Basaglia a Gorizia: quando la democrazia entrò in manicomio

Cronaca

John Foot

Franco Basaglia in una foto d'archivio
franco_basaglia

Nel saggio La Repubblica dei matti, edito da Feltrinelli, John Foot racconta la battaglia del medico per la riforma radicale dell'assistenza psichiatrica. Dall'arrivo nell'istituto friulano nel 1961 all'approvazione della legge 180 nel 1978. L'ESTRATTO

Accompagnata da Basaglia, la democrazia entrò nel manicomio di Gorizia, un luogo che non aveva mai conosciuto la libertà di parola. Un'istituzione che era stata l’epitome della non-democrazia e dell’esclusione, dove i "pazzi" venivano rinchiusi e ridotti al silenzio, diventando non-persone prive di identità, di un passato e di un futuro, si trasformò  in una scuola di democrazia, un luogo da visitare per vederla in atto. Era questo il "rovesciamento", la "negazione", di cui tanto parlava l’équipe di Basaglia. Gorizia era una meraviglia nel mondo del Sessantotto, una fonte di stupore, una visione di cambiamento che ti cambiava la vita: una specie di miracolo.

Le "assemblee generali" vere e proprie, aperte a tutti nell’ospedale, cominciarono nel 1965, ma le riunioni con la partecipazione dei pazienti rientravano nel progetto basagliano fin dall’inizio. Mario Dondero scattò una serie di fotografie di un’assemblea più piccola, di reparto (c’è anche Basaglia) nel 1964. Dal novembre 1965, comunque, l’assemblea generale dell’ospedale si teneva regolarmente ogni mattina, verso le 10. Chiunque poteva partecipare: infermieri, medici, pazienti, e anche le loro famiglie. Cominciavano ad arrivare anche persone dall’esterno: studenti, cineasti, giornalisti, attivisti, aspiranti psichiatri. Le assemblee erano coordinate dai pazienti e venivano verbalizzate. Il procedimento riprendeva in parte i metodi delle comunità terapeutiche classiche, in Scozia e altrove, che l’équipe di Gorizia aveva potuto studiare. Ci volle del tempo, prima che le cose cominciassero a funzionare. Nella sala fumosa, con un tavolo e semplici sedie di legno, le prime assemblee furono all’insegna del pandemonio, o di lunghi e imbarazzati silenzi. Ne esiste qualche filmato, e le immagini dei tanti fotografi che accorrevano a Gorizia nel Sessantotto.

Ma in quella nube di fumo di sigaretta, tra litigi, borbottii e pause interminabili quando nessuno apriva bocca, l’evento caotico andava prendendo forma, prefigurando il Sessantotto stesso. Per certi versi, era il Sessantotto. I pazienti gridavano e brontolavano, andavano e venivano a discrezione, e parlavano tra loro. Qualcuno si limitava a star li a guardare, soprattutto all’inizio. Molti non si presentavano nemmeno. I medici erano vestiti come tutti, in genere senza camice (fu definitivamente abolito nel 1964, anche se pare che qualche medico continuasse a portarlo come protesta contro le riforme di Basaglia, come un segno del suo non essere basagliano), e si mescolavano con i pazienti. I medici dell’équipe intervenivano poco durante le assemblee generali, alle quali però seguivano regolari sedute di verifica e altre riunioni per analizzare gli eventi della precedente assemblea: dopo un’assemblea, un’assemblea sull’assemblea. Gorizia era verbosa, parlata, vociante e spesso molto involuta. Un po’ alla volta, pero, i pazienti cominciarono a discutere delle cose che determinavano la loro vita di ogni giorno. Cominciarono, in una certa misura, ad assumere il controllo.
Franco Pierini, un giornalista dell'“Europeo”, venne a Gorizia – con un fotografo – nel 1967. Cosi descriveva l’assemblea generale:

“Siamo stati due giorni a Gorizia, li abbiamo sentiti parlare questi uomini e queste donne, dibattere questioni che li riguardano da vicino: perché il reparto d non va in gita fuori da molto tempo, perché le donne della sartoria fanno opposizione al trasferimento della sala da pranzo nel loro laboratorio, perché non bisogna preoccuparsi se ogni tanto c’è qualche biscia nel parco: “La signora Giovanna ha parlato con una signora che lavora nei campi e ha detto che ha visto si una biscia, pero una biscia di campo non e velenosa”. Sarebbe far torto a questi uomini e a queste donne, un torto grave, scrivere qui che parlano come noi. Sono migliori di noi nella tecnica della discussione, nella dialettica degli opposti pareri, nelle conclusioni raggiunte senza capri espiatori, senza vinti”.

Le vecchie rigidità gerarchiche venivano aggirate, rovesciate, ignorate e demolite. L’assemblea era la dimostrazione pratica di come si poteva “mettere tra parentesi la malattia mentale” nel rapporto con i pazienti. Durante gli incontri accadeva che qualche paziente creasse problemi, ed era difficile, e spesso frustrante, concentrarsi sul tema in discussione. Ma per Basaglia i pazienti “disturbatori” rientravano nel processo di cambiamento, erano segnali (positivi) di ribellione. Il suo lavoro, dichiarava, consisteva nel far esplodere le contraddizioni del sistema. Stava nascendo una comunità che, col tempo, sarebbe diventata capace di agire in modo collettivo.

Le assemblee presero gradualmente forma. I pazienti affluivano sempre più numerosi; i silenzi erano sempre più brevi. "La parola scorre, rimbalza, cattura infermieri e medici, ma richiede un ascolto che ne renda possibile il percorso." Si contavano i voti e si prendevano decisioni. Si producevano documenti. Ai pazienti venivano affidate responsabilità reali, comprese quelle istituzionali e finanziarie. In genere la discussione riguardava le materie apparentemente più noiose e banali: vitto, sigarette, retribuzione del lavoro (per la prima volta il lavoro dei pazienti veniva pagato davvero), gite. Ma c’erano in gioco anche questioni più grosse. A chi si poteva permettere di uscire nel mondo esterno? Era davvero sicuro, e utile, aprire i reparti chiusi? Qual era esattamente il male – se pure male c’era – di cui soffrivano certi specifici pazienti? E tutto girava intorno a problemi ancora più grandi, che toccavano il cuore dell'"istituzione totale" all’interno della quale si tenevano le assemblee. Che cos'è la follia? Perché stavano tutti in manicomio? Chi ce li aveva messi? E loro stessi, chi erano?
© 2014, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano

Tratto da John Foot, La "Repubblica dei matti". Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia 1961-1978, Feltrinelli, pp. 392, euro 22

John Foot è docente di Storia contemporanea italiana. Ha insegnato presso il Dipartimento di italiano dell'University college di Londra e insegna ora all'Università di Bristol. Tra le sue opere pubblicate in Italia, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città (Feltrinelli, 2003),  Calcio. 1898-2007. Storia dello sport che ha fatto l'Italia (Rizzoli, Milano, 2007)

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