Figli dell'arcobaleno: la storia di Emily e i suoi due papà

Cronaca

Samuele Cafasso

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Un libro edito da Donzelli racconta le vite di madri lesbiche e padri gay nel nostro Paese. Tra dubbi, paure, battaglie nei tribunali, viaggi all'estero e diritti negati.  ESTRATTO

Out of the closet, «Fuori dall’armadio!». Nella vita dei gay di tutto il mondo c’è un momento – tragico, divertente, commovente – in cui devi raccontare agli altri chi sei, cosa vuoi, chi ti piace. E la tua vita cambia. Gli anglosassoni l’hanno raccontato come il momento in cui «esci dall’armadio», fai «coming out», anche se spesso i giornali italiani fanno confusione con «outing» che è un’altra cosa, perché significa sì rivelare l’omosessualità: ma non la tua, quella di un altro. Nella nuova stagione delle famiglie arcobaleno, in Italia, succede che si esca dall’armadio in tre o quattro, ovvero una coppia con uno o due bambini in braccio. Per alcuni omosessuali, infatti, solo un figlio è il pungolo decisivo per uscire definitivamente allo scoperto, anche se poi c’è sempre qualcuno che ti ci vorrebbe ributtare dentro l’armadio.

Alle porte di Milano, in fondo a una strada in mezzo ai campi di un paese che si chiama Peschiera Borromeo, in un quartiere di villette a schiera, vivono Daniele, 39 anni, e Giuseppe, 43, con due cani, Pulce e Minnie. Dal dicembre del 2013, però, insieme a loro c’è anche Emily. È nata in Canada, dove Daniele e Giuseppe sono sposati e, come tutti i bambini, ha cambiato la vita dei suoi genitori, ma in questo caso la frase è un po’ più vera del solito. Alto, con una bella barba sale e pepe, Giuseppe fa lo stesso lavoro di suo padre, geometra in una grande azienda della petrolchimica italiana. Una vita in giro per il mondo tra cantieri e impianti di estrazione: Libia, Qatar, Nigeria. Daniele, barbuto pure lui, lavora invece nel ristorante di famiglia, come la sorella. Oggi vivono assieme in una casa con le foto incorniciate in salotto, l’albero di Natale da una parte, la culla dall’altra, le occhiaie tipiche di chi non dorme troppo e ha imparato a tendere l’orecchio verso i primi singulti provenienti dalla culla. A svegliarsi la notte, fanno un po’ a turno. Per un momento, però, la loro vita ha rischiato di essere tutta un’altra cosa ed è proprio questa storia che hanno deciso di raccontarmi.

«Io – esordisce Giuseppe – un figlio l’ho sempre voluto. Mi ricordo al mare quando avevo appena preso la patente, avevo 18 anni e mi piaceva portare i ragazzini più piccoli con me al parco acquatico, prendermi cura di loro». Ma un gay può avere un figlio? Nella testa di Giuseppe, per tantissimi anni la risposta è stata no e questo lo distruggeva, lo mandava in crisi perché senza un figlio lui non riusciva a immaginare la sua vita da adulto. Per Daniele, invece, era diverso: lui alla sua famiglia che era gay l’aveva detto quando aveva vent’anni. Non era stato facile, suo padre l’aveva accettato ma non gli piaceva che si sapesse in giro. «Da allora – racconta Daniele – l’idea dei bambini era uscita dalla mia testa. Volevo una famiglia mia, certo, ma i figli…Come potevo pensare a una cosa del genere?». Nel 2007 Daniele e Giuseppe si conoscono su una chat gay sul web e poco dopo decidono di vivere assieme, prima nella casa di Giuseppe, poi si trasferiscono in una più grande, dove vivono ancora adesso. Uno, Giuseppe, è spesso in giro per il mondo per via del suo lavoro, l’altro passa le serate nel ristorante di casa. Stanno insieme, ma non si deve sapere troppo in giro: è la vita di moltissime coppie gay nell’Italia degli anni duemila, coppie di fatto, come se fossero sposati, anche se poi non lo sono. Come fossero una famiglia, anche se non tutti sono disposti a riconoscerlo, a partire dai loro stessi parenti. E, infine, senza figli. In casa di Giuseppe e Daniele, a un certo punto, arriva un cane «perché i gay in Italia quello possono avere, no? Un cane non certo un bambino» ironizza, ora Daniele. Ma allora non c’era molto da ridere: per Giuseppe Pulce era davvero come un figlio, l’unico che potesse avere. Vanno avanti così, per anni, fino a quando, nel 2010, Giuseppe ha una crisi. «Volevo un figlio e per volerlo ero disposto a vivere con una donna cancellando quanto avevo fatto finora. Avrei avuto una doppia vita, avrei dovuto ingannare mia moglie, certo, questo lo sapevo. Ma non potevo fare altrimenti, credevo di non poter fare altrimenti. Nelle chat gay avevo conosciuto padri che si nascondevano alle mogli e facevano sesso con altri uomini: potevo farlo pure io, mi è passato per la mente che quella potesse essere anche la mia vita».

A tre anni di distanza Giuseppe ricorda quel periodo con il distacco di chi sa che quella era una strada folle e sbagliata, ma per capirlo veramente ha dovuto usare tempo e fatica, ha dovuto ricostruirsi: ci sono state le sedute di analisi, ci sono state lunghe letture e discussioni, c’è stata la separazione da Daniele e poi il ricongiungimento. È difficile capire, oggi in Italia, quanti omosessuali abbiano percorso la stessa strada di Giuseppe e quanti, diversamente da lui, decidano di vivere una vita che non è la loro. I genitori omosessuali non sono previsti nel modo in cui la maggioranza degli italiani interpreta la società in cui vive, eppure esistono. Secondo una ricerca svolta nel 2005 da Arcigay e patrocinata dall’Istituto superiore di sanità, il 17,7% dei gay italiani con più di quarant’anni e il 20,5% delle donne lesbiche ha almeno un figlio, il che significa circa 100 000 persone. Secondo un’altra ricerca dell’anno dopo condotta dal sociologo Raffaele Lelleri, il 4,9% di tutti i maschi gay e il 5% di tutte le femmine lesbiche dichiarano di essere genitori. Stimando in cinque milioni gli omosessuali italiani, significa circa 250 000 persone. In molti casi si tratta di famiglie ricomposte, dove uno dei due genitori ha avviato una relazione omosessuale dopo aver avuto un figlio da una precedente relazione eterosessuale. C’è da dire che negli ultimi dieci anni è cresciuto in maniera sensibile anche il numero di persone che diventano genitori all’interno di una coppia omosessuale, in Italia principalmente attraverso la fecondazione artificiale. Per Giuseppe è stato infine decisivo l’incontro con Famiglie arcobaleno, l’associazione italiana dei genitori omosessuali. Ed è proprio il boom di iscritti a quest’associazione – di cui parleremo più avanti – a dare la misura della crescita del fenomeno in Italia, sebbene chiaramente non tutte le famiglie omogenitoriali in Italia siano iscritte. «All’inizio anch’io credevo come molte persone che un bambino per crescere avesse bisogno di una mamma e di un papà, di una figura maschile e femminile, faticavo a immaginare una famiglia diversa». Ma in Famiglie arcobaleno il geometra e il suo compagno ristoratore conoscono bambini che quando chiamano papà fanno girare due persone, non una sola, bambini che hanno facce felici e che fanno gli stessi capricci e hanno le stesse esigenze di tutti gli altri. Ci sono le assemblee dell’associazione, in un grande hotel di Rimini, per ospitare tutti i soci e i loro figli. Assemblee che, a viverle, danno l’idea di quanto possa essere in fondo banale la vita con due papà o due mamme: più di qualsiasi spiegazione teorica, sono le esperienze di vita degli altri soci a mostrare a Giuseppe e Daniele che un modo diverso di fare famiglia non è impossibile. E sono proprio i bambini, la naturalezza con cui raccontano della loro famiglia, a spiegare, prima di tutto il resto, che il concetto di «innaturale» è del tutto fuori posto. «Ho visto famiglie felici, bambini allegri, ho iniziato a capire che non era come pensavo: si può crescere bene anche con due papà o con due mamme, anche in Italia», racconta Giuseppe. Potrebbe essere la fine della storia, ma è solo l’inizio di un percorso combattuto.

Il nuovo cammino della vita di Giuseppe e Daniele inizia infatti con il matrimonio in Canada, a Toronto, che per i due uomini è un momento di vera felicità e la dimostrazione definitiva che essere gay non debba precludere loro il desiderio di ufficializzare il loro amore, renderlo pubblico. Ma il ritorno a casa, dopo il viaggio assieme, i progetti, la cerimonia, non è semplice: Giuseppe e Daniele pensano a una grande festa nel loro paese per condividere la propria gioia con amici e famiglia, ma i problemi sono migliaia perché non tutti in Italia accettano l’amore omosessuale come un amore da celebrare perché capace di costruire qualcosa che resta. Nell’ordine: ai suoceri della sorella di Giuseppe non vengono consegnate la partecipazioni perché l’idea del matrimonio tra due uomini potrebbe disturbarli. Le bomboniere ci sono, ma i genitori preferirebbero di no. Il taglio della torta è programmato in privato, «per non offendere la sensibilità di nessuno». Sino all’ultimo minuto, non si sapeva se alla festa sarebbero stati presenti il padre di Daniele e la madre di Giuseppe che, da parte sua, con il figlio aveva litigato prima del viaggio in Canada: «Se ti sposi con un uomo, non avrai mai un figlio», gli aveva detto. Si tratta, in fondo, soltanto di una delle versioni, probabilmente la peggiore, del crudele dilemma a cui diversi gay, specie nel passato, sono stati messi davanti: una vita nascondendo il tuo orientamento sessuale, una vita falsa ma reale, o un’altra in cui vivi onestamente un amore che però, per il resto della società, è un amore da niente perché nulla costruisce. Un amore sterile dove la mancanza di figli è solo la manifestazione di una sterilità più grande, perché frutto di un amore considerato senza senso. Ma la mamma di Giuseppe si sbagliava visto che, proprio in Canada, i due uomini avevano avviato le pratiche per avere un figlio con la gestazione per altri, grazie all’ovulo di una donatrice e alla gravidanza portata avanti da una seconda donna. Anche di questo, della molto discussa gestazione per altri, parleremo più avanti, nel quarto capitolo. Per ora basti dire che il loro, come spesso succede, non è stato un percorso semplice. Dopo l’individuazione della portatrice e della donatrice, dopo tre transfer di embrioni falliti e un aborto all’undicesima settimana, Daniele e Giuseppe erano quasi sul punto di cedere quando il medico disse loro che bisognava ricominciare tutto l’iter medico da capo. Sono percorsi psicologicamente coinvolgenti e dolorosi, oltre che economicamente costosi: la spesa complessiva per Giuseppe e Daniele alla fine è stata superiore ai centomila euro, prima che la portatrice rimanesse incinta, nel gennaio del 2013. «Di quei mesi mi ricordo che sono diventato superstizioso – racconta Daniele –. Speravo che ci fosse il sole il giorno delle ecografie perché la prima volta era andata bene e il tempo era sereno. Mi allaccio le scarpe sempre su questo divano, perché ero qui quando sono arrivate le buone notizie, vietati gli acquisti per i bambini prima della nascita, perché avevamo conosciuto una famiglia che aveva comprato un completino per il loro figlio pochi giorni prima di un aborto».

La loro è la trepidazione di tutti i genitori, anche se per veder nascere la loro bimba sono dovuti volare fino in Canada e i mesi dell’attesa sono stati mesi vissuti a migliaia di chilometri di distanza dalla loro futura figlia. L’ultimo di una lunga serie di viaggi avanti e indietro da Toronto per seguire la nascita è stato nel settembre del 2013: Emily è arrivata nel mondo l’11 ottobre, con un parto cesareo, e ha cambiato tutto. Quando Giuseppe e Daniele erano tornati a casa dopo il matrimonio, in pochi nelle loro famiglie sembravano disposti a condividere pienamente il loro percorso di vita. Ma dopo la nascita di Emily, al ritorno in Italia, ogni cosa improvvisamente sembra mutare. Questa è una costante della vita di molte coppie: i figli sono la chiave di una legittimazione del proprio progetto di vita che, altrimenti, tarda ad arrivare. I figli ti scagliano repentinamente in una vita di routine, in cui gli orientamenti sessuali non contano più: ora sei genitore, prima di tutto il resto. Sei genitore perché come il resto dei genitori ti devi occupare della bambina le notti quando non dorme, delle pappe, dei pannolini. E poi, più tardi, dell’asilo, della scuola e altro ancora. Il tuo essere omosessuale, così, per molti finisce per essere una discriminante rilevante.

In aeroporto ad aspettare Giuseppe e Daniele, quando sono tornati in Italia dal Canada con Emily in braccio, c’erano tutti i nonni con tanto di macchine fotografiche, con gli applausi e le lacrime. La mamma di Giuseppe, ora che ha una nipote, lo racconta a tutti che Emily ha due papà. I cugini di Emily, Sonia e Alessia, hanno scritto allo zio che la piccola Emily è il più bel regalo di Natale e, insomma, la storia finirebbe qui se non fosse che c’è sempre qualcuno che tenta di ributtarti dentro l’armadio da cui, come gay, hai deciso di uscire. C’è la burocrazia, ad esempio: Emily ha due cognomi – quelli dei due papà – ma l’assegnazione di quello del genitore non biologico è stata bloccata dal Consolato italiano a Toronto e finalmente riconosciuta, insieme alla cittadinanza italiana e al diritto al congedo obbligatorio e facoltativo, solo dopo una lunga battaglia legale, portata avanti anche grazie all’avvocato Alexander Schuster. C’è ancora la paura del giudizio degli altri che fa dire a Daniele che forse è meglio che la loro figlia sia una femmina, perché a volte ci sono delle persone che pensano male a vedere un bambino maschio affidato a due gay. E poi, per Giuseppe, ci sarà il ritorno al lavoro: «Per adesso ho sempre raccontato che sono un padre single, che la madre non ha riconosciuto Emily. Penso che dove lavoro ci sia molta omofobia e so che raccontare la verità sul secondo padre di mia figlia forse mi creerà qualche problema. Ma non ci voglio rinunciare, anche perché oggi il mio lavoro non è certo la priorità. D’altronde, non potrei fare altrimenti. Dovrei nascondermi tutto il tempo, non voglio farlo». Giuseppe ci ha provato una volta a chiedere cosa pensassero i colleghi di una famiglia con due papà o due mamme. «Ho sentito le risposte, non ho più voluto insistere». Anche la scelta del posto dove vivere non è così pacifica: Daniele ama il suo paese, gli piace stare a Peschiera Borromeo, ma invece Giuseppe l’Italia la lascerebbe volentieri, ora che ha una figlia. «Non vedo un gran futuro per questo paese se non cambia. Io a Emily voglio insegnare subito l’inglese. Perché è nata a Toronto ed è giusto così, ma soprattutto perché le servirà nella vita quando e se se ne vorrà andare».

© 2014 Donzelli Editore, Roma.

Tratto da Samuele Cafasso, Figli dell'arcobaleno. Madri lesbiche, padri gay, diritti negati in Italia, Donzelli Editore, pp. 118, euro 18.

Samuele Cafasso ha studiato comunicazione e giornalismo all’Università Iulm di Milano e oggi vive a Genova, la città in cui è cresciuto e dove scrive di economia e portualità per il quotidiano «Il Secolo XIX» dal 2005

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