dobbiamo dividere le prove raccolte su piazza Fontana e sugli attentati precedenti e circostanti in tre grandi blocchi. Il primo blocco è quello che si è saputo dopo l'indagine sulla pista nera del processo di Catanzaro dove è vero che Freda e Ventura per insufficienza di prove sono stati assolti in appello, tuttavia sono stati condannati per tutti gli attentati precedenti che erano una progressione verso quell'attentato finale. Poi c'è la seconda parte di indagini che sono state aperte da me come giudice istruttore a Milano negli anni ’80 –‘ 90 e che terminano con risultati che apparentemente non sono positivi ma invece queste sentenze hanno delle virtù nascoste che vanno ricordate. Alla fine dei processi in cui c’è Carlo Digilio, la sentenza di assoluzione che assolve soprattutto Maggi, che era il capo di Ordine Nuovo del Veneto, dice esplicitamente in motivazione che nonostante l'assoluzione dei singoli è sicuro che tutti gli attentati del 12 dicembre sono stati ideati, organizzati e commessi dalle cellule di Ordine Nuovo del Veneto. Inoltre con le nuove prove emerse negli anni ’80 – ‘90 si può affermare storicamente per questi attentati la responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura. E poi c'è la sentenza della Cassazione del 2005 con la quale apparentemente le possibilità di saperne di più sono concluse. E invece così non è.
Cosa succede dopo il 2005, dopo l’ultima sentenza definitiva?
La sentenza del 2005 conferma le assoluzioni arrivate nel processo d’appello che aveva ribaltato le condanne del primo grado sostanzialmente perché il casolare in provincia di Treviso in cui venivano conservate armi ed esplosivi delle cellule di Padova e Venezia non venne trovato. Passa qualche anno e mentre sto studiando perché voglio scrivere questo libro, mi capita di vedere degli atti della Procura di Milano che erano stati fotocopiati durante le indagini a Catanzaro del vecchio processo perché servivano per attività di riscontro. Qui in un faldone che era stato lasciato lì senza che venisse portato in aula c'era un'agenda di Ventura del 1969, l'anno giusto, e in alcune paginette c'era scritto Digilio – Paese - e il nome di un avvocato: sembra chiaro che lui Digilio a Paese vedeva quell’avvocato. Segnalo la cosa alla Procura di Brescia che è interessata perché anche per piazza della Loggia Digilio è il teste chiave e quindi ne vogliono verificare l'attendibilità. Mandano un ispettore che in poco tempo trova il casolare. Siamo nel 2010, a processo finito. In sostanza Digilio aveva detto il vero. Se questo fosse arrivato in aula a Milano probabilmente non ci sarebbero state le assoluzioni. La Procura di Milano si è tenuta questi atti facendo un errore che è stato decisivo per l'esito del processo. Ma negli anni sono emerse tante altre cose che ci hanno confermato il quadro che c'era nei processi precedenti.
Cosa?
Per esempio è emersa la vicenda del “paracadutista”. Nei verbali di Digilio all'inizio si parla della partecipazione di un altro militante all'operazione che è il figlio di un funzionario di banca. Iniziamo a fare delle ricerche e riusciamo a identificare questa persona che è un elemento operativo di Ordine Nuovo di Verona legatissimo agli alti vertici delle cellule venete ed è responsabile di tutta una serie di episodi, faceva l'esercitatore di militanti nelle colline intorno a Verona per esercitare gli uomini, e addirittura si scopre da una testimonianza di una ragazza a lui vicino all'epoca che il giorno della strage di piazza Fontana era effettivamente assente da Verona ed era a Milano, più altri elementi che sono raccontati nel libro. Anche qui nessuna indagine. Noi abbiamo fatto quello che si poteva fare, come colloqui, ricerche, ma non c'è stato nessuno sviluppo e in più quella che io ho chiamato “la maledizione di piazza Fontana” ha fatto capolino anche questa volta perché quest'uomo che chiamiamo il paracadutista perché ha fatto effettivamente il paracadutista nell'ambito di strutture paramilitari di appoggio a tentativi di golpe, addirittura muore negli stessi giorni in cui il libro viene dato alle stampe. Un'altra occasione assolutamente persa.
Come è possibile che lui, come altri, non sia stato identificato prima?
Quello che siamo riusciti a trovare da soli era tutto materiale che poteva essere molto più sviluppato se ci fosse stato una prosecuzione di indagine da parte della procura di Milano, cosa che non è avvenuta nonostante le numerose sollecitazioni arrivate anche dal difensore dei parenti delle vittime. Questo purtroppo è stato il riflesso di una situazione che io considero una pagina nera della magistratura. Ci sono state invidie, ci sono state mancanze di collaborazione anzi atteggiamenti di concorrenza che sono durati anni e che hanno fatto alle indagini un danno enorme. C'è stata una guerra tra magistrati che hanno subito indirettamente i parenti delle vittime che hanno visto sfuggire un risultato che era a portata di mano. Se la Procura invece di continuare a mandare esposti contro di me, che si sono conclusi in nulla ma intanto il danno l'hanno fatto, avesse lavorato di concerto col mio ufficio, oggi a 50 anni dalla strage parleremmo di alcune sentenze di condanna e di una conoscenza ormai più che completa di quei fatti. Purtroppo non è stato così.
Parla per più di due ore il giudice Salvini, in una sorta di flusso di coscienza che ripercorre 50 anni di ricordi, di emozioni e di qualche amarezza. Dice “purtroppo non è stato così” ma a tratti sembra non crederci neanche lui, come non fosse ancora del tutto rassegnato. “Questa è una storia che nessuno vorrebbe scrivere. Anche la carta e l’inchiostro vorrebbero rifiutarla per vergogna”.