Antonio e gli altri: le storie dei nuovi poveri invisibili

Cronaca
(Credits: Fotogramma)
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Dopo aver vissuto un mese con loro alla stazione centrale di Milano, Francesca Barra in un libro Rizzoli racconta le vicende di uomini e donne sopravvissuti alla crisi, ma rimasti senza niente. Tra questi, Antò, un padre separato. L'ESTRATTO

di Francesca Barra

Antonio

Un giorno ho visto da lontano quattro camion avvicinarsi alla via del negozio. Il giorno dopo ho visto mettere le transenne. Poi alzarsi tanta polvere. Poi ho visto il negozio vuoto. La strada bloccata dai lavori per la costruzione di nuovi palazzi che avrebbero dovuto portarci lavoro in più. Ma, quando ho iniziato a vedere il mio conto in rosso e il signor Tommasi ha insistito per vendere, ho ceduto il negozio a quelli che avrebbero costruito il megapalazzo, il paradiso del quartiere. Quelli che avevano fatto irruzione con camion e transenne.
«Vedrai che con i soldi che faremo ci compreremo qualcosa di diverso. Ho già varie idee. Magari ci spostiamo di zona, che questa diventa troppo industriale e l’artigianato non capiscono nemmeno cosa sia. Intanto vatti a fare una vacanza con la tua famiglia. Quando torni è tutto a posto.»
«Tutto a posto, signor Tommasi?»
«Tutto a posto, Antonio. Ti ho mai deluso, io?»
Allora ho portato i figli e Tania, preoccupata per quell’azzardo, da mia madre in Puglia. Abbiamo visitato i trulli di Alberobello. Tania aveva le espadrillas con la corda di iuta spelacchiata. Faceva qualche metro e si fermava ad aggiustarsele, perché aveva iniziato a camminare sbilanciata. Io non le offrivo un appoggio. Assorto com’ero in un pensiero fisso: “Tutto a posto per chi?”.

Li ho lasciati lì da soli il 12 agosto. Tania, le espadrillas rotte che avrei dovuto ricomprarle senza metterla così a disagio, e i miei bambini, abbandonati da mia mamma che aveva già previsto tutto e scuoteva la testa, impastando sempre qualcosa.
Sono tornato a Milano. Ho cercato il signor Tommasi. Sua moglie. Non c’era più nessuno. Saranno in vacanza. Macché. Non sono più tornati. E io non ho mai più avuto un lavoro. Ho macinato sensi di colpa per poche ore. Poi è passata.
Per un anno mi ha mantenuto Tania. Faceva il doppio turno in nero. I bambini si autogestivano, io in casa non alzavo un dito. Con calma olimpica, una notte, mia moglie mi ha aspettato in piedi. Ma in piedi davvero. Con la vestaglia legata in vita, ancora me la ricordo, i capelli raccolti, gli occhi come fari puntati nel buio dell’ingresso. Mi ha detto, più o meno così. «Antonio, ho sopportato i tuoi tradimenti. Dieci anni di vacanza solo e sempre in Puglia. Il tuo fallimento sul lavoro, che solo un idiota poteva farsi fregare così. Ho accettato di mantenerti perché volevo umiliarti, farti reagire. Niente. Non hai un briciolo di amore per nessuno qui dentro. E sei un ingrato. Perché avevi avuto un patrimonio da quel brav’uomo di tuo padre. E l’hai sperperato. Ma c’è una cosa che non posso permettere. Io non posso crescere i nostri figli con l’idea che l’uomo sia questo qui.»

E mi ha indicato con il palmo della mano aperto, scorrendo la mia figura dall’alto verso il basso. E poi ancora in alto fino a fermarsi all’altezza del mio viso. E a quel punto mi ha indicato, con l’indice dritto e l’altra mano chiusa in un pugno nervoso. «Non posso rischiare di crescere due falliti, che a loro volta rovineranno la vita ad altre brave persone. Non posso rischiare che diventino come te.» E io, finalmente svegliato dal torpore, ho pensato che volevo dirle ti amo, perdonami, aiutiamoci perché ho scoperto di avere una forte depressione. Credo che sia quella l’origine di tutto.

Avrei voluto dirle che mi sarei fatto aiutare e magari avrei ricominciato dalla mia grande passione: costruire. Anche in casa. E che se mi ero fermato era perché temevo che dopo una certa età il lavoro non te lo danno. Che però c’avrei provato ugualmente, senza abbattermi preventivamente. Che avrei combattuto i pregiudizi. Invece ho detto solo: va bene. Sono sceso in auto portandomi la valigia. E ci sono restato tre ore. Poi tre mesi. Poi mi sono spostato da quel parcheggio. E nel successivo ci sono rimasto tre anni. Poi quell’uomo, Antonio, è definitivamente morto.

All’inizio i miei amici mi invidiavano. Dicevano che avrebbero voluto essere al mio posto. In auto, libero dalla moglie, libero di stare al bar tutte le ore che volevo. Ero diventato una sorta di supereroe popolare. Uno di quelli che non si piegano all’arroganza, alle banche che strozzano, all’abitudine. E io gongolavo. Mica me ne accorgevo che l’auto stava diventando per me fragile come un biscotto sotto i piedi. E che avrei fatto quella fine lì: schiacciato e polverizzato dalla memoria di tutti. Perché sì, a un certo punto, avevano smesso di venirmi a trovare e sedersi sui sedili di dietro, di giocare con me al bar.
Le mogli li facevano girare alla larga. Da uno come me. Allora mi sono buttato sui miei figli. Quanto erano belli, Niccolò e Leonardo. Pure loro, come la madre. Niccolò, con due c, era più in carne di suo fratello, ma sodo. Come una pigna. Se lo toccavi vicino alle giunture ti facevi male di sicuro, come se toccassi le squame. Leonardo invece se ne stava sempre fermo, con l’aria assente dietro le sue lenti un po’ appannate. Ma, quando sorrideva, il mondo pareva diventare indulgente, le lenti ripulirsi e svelarci occhi azzurri, sinceri e curiosi. Li andavo a prendere a scuola e li riportavo a casa, quando Tania me lo concedeva. Più o meno due volte a settimana. O li portavo a calcio. Loro due camminavano sempre vicini come se dovessero essere pronti a soccorrersi a vicenda.

Pensavo avessimo stabilito un rapporto, un equilibrio. Invece ho scoperto che iniziavano a vergognarsi di me. Qualche volta cambiavano strada, se erano con i loro amici, fingevano di non vedermi, di non conoscermi. Mi sono scoperto, nello specchietto retrovisore, con le palpebre ingiallite. Le ciglia incollate da polvere e lacrime. Sono diventato un uomo brutto. Forse anche per quello mi evitavano. Mi domando come sia potuto succedere.
Quanto tempo abbiano impiegato per smettere di riconoscere in me l’autorità, il padre, e per scegliere di essere solo figli della loro madre. Non ricordo in quanto tempo sia arrivata la mia disfatta. Ma la mia macchina è diventata polvere ed è rimasta a prenderne sempre di più, fino a quando si è aggiunto l’odore di muffa che usciva dal bocchettone dell’aria. Ero senza tagliando, senza benzina, senza ticket per il parcheggio. Ma ricordo il giorno in cui Tania è andata via. Con i nostri figli. Mi ha tenuto sulla soglia di casa. Della nostra casa. Io ho tentato di sbirciare all’interno per vedere se fosse rimasto qualcosa di mio. Tutto quello che riuscivo a scorgere, da quello spiraglio, tutto quello che era visibile agli occhi e non ai ricordi, era una casa da cui si vuol presto fuggire. Da cui lei voleva fuggire al più presto. L’ho capito perché non aveva trovato nemmeno il tempo di sbarazzarsi dell’appendiabiti che odiava tanto. Chi resta modifica sempre la casa in cui un marito non decide più nulla. Come se fosse una sorta di rivincita. Non mi ha fatto entrare.

Mi ha detto che aveva trovato lavoro a Riccione, in un hotel con un’amica. Che aveva messo in vendita la casa, ma senza agenzia, con il passaparola, e forse aveva già un acquirente. In quel modo, quando avrebbe venduto, avrebbe potuto comprarsi un buco a Riccione e pagare i debiti accumulati per la mancanza del mio assegno di mantenimento.
A me, dunque, non sarebbe rimasto niente? «Naturalmente» aveva aggiunto. «Naturalmente» avevo risposto, alzando solo il sopracciglio, sperando che quell’espressione un po’ sorpresa la convincesse ad aggiungere altro. Invece no. Mi sono arreso a essere, apparire, uno scarto umano, quando Tania mi ha trattato così. Ero pur sempre il padre dei suoi figli. Per quanto mi odiasse, per quanto mi detestasse, io ero pur sempre l’uomo che aveva sposato, scelto, dicendomi: «Sono sicura». Dovevo proprio sembrarle qualcosa di molto vicino a un criminale per subire quel trattamento. Per permettere che i nostri figli crescessero pensando al loro padre come a un pezzente, solo, povero o chiuso in un’auto. Dovevo proprio averle rubato qualcosa, dentro, nel profondo dell’anima, per aver meritato un simile addio, per non meritare compassione. “Fammi uscire da quell’auto, Tania” volevo supplicarla.

Le dissi solo: «Come farò a vedere i miei figli?». Volutamente dissi “miei”. Visto che lei stava facendo di tutto per aggiudicarsi anche il mio ruolo. «Come farai? Mi chiamerai e concorderemo il giorno in cui potrai venire. Se non avranno impegni con la scuola, gli amici, le attività, vi vedrete.» «Guarda che non è così che funziona. Se io parlassi con un avvocato...» «Lo so bene che non funziona così. Dovrebbe funzionare con un padre che mantiene i suoi figli, che passa l’assegno di mantenimento. Che si preoccupa di loro. Che sia un esempio, una guida. Invece funziona che il loro padre è diventato un senza fissa dimora. E,a proposito, dall’avvocato ci andremo, perché voglio il divorzio. Sei robusto, sano, ti consiglio di trovarti un lavoro.» Ho scoperto, in quel vomito di sentenze, di essere nell’ordine: un senzatetto, uno scarto di padre; e che sarei presto stato cancellato dalle loro vite e anche dallo stato di famiglia. «Ho sbagliato, Tania, a tradirti. Ho sbagliato a credere nel mio socio. Ma ho avuto una forte depressione. Perdonami. Non mi escludere dalla vita dei miei figli. Io non ho soldi, non ho un lavoro, non saprei nemmeno chi assumerebbe uno che faceva l’artigiano da quando aveva diciotto anni. Non andare via ancora.

Dammi, ti giuro due, tre mesi. Risolvo tutto» ho cercato di dirle. Ma lei non mi ha sentito. Perché aveva già richiuso la porta. E io ero rimasto di fronte al campanello, a fissare il mio cognome, intarsiato da me, sul portone. Per l’ultima volta. Io lo so che ha incontrato un altro. Me l’ha detto una delle cretine con cui me la facevo. Mi ha detto che sono un poveretto. Che, se avessi scelto lei anni fa, non mi avrebbe lasciato cornuto in auto a prendere la polvere come un morto.
Oggi, sono esattamente sette anni che non vedo e non parlo a Niccolò e Leonardo per questi motivi. Non ho mai avuto un soldo per andare a trovarli a Riccione. Il primo Natale senza di loro mi ero convinto ad andare a trovarli, dopo aver guardato verso la finestra della nostra ex casa. Al posto del nostro albero storto, i nuovi inquilini avevano messo un abete bianco, finto e dritto. Non era storto e verde come il nostro. Che però ci faceva sbellicare dalle risate ogni 8 dicembre. E ogni 7 gennaio, quando in genere lo smontavamo dopo l’Epifania, ci ripromettevamo di sostituirlo. Ma non lo avevamo mai fatto, e non per pigrizia. Ci si affeziona alle cose non perfette, soprattutto se custodiscono momenti così belli e teneri, come bellissimo e dolce era stato, per noi e per anni, il momento di addobbarlo. Sono un senzatetto. E, tutto quello che temevo di perdere, l’ho perso. Per questo non tengo più a nulla. Ci vorrebbe una magia. Ci vorrebbe Houdini. È incredibile quanto possa mancarti un padre anche alla mia età. Lui mi avrebbe insegnato come aggiustare l’amore.
Proprietà letteraria riservata © 2014 RCS Libri S.p.A. Milano

Tratto da Francesca Barra, Tutta la vita in un giorno, Rizzoli, pp.202, euro 17, Rizzoli

Francesca Barra, nata a Policoro in Basilicata nel 1978, è giornalista e autrice televisiva, radiofonica e teatrale. Fino a dicembre 2013 ha condotto la trasmissione La bellezza contro le mafie su Radio 1 Rai.  Ha collaborato con «Sette» e «l’Unità». Ha pubblicato Il quarto comandamento (Rizzoli 2011), un racconto in Non è un paese per donne (Mondadori 2011) ed è stata coautrice di Giovanni Falcone. Un eroe solo di Maria Falcone (Rizzoli 2012).

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