Montanelli e Berlusconi, due uomini agli antipodi
CronacaIl 22 luglio 2001 moriva il più noto giornalista italiano del secolo scorso. A dieci anni di distanza, Rizzoli pubblica un'antologia di suoi scritti dedicati al rapporto con l'attuale premier, con prefazione di Massimo Fini. Leggine un estratto
di Massimo Fini
Non intendo qui lodare Montanelli, a spese di Berlusconi. Sarebbe troppo facile, troppo comodo adesso che il Faraone è morente e Indro vive nell’aura eterna dei Martiri della libertà di stampa.
E non sarebbe nemmeno giusto. Le cose sono più complesse. È difficile immaginare due personaggi più diversi, antipodi.
A cominciare dalla statura, che nel caso di Berlusconi non è un dettaglio indifferente ma una componente essenziale di quell’inferiority complex da cui ha ricevuto la spinta per raggiungere il successo.
Uomo di stile l’uno, non solo e non tanto nel vestire ma di modi e di tratto, principe del kitsch l’altro.
Pessimista esistenziale il primo, ottimista senza freni inibitori il secondo.
Un uomo che insegue sogni, come riconosce lo stesso Montanelli, almeno nei primi articoli di questa raccolta. E senza sogni non si va da nessuna parte.
Il problema sorge quando il distacco fra sogno e realtà diventa così ampio da essere incolmabile e allora si passa direttamente al neurodeliri, che è la storia, per esempio, dell’Hitler degli ultimi giorni, nel bunker, quando muoveva sulle carte geografiche le inesistenti armate di Wenk.
Da una parte un conservatore, ripiegato nostalgicamente, nel periodo di cui stiamo trattando, su un passato più immaginario e mitico che reale, dall’altra un uomo costantemente proiettato nel futuro.
Ha preso un abbaglio colossale chi, compreso Montanelli, ha scambiato Berlusconi per un conservatore. È invece un innovatore. Un costruttore. E come tutti i costruttori ha bisogno di distruggere tutto ciò che incontra sul suo cammino per poter edificare il nuovo. Che poi tutto ciò che ha costruito, nell’edilizia, nel calcio, in politica, si sia rivelato peggiore di quello che ha distrutto è un altro discorso. Moderato l’uno, estremista o, per essere più precisi, un energumeno l’altro.
Questi due uomini apparentemente incompatibili si sono incrociati per vent’anni, quelli della direzione di Montanelli al «Giornale», e attraverso di loro si sono incrociate due Italie. Un’Italia vecchia, ottocentesca, liberale, l’Italia della grande borghesia e dei notabili, passabilmente ipocrita, bacchettona, morente e l’Italia nascente di un ceto medio indifferenziato, privo di una vera ideologia, di valori, di etica, apertamente e orgogliosamente disonesta, tendenzialmente delinquenziale.
Questo ceto medio non l’ha creato Berlusconi, anche se con le sue televisioni lo ha potenziato, ma l’ha capito perfettamente perché ne faceva parte.
Anzi lo ha anticipato. Era già postmoderno prima che nascesse la postmodernità. Montanelli invece questa Italia nuova, prima di disprezzarla, non l’ha assolutamente capita nemmeno negli effetti positivi che ebbe alle origini. Non capì la Lega e neppure Mani pulite che erano una reazione al corrotto vecchiume della Prima Repubblica.
Mentre questa crollava sotto i colpi giudiziari e di Umberto Bossi, «il Giornale» da lui diretto, ma sostanzialmente confezionato da Federico Orlando, teneva ancora come punto di riferimento Arnaldo Forlani. Sappiamo bene che Berlusconi ha liquidato Montanelli perché un direttore indipendente non era funzionale ai suoi obbiettivi politici.
Ma come Editore non aveva tutti i torti.
Le vendite del «Giornale» stavano crollando, persino noi dello sgangherato, ma più al passo con i tempi, «Indipendente» di Vittorio Feltri eravamo in fase di sorpasso (110 mila copie contro 120 mila). Il fatto è che Indro Montanelli ha cominciato a morire con la morte della Prima Repubblica. Quello era il suo mondo, il suo habitat naturale, dove poteva esercitare nel suo modo magistrale, ma senza correre troppi rischi, l’arte in cui era insuperabile, quella del «bastian contrario».
Avendo l’aria di contrastarla, in realtà la sosteneva («Turatevi il naso »). Dissolti i principali uomini della Prima Repubblica, scomparso il comunismo, Montanelli ha perso i suoi fondamentali punti di appoggio, i suoi bersagli polemici. Il mondo in cui aveva vissuto per tanti anni gli è crollato sotto i piedi. E politicamente, lui pur intellettualmente così fine, non ha capito più nulla. Anche il fallimento della «Voce» è dovuto in gran parte al disorientamento montanelliano.
Rimase invece, Montanelli, un punto di riferimento etico imprescindibile, tanto più indispensabile quanto più Berlusconi, in un crescendo rossiniano, veniva massacrando, oltre alle leggi e alle Istituzioni, tutti i principi e i fondamenti dello Stato liberale e democratico. Montanelli non aveva capito la nuova Italia, ma non aveva capito nemmeno, in profondità, chi era veramente Silvio Berlusconi, pur avendolo frequentato da vicino per quasi vent’anni.
Perché il loro non fu un semplice rapporto tra Editore e Direttore. Sono stati amici.
Probabilmente Indro, depresso cronico, era attratto dalla prorompente vitalità di Silvio, dal suo straripante e contagioso entusiasmo. Lo trattava con l’indulgenza che si riserva a un fanciullo considerandolo in fondo irresponsabile, perdonandogli tutto a cominciare dalle sesquipedali bugie ritenute un’irrefrenabile e innocente espressione del suo superego infantile.
Quando Montanelli afferma che Berlusconi crede sinceramente alle proprie menzogne dice una verità. È una delle forze del Cavaliere, uno così è imbattibile, incontrastabile, indistruttibile. (Lasciatelo dire a me che ho avuto una madre russa e i russi sono dei bugiardi patologici che credono alle proprie bugie. Trotzkij racconta che dopo che Lenin fu colpito dall’ictus che lo mise fuori combattimento, Bucharin andò da lui che era a letto per una banale influenza e gli disse: «Babuscka, babuscka mio, non ti ammalare anche tu altrimenti restiamo nelle mani di Stalin».
Appena uscito dalla casa di Trotzkij, Bucharin andò a tradirlo con Stalin. Ma Trotzkij in Ma vie annota: «Sono certo che quando Bucharin mi diceva quelle frasi affettuose era assolutamente sincero».) In un articolo del 12 dicembre del 1993, per «il Giornale» (Fratelli separati), quando i rapporti fra i due sono già ai ferri corti perché il Cavaliere ha deciso di “scendere in campo” e Indro ne capisce tutte le implicazioni, Montanelli scrive: «Il gioco politico richiede due qualità di cui lui è totalmente sprovvisto: la doppiezza e il cinismo». Invece cinismo e doppiezza sono la cifra più autentica di Silvio Berlusconi. Per «L’Indipendente» di Daniele Vimercati (Feltri, avendo capito tutto o forse, a lungo termine, nulla, si era già involato alla corte del Cavaliere andando a sostituire Montanelli alla direzione del «Giornale») ci divertimmo a fare un gioco: pubblicammo una grande foto del volto di Berlusconi e lo dividemmo a metà.
Un occhio era quello ammiccante, sorridente, del seduttore, del piazzista, l’altro era l’occhio gelido del serpente. Montanelli nei vent’anni in cui frequentò Berlusconi, e anche oltre, non si è mai posto seriamente la domanda di come questo ragazzo di 27 anni, apparentemente senz’arte né parte, avesse potuto accumulare in pochi anni una così immensa ricchezza. Nell’aprile del 1994 scriveva infatti per «la Voce » (Una corona per Silvio): «Quando si accinse a costruire Milano 2 – è da allora che lo conosco – non aveva né un nome, né un soldo, né un padrino e nemmeno un mattone. Aveva soltanto una dirompente carica di entusiasmo e l’illimitata capacità di trasfonderlo in chiunque gli venisse a tiro».
Non si chiese mai a chi appartenessero quelle due misteriose finanziarie svizzere, dai nomi impronunciabili, che avevano dato al giovane Berlusconi sette miliardi dei primi anni Settanta per cominciare l’avventura di Milano 2.
Forse gli faceva comodo non approfondire troppo in un momento di grave difficoltà psicologica, dopo essere stato costretto, nel modo più infame, a lasciare il «Corriere » di cui era stato la prima firma per 37 anni, e mentre varava la traballante navicella del «Giornale ». Ma io, che l’uomo l’ho un po’ conosciuto, preferisco pensare che in Montanelli, oltre a una buona dose di narcisismo e di infantilismo (che sono le due sole cose che lo accomunano a Berlusconi) ci fosse, nonostante tutta la sua esperienza, un fondo di ingenuità.
Quella che manca, e non sono del tutto sicuro che sia un bene, a uno dei suoi più accreditati e affezionati discepoli, Marco Travaglio. E per molto tempo ancora Montanelli volle illudersi che di Berlusconi ce ne fossero due. Uno era quello che aveva conosciuto lui, simpatico, cazzaro,sostanzialmente innocente, l’altro era il mascherone, sconciato, liftato, aggressivo, violento che appariva ormai ogni giorno in Tv e sulla scena politica italiana, rovinato dal servilismo degli scherani, dei saprofiti, delle sanguisughe che erano accorsi a frotte per succhiargli il sangue e la sua enorme energia.
Alla fine dovette rendersi conto che di Berlusconi ce n’era stato sempre uno solo. Uno che non c’entrava niente con la destra, tantomeno con la destra liberale, prezzoliniana, cui si ispirava Indro, uno che quando affermava che «bisogna fare gioco di squadra» in realtà intendeva dire che la squadra doveva giocare solo per lui. E vennero gli articoli più duri, più sferzanti, più irridenti, iconoclasti, che spesso stingevano nella pura invettiva, scritti soprattutto per il «Corriere della Sera».
Ne ricordo uno degli ultimi, di un Montanelli esasperato, vicino alla morte, che aveva una chiusa di una volgarità che non gli apparteneva. Definiva Berlusconi «un piazzista che se un giorno si mettesse a produrre vasi da notte, farebbe scappare la voglia di urinare a tutta l’Italia». Ma si sbagliava anche questa volta.
Dopo la sua morte, Berlusconi ha continuato a venderci pitali, e molto peggio, per altri dieci anni. E ora che la voce di Indro, come quella del Tenco di De Andrè, “canta nel vento” e torna a essere ascoltata, è ormai troppo tardi. Tutto quello che poteva accadere è già accaduto.
©2011 RCS Libri, S.p.A., Milano
Tratto da Indro Montanelli, Ve lo avevo detto. Berlusconi visto da chi lo conosceva bene, Rizzoli, pp.182, euro 12
Massimo Fini, scrittore e giornalista, è autore di molti libri di successo, ancora oggi ristampati. Tra i più recenti, editi da Marsilio, ricordiamo: Il denaro. "Sterco del demonio", Il vizio oscuro dell'Occidente, Sudditi. Manifesto contro la democrazia, Il ribelle. Dalla A alla Z, Ragazzo. Storia di una vecchiaia. Nel 2009 è uscito, sempre per Marsilio, il suo primo romanzo, Il Dio Toth.
Prima di essere raccolto nell'antologia, l'articolo su Tobagi è stato pubblicato sul Fatto quotidiano l'11 dicembre 2009.
Non intendo qui lodare Montanelli, a spese di Berlusconi. Sarebbe troppo facile, troppo comodo adesso che il Faraone è morente e Indro vive nell’aura eterna dei Martiri della libertà di stampa.
E non sarebbe nemmeno giusto. Le cose sono più complesse. È difficile immaginare due personaggi più diversi, antipodi.
A cominciare dalla statura, che nel caso di Berlusconi non è un dettaglio indifferente ma una componente essenziale di quell’inferiority complex da cui ha ricevuto la spinta per raggiungere il successo.
Uomo di stile l’uno, non solo e non tanto nel vestire ma di modi e di tratto, principe del kitsch l’altro.
Pessimista esistenziale il primo, ottimista senza freni inibitori il secondo.
Un uomo che insegue sogni, come riconosce lo stesso Montanelli, almeno nei primi articoli di questa raccolta. E senza sogni non si va da nessuna parte.
Il problema sorge quando il distacco fra sogno e realtà diventa così ampio da essere incolmabile e allora si passa direttamente al neurodeliri, che è la storia, per esempio, dell’Hitler degli ultimi giorni, nel bunker, quando muoveva sulle carte geografiche le inesistenti armate di Wenk.
Da una parte un conservatore, ripiegato nostalgicamente, nel periodo di cui stiamo trattando, su un passato più immaginario e mitico che reale, dall’altra un uomo costantemente proiettato nel futuro.
Ha preso un abbaglio colossale chi, compreso Montanelli, ha scambiato Berlusconi per un conservatore. È invece un innovatore. Un costruttore. E come tutti i costruttori ha bisogno di distruggere tutto ciò che incontra sul suo cammino per poter edificare il nuovo. Che poi tutto ciò che ha costruito, nell’edilizia, nel calcio, in politica, si sia rivelato peggiore di quello che ha distrutto è un altro discorso. Moderato l’uno, estremista o, per essere più precisi, un energumeno l’altro.
Questi due uomini apparentemente incompatibili si sono incrociati per vent’anni, quelli della direzione di Montanelli al «Giornale», e attraverso di loro si sono incrociate due Italie. Un’Italia vecchia, ottocentesca, liberale, l’Italia della grande borghesia e dei notabili, passabilmente ipocrita, bacchettona, morente e l’Italia nascente di un ceto medio indifferenziato, privo di una vera ideologia, di valori, di etica, apertamente e orgogliosamente disonesta, tendenzialmente delinquenziale.
Questo ceto medio non l’ha creato Berlusconi, anche se con le sue televisioni lo ha potenziato, ma l’ha capito perfettamente perché ne faceva parte.
Anzi lo ha anticipato. Era già postmoderno prima che nascesse la postmodernità. Montanelli invece questa Italia nuova, prima di disprezzarla, non l’ha assolutamente capita nemmeno negli effetti positivi che ebbe alle origini. Non capì la Lega e neppure Mani pulite che erano una reazione al corrotto vecchiume della Prima Repubblica.
Mentre questa crollava sotto i colpi giudiziari e di Umberto Bossi, «il Giornale» da lui diretto, ma sostanzialmente confezionato da Federico Orlando, teneva ancora come punto di riferimento Arnaldo Forlani. Sappiamo bene che Berlusconi ha liquidato Montanelli perché un direttore indipendente non era funzionale ai suoi obbiettivi politici.
Ma come Editore non aveva tutti i torti.
Le vendite del «Giornale» stavano crollando, persino noi dello sgangherato, ma più al passo con i tempi, «Indipendente» di Vittorio Feltri eravamo in fase di sorpasso (110 mila copie contro 120 mila). Il fatto è che Indro Montanelli ha cominciato a morire con la morte della Prima Repubblica. Quello era il suo mondo, il suo habitat naturale, dove poteva esercitare nel suo modo magistrale, ma senza correre troppi rischi, l’arte in cui era insuperabile, quella del «bastian contrario».
Avendo l’aria di contrastarla, in realtà la sosteneva («Turatevi il naso »). Dissolti i principali uomini della Prima Repubblica, scomparso il comunismo, Montanelli ha perso i suoi fondamentali punti di appoggio, i suoi bersagli polemici. Il mondo in cui aveva vissuto per tanti anni gli è crollato sotto i piedi. E politicamente, lui pur intellettualmente così fine, non ha capito più nulla. Anche il fallimento della «Voce» è dovuto in gran parte al disorientamento montanelliano.
Rimase invece, Montanelli, un punto di riferimento etico imprescindibile, tanto più indispensabile quanto più Berlusconi, in un crescendo rossiniano, veniva massacrando, oltre alle leggi e alle Istituzioni, tutti i principi e i fondamenti dello Stato liberale e democratico. Montanelli non aveva capito la nuova Italia, ma non aveva capito nemmeno, in profondità, chi era veramente Silvio Berlusconi, pur avendolo frequentato da vicino per quasi vent’anni.
Perché il loro non fu un semplice rapporto tra Editore e Direttore. Sono stati amici.
Probabilmente Indro, depresso cronico, era attratto dalla prorompente vitalità di Silvio, dal suo straripante e contagioso entusiasmo. Lo trattava con l’indulgenza che si riserva a un fanciullo considerandolo in fondo irresponsabile, perdonandogli tutto a cominciare dalle sesquipedali bugie ritenute un’irrefrenabile e innocente espressione del suo superego infantile.
Quando Montanelli afferma che Berlusconi crede sinceramente alle proprie menzogne dice una verità. È una delle forze del Cavaliere, uno così è imbattibile, incontrastabile, indistruttibile. (Lasciatelo dire a me che ho avuto una madre russa e i russi sono dei bugiardi patologici che credono alle proprie bugie. Trotzkij racconta che dopo che Lenin fu colpito dall’ictus che lo mise fuori combattimento, Bucharin andò da lui che era a letto per una banale influenza e gli disse: «Babuscka, babuscka mio, non ti ammalare anche tu altrimenti restiamo nelle mani di Stalin».
Appena uscito dalla casa di Trotzkij, Bucharin andò a tradirlo con Stalin. Ma Trotzkij in Ma vie annota: «Sono certo che quando Bucharin mi diceva quelle frasi affettuose era assolutamente sincero».) In un articolo del 12 dicembre del 1993, per «il Giornale» (Fratelli separati), quando i rapporti fra i due sono già ai ferri corti perché il Cavaliere ha deciso di “scendere in campo” e Indro ne capisce tutte le implicazioni, Montanelli scrive: «Il gioco politico richiede due qualità di cui lui è totalmente sprovvisto: la doppiezza e il cinismo». Invece cinismo e doppiezza sono la cifra più autentica di Silvio Berlusconi. Per «L’Indipendente» di Daniele Vimercati (Feltri, avendo capito tutto o forse, a lungo termine, nulla, si era già involato alla corte del Cavaliere andando a sostituire Montanelli alla direzione del «Giornale») ci divertimmo a fare un gioco: pubblicammo una grande foto del volto di Berlusconi e lo dividemmo a metà.
Un occhio era quello ammiccante, sorridente, del seduttore, del piazzista, l’altro era l’occhio gelido del serpente. Montanelli nei vent’anni in cui frequentò Berlusconi, e anche oltre, non si è mai posto seriamente la domanda di come questo ragazzo di 27 anni, apparentemente senz’arte né parte, avesse potuto accumulare in pochi anni una così immensa ricchezza. Nell’aprile del 1994 scriveva infatti per «la Voce » (Una corona per Silvio): «Quando si accinse a costruire Milano 2 – è da allora che lo conosco – non aveva né un nome, né un soldo, né un padrino e nemmeno un mattone. Aveva soltanto una dirompente carica di entusiasmo e l’illimitata capacità di trasfonderlo in chiunque gli venisse a tiro».
Non si chiese mai a chi appartenessero quelle due misteriose finanziarie svizzere, dai nomi impronunciabili, che avevano dato al giovane Berlusconi sette miliardi dei primi anni Settanta per cominciare l’avventura di Milano 2.
Forse gli faceva comodo non approfondire troppo in un momento di grave difficoltà psicologica, dopo essere stato costretto, nel modo più infame, a lasciare il «Corriere » di cui era stato la prima firma per 37 anni, e mentre varava la traballante navicella del «Giornale ». Ma io, che l’uomo l’ho un po’ conosciuto, preferisco pensare che in Montanelli, oltre a una buona dose di narcisismo e di infantilismo (che sono le due sole cose che lo accomunano a Berlusconi) ci fosse, nonostante tutta la sua esperienza, un fondo di ingenuità.
Quella che manca, e non sono del tutto sicuro che sia un bene, a uno dei suoi più accreditati e affezionati discepoli, Marco Travaglio. E per molto tempo ancora Montanelli volle illudersi che di Berlusconi ce ne fossero due. Uno era quello che aveva conosciuto lui, simpatico, cazzaro,sostanzialmente innocente, l’altro era il mascherone, sconciato, liftato, aggressivo, violento che appariva ormai ogni giorno in Tv e sulla scena politica italiana, rovinato dal servilismo degli scherani, dei saprofiti, delle sanguisughe che erano accorsi a frotte per succhiargli il sangue e la sua enorme energia.
Alla fine dovette rendersi conto che di Berlusconi ce n’era stato sempre uno solo. Uno che non c’entrava niente con la destra, tantomeno con la destra liberale, prezzoliniana, cui si ispirava Indro, uno che quando affermava che «bisogna fare gioco di squadra» in realtà intendeva dire che la squadra doveva giocare solo per lui. E vennero gli articoli più duri, più sferzanti, più irridenti, iconoclasti, che spesso stingevano nella pura invettiva, scritti soprattutto per il «Corriere della Sera».
Ne ricordo uno degli ultimi, di un Montanelli esasperato, vicino alla morte, che aveva una chiusa di una volgarità che non gli apparteneva. Definiva Berlusconi «un piazzista che se un giorno si mettesse a produrre vasi da notte, farebbe scappare la voglia di urinare a tutta l’Italia». Ma si sbagliava anche questa volta.
Dopo la sua morte, Berlusconi ha continuato a venderci pitali, e molto peggio, per altri dieci anni. E ora che la voce di Indro, come quella del Tenco di De Andrè, “canta nel vento” e torna a essere ascoltata, è ormai troppo tardi. Tutto quello che poteva accadere è già accaduto.
©2011 RCS Libri, S.p.A., Milano
Tratto da Indro Montanelli, Ve lo avevo detto. Berlusconi visto da chi lo conosceva bene, Rizzoli, pp.182, euro 12
Massimo Fini, scrittore e giornalista, è autore di molti libri di successo, ancora oggi ristampati. Tra i più recenti, editi da Marsilio, ricordiamo: Il denaro. "Sterco del demonio", Il vizio oscuro dell'Occidente, Sudditi. Manifesto contro la democrazia, Il ribelle. Dalla A alla Z, Ragazzo. Storia di una vecchiaia. Nel 2009 è uscito, sempre per Marsilio, il suo primo romanzo, Il Dio Toth.
Prima di essere raccolto nell'antologia, l'articolo su Tobagi è stato pubblicato sul Fatto quotidiano l'11 dicembre 2009.