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Cesare Battisti: "Fuga all'estero grazie al sostegno di partiti e intellettuali"

Cronaca

L’ex terrorista dei Pac ha parlato agli inquirenti degli “aiuti” ricevuti durante i 37 anni di latitanza. Persone – nessuna di queste italiana – che “sostenevano la mia ideologia”. Battisti ha negato di essere stato sostenuto dai servizi o dalla criminalità

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Nei 37 anni passati in latitanza, Cesare Battisti è stato “aiutato da partiti, gruppi di intellettuali, soprattutto nel mondo editoriale, come sostegno ideologico e logistico”. È lui stesso a raccontarlo, durante l’interrogatorio del capo dell'Antiterrorismo milanese, Alberto Nobili, e del dirigente della Digos, Cristina Villa, nel carcere di Oristano. L'ex terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac) arrestato a gennaio in Bolivia, oltre ad ammettere i quattro omicidi per cui è stato condannato, ha parlato dei crimini commessi in passato, della “rete” di appoggi ricevuti e ha chiesto scusa ai familiari delle vittime. Ora Battisti (CHI È) dovrà scontare la pena dell’ergastolo con l’isolamento per sei mesi.

La “rete” di aiuti nel verbale dell’interrogatorio

Nessuna delle persone che lo ha aiutato nella sua latitanza era italiana, ha sottolineato Battisti. Con loro "ho sempre professato la mia innocenza e ciascuno è stato libero di interpretare questa mia proclamazione come meglio ha creduto, ma posso dire che per molti di questi il problema non si poneva, andava semplicemente sostenuta la mia ideologia", ha aggiunto Battisti. "Cercavo di dare di me l'idea di un combattente della libertà - ha proseguito - come io mi sentivo per i fatti degli anni '70", rafforzata dal fatto di essere stato "un intellettuale, scrivevo libri, ero insomma una persona ideologicamente motivata, per cui nessuno sentiva il bisogno di agire contro di me (...) nessuno mi ha dato la caccia". Battisti ha poi raccontato di aver potuto raggiungere in aereo il Messico, nell'82, "grazie a una colletta tra compagni" e nel periodo in cui è stato in Francia, dal 1990 al 2004, di essersi mantenuto "scrivendo libri" e lavorando per alcune riviste come traduttore: "Avevo contatti con grandi casi editrici francesi e guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia e comprare una casa nella regione di Parigi".

Nessun aiuto da servizi segreti o malavita

L’ex terrorista ha però voluto precisare che sono "pura fantasia" le contestazioni che gli sono state mosse da un giudice brasiliano di essere stato "favorito" dai servizi segreti francesi. "Quando sono andato via dall'Italia ho avuto i documenti da un amico di famiglia, quando sono andato via dalla Francia, avevo documenti falsi francesi, credo che provenissero da rifugiati spagnoli della guerra civile dei tempi di Franco", per il resto "ho sempre utilizzato i miei veri documenti". Infine, Battisti ha sottolineato di non aver "mai avuto a che fare in alcun modo con esponenti della malavita organizzata sia italiana che straniera" in quanto "avrei in modo irreparabile compromesso la mia immagine di rifugiato politico ed era contrario a qualsiasi mia concezione".

Torregiani e Sabbadin dovevano essere “solo feriti”

Nella sua lunga confessione, Battisti ha poi raccontato agli inquirenti che Pierluigi Torregiani e Lino Sabbadin, i due "commercianti" entrambi assassinati il 16 febbraio 1979, il primo a Milano e il secondo a Mestre, dovevano essere "solo" feriti dai Pac. "Ritenevamo che la morte andasse oltre la nostra politica (...) per non metterci al loro stesso livello, cioè quello di giustizieri. Loro avevano ucciso (i due erano definiti dai Pac "miliziani" per "aver ucciso due rapinatori", ndr), noi volevamo mostrare un intento punitivo senza equiparaci a loro". Sempre parlando degli omicidi, ha poi spiegato che per quello del maresciallo di Polizia Penitenziaria Antonio Santoro, da lui ucciso a Udine il 6 giugno 1978, "l'indicazione (...) venne dai compagni del Veneto per le 'torture' commesse nel carcere a carico dei detenuti politici". Quello dell'agente della Digos Andrea Campagna, al quale sparò a Milano il 19 aprile 1978, invece fu commesso dietro segnalazione del "collettivo di Zona Sud, in quanto (...) era stato ritenuto uno dei principali responsabili di una retata di compagni del collettivo Barona che erano stati poi torturati in caserma".

“Non sono un killer, confesso per spiegare la mia scelta”

L'ex Pac ha quindi spiegato il motivo della sua “confessione tardiva”. “È una opportunità di cui intendo avvalermi, non perché io possa sperare di ottenere benefici che mi rendo conto nella mia posizione non sono prevedibili almeno nel breve periodo, ma tengo ad evidenziare una mia scelta che avevo già maturato quando sono evaso nel 1981". Salvo poi, aver dovuto "dissimulare con i miei ex compagni di lotta armata" la decisione presa "in quanto mai avrei potuto riferire di un mio intento di dissociarmi a rischio della mia stessa vita". E ha aggiunto: "Io non sono un killer, ma sono stato una persona che ha creduto in quell'epoca" per un "movente ideologico" non per un "temperamento feroce”. Infine, dopo le scuse ai famigliari delle vittime, la critica alla lotta armata, definita “un movimento disastroso che ha stroncato" quella rivoluzione 'positiva' nata con il '68. Lotta armata che allora per lui era una "guerra giusta" e che "oggi (...) per me è qualcosa priva di senso". (IL FRATELLO DI ANDREA CAMPAGNA A SKY TG24: VUOLE LO SCONTO DI PENA)