Equilibrio psichico, pazienza, coraggio e risolutezza: sono solo alcune delle caratteristiche necessarie a superare le rigide selezioni per diventare un "undercover". In un libro Bur, Giorgio Sturlese Tosi ne ha raccontato per la prima volta la storia
di Giorgio Sturlese Tosi
Ogni anno dieci finanzieri, dieci poliziotti e altrettanti carabinieri, selezionati dai rispettivi comandi generali, vengono iscritti nella lista dei possibili candidati.
Non prima, però, di aver superato una iniziale cernita interna, sostenuto test attitudinali e specifici training psicofisici. Se dimostreranno di poter affrontare situazioni al limite dello stress senza il rischio di far fallire, con il proprio comportamento, tutta l’indagine, saranno finalmente ammessi a seguire l’addestramento.
Per partecipare ai corsi però, oltre alla formazione specifica di un operatore di polizia, occorre che i candidati dimostrino anche di avere equilibrio psichico, pazienza, coraggio, tenacia e risolutezza. Insomma non servono dei Rambo per infiltrare una banda di trafficanti, ma semmai qualcuno con più sale in zucca che muscoli. Una volta a Roma, nella sede della Dcsa, in via Tuscolana, in un edificio moderno che affaccia sulla periferia di Cinecittà, gli allievi si immergono in lezioni teoriche e pratiche che affrontano vari argomenti.
La prima parte del corso consiste nel far conoscere, sia pure nel poco tempo a disposizione, il variegato mondo delle sostanze stupefacenti. Gli agenti infiltrati devono imparare a distinguere ogni tipo di droga, sapere che colore ha, quali sono i suoi effetti, come viene assunta, dove viene prodotta e quali sono i percorsi che segue fino alla piazza dello spaccio finale.
Le lezioni sono molto approfondite, tenute anche da chimici ed esperti della polizia scientifica. Perché la droga, quando viaggia, assume le forme più disparate. Vengono mostrati campioni di ogni tipo di sostanza, proibita o meno, comprese quelle che ancora non hanno invaso i mercati ma che si presuppone avranno una certa diffusione in futuro. L’aria dell’aula durante le lezioni si riempie degli odori emanati dalle diverse materie prime. Si sente il dolciastro dell’eroina, sembra quasi di palpare, in bocca, l’inconsistente amarezza della cocaina, di percepire l’odore intenso e caramellato dell’hashish e il profumo violento della marijuana. Per non parlare del fastidioso e allucinogeno puzzo acido dell’ecstasy, che impregna gli abiti, la pelle e i capelli.
Le tavolette di cocaina pressata, in genere avvolte nel cellophane o nel nastro da pacchi marrone, pesano cinquecento grammi e sembrano tutte uguali, ma invece cambia la consistenza e persino il colore, dal bianco acceso di quella più comune a quello vagamente rosato di quella più pregiata. Viene mostrato come ogni tavoletta porti impresso il marchio della raffineria dove è stata confezionata. Un marchio che vale come un Docg e che garantirà sulla qualità del prodotto. L’hashish invece viene di solito trasportato in valige di juta, dal forte odore di corda, riempite di polvere di caffè o intrise di olio per motori per camuffarne l’aroma. Spesso, però, gli allievi hanno già queste nozioni, avendo lavorato in precedenza nei reparti antidroga. Diverso è saper riconoscere in un litro di sciroppo alla fragola o in un vaso di ceramica bianca un chilo di cocaina purissima, modificata e portata allo stato liquido o solido per passare i controlli doganali ed essere poi, attraverso complessi procedimenti chimici, riportata alla forma originaria.
Gli agenti devono anche imparare quanto può essere pressata la cocaina per essere infilata in due sacchetti, ricavati dalle dita dei guanti di lattice prima di essere ingoiate dai corrieri che – è questo un test banale ma sempre valido e messo in pratica negli uffici doganali – eviteranno di bere la Coca-Cola che viene loro offerta, perché in grado di sciogliere gli involucri e provocare un’istantanea morte per overdose.
Dopodiché si passa alla dimostrazione pratica delle modalità di esame di una partita di droga. Se nei film basta infilare la punta di un coltello e portarselo alla lingua per valutare il principio attivo della polvere bianca, nella realtà le organizzazioni strutturate si servono di veri e propri chimici che testano un campione con un kit portatile che contiene provette, acidi e solventi: un armamentario che i futuri infiltrati dovranno dimostrare di saper usare al termine del corso. Dopo l’esperienza in laboratorio viene ripercorsa la filiera di ogni stupefacente. Gli allievi devono sapere chi ha il monopolio di una sostanza e in quale parte del mondo opera. Così come devono essere a conoscenza degli accordi tra organizzazioni che nascono dietro gli affari illeciti. Non possono ignorare, per esempio, che in Italia la cocaina la trattano soprattutto i calabresi, e che anche i siciliani devono ricorrere a loro per approviggionarsi della polvere bianca, mentre l’eroina viene spedita nel nostro Paese dai turchi, ma che il traffico viene gestito dagli albanesi che, a loro volta, si affidano ai nordafricani per la vendita al dettaglio. Perché ogni mafia, locale o transnazionale, in nome degli affari, è ben disposta ad allearsi e a spartirsi fette di un mercato di miliardi di euro. E, siccome di affari in fondo si tratta, gli agenti infiltrati devono essere al corrente del prezzo dello stupefacente all’origine e al dettaglio, con quali sostanze e in che modalità si può tagliare per aumentarne la quantità senza stravolgerne le qualità. Tutte queste informazioni non servono soltanto a far sì che l’agente infiltrato sappia distinguere una bustina di eroina da una di zucchero di canna, ma soprattutto che sia in grado di affrontare una trattativa con chi, di mestiere, smercia droga. L’undercover infatti compare all’improvviso, nessuno dei trafficanti lo ha mai conosciuto prima – semplicemente perché, prima, lui non esisteva – ed è naturale che venga sottoposto, palesemente o in maniera subdola, a una verifica sulla sua attendibilità. È fondamentale, per raggiungere l’obiettivo di apparire un interlocutore credibile nello scambio di una partita di droga – che potrebbe essere di quintali e valere milioni di euro –, che l’agente sotto copertura sappia anche mercanteggiare, mostrandosi attento al prezzo che pagherà (se si finge acquirente) o che intende guadagnare (se invece recita la parte del venditore).
Inutile infatti promettere cifre fuori mercato, perché anche nel commercio degli stupefacenti la concorrenza è agguerrita e il valore di un carico viene regolato dalla «Borsa» criminale dove i trafficanti internazionali si accordano con i rappresentanti di tutte le mafie, calcolando, di giorno in giorno, come nei mercati finanziari, la domanda e l’offerta, le piazze dove è opportuno investire e quelle più a rischio, le capacità del mercato di assorbire il prodotto e quelle dell’organizzazione di piazzarlo.
La seconda parte del corso riguarda gli aspetti giuridici e legislativi della figura dell’agente infiltrato, così come lo prevede l’ordinamento italiano. Viene spiegato, con l’ausilio di magistrati, quello che si può fare ma soprattutto quello che non si può fare. L’agente infiltrato non va infatti confuso con l’agente provocatore, figura impiegata in altri Paesi, come gli Stati Uniti. Con la denominazione di «agente provocatore» si identifica colui che istigando, determinando oppure offrendo l’occasione provoca la realizzazione di un reato, al solo fine di poterne catturare i colpevoli e acquisirne le prove. Poiché quasi sempre l’agente provocatore partecipa alla formazione della volontà a delinquere, la sua attività è difficilmente giustificabile e il nostro ordinamento la vieta.
In pratica, riassumendo le prerogative ma soprattutto i limiti di azione, le forze dell’ordine che hanno infiltrato un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, possono fare quasi tutto, tranne vendere la droga. Ovvero sono autorizzati ad acquistarla (i fondi saranno stanziati dalla Dcsa, su autorizzazione dell’autorità giudiziaria), possono intavolare trattative, partecipare agli scambi delle partite, trattenere parte della sostanza o effettuare quella che in gergo viene chiamata una «consegna controllata», in cui è l’agente infiltrato a trasportare un carico di droga. In questi casi, per esempio, il magistrato titolare delle indagini, grazie alla collaborazione con le autorità giudiziarie di altri Paesi e agli accordi bilaterali, può persino chiedere alle autorità doganali interessate dal passaggio del carico di non ostacolare i corrieri.
Ma mai, per nessuna ragione, un rappresentante delle nostre forze dell’ordine può vendere stupefacenti. Per il semplice motivo che il nostro ordinamento vieta tassativamente – al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei e negli Stati Uniti – che l’agente concorra in modo determinante alla commissione di un reato. L’articolo 55 del nostro Codice di procedura penale infatti, impone alla polizia giudiziaria di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori, vincolando l’agente infiltrato a funzioni di controllo, osservazione e contenimento delle attività illecite di cui è testimone, negandogli ogni partecipazione attiva nel reato. I nostri agenti infiltrati infatti agiscono in un contesto criminoso che già esiste (la cui disarticolazione è lo scopo della missione) e non possono istigare, suggerire o promuovere delitti che non siano già in compimento. Questi limiti, che in altri Paesi sono stati rimossi, si giustificano con il bilanciamento degli interessi in gioco. Il legislatore ha ritenuto inopportuno giustificare un’attività sotto copertura che vada a ledere alcuni diritti fondamentali, come quello alla vita, alla sicurezza e all’incolumità fisica.
La terza parte del corso è la più delicata. Si tratta infatti di insegnare ai futuri infiltrati a mentire, a dissimulare, a fingersi qualcun altro e, cosa più difficile, a sostenere un interrogatorio: una tecnica complicata da trasmettere, un’arte che necessita di molta esperienza. E in questo i maestri non sono i poliziotti, ma gli agenti segreti. Trucchi, travestimenti, comportamenti vengono infatti insegnati dagli esperti dell’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna, l’ex Sisde. Lezioni che vertono su un argomento di per sé rarefatto come il complicato intreccio psicologico che lega chi mente al suo interlocutore. Al corso si insegna come sostenere lo stress, superare i momenti di difficoltà, come inventarsi un’uscita di emergenza nel caso la situazione precipiti. Si impara a camminare sugli specchi sapendo che la persona che si sta ingannando e che potrebbe scoprire il raggiro è probabilmente armata e disposta a tutto per difendere i propri affari e la propria libertà. Gli esperti dei nostri Servizi, dopo aver svelato i segreti del mestiere ai futuri infiltrati, li sottopongono a veri e propri interrogatori, condotti con metodi anche violenti. Vengono simulate situazioni terribilmente realistiche, condotte in base alla casistica dell’esperienza acquisita anche dai Servizi segreti e dalle forze di polizia stranieri, che vengono riprese da una telecamera e poi visionate insieme a tutti gli allievi per condividere errori e stratagemmi. Sono vere e proprie lezioni di comportamento dove si spiega che anche un movimento provocato da un riflesso condizionato può assumere molta importanza. Fare lo sbirro per anni lascia molti segni, nel corpo e nell’anima, e a un occhio attento certi atteggiamenti, sguardi, reazioni a determinati stimoli non sfuggono.
La sfida più difficile è quella di riuscire a crearsi un’altra personalità, nella quale tutti i condizionamenti assimilati nel tempo, i convincimenti maturati nel far applicare la legge, le affinità verso certi individui piuttosto che le idiosincrasie verso altri, devono essere tenute nascoste. I pensieri affiorano senza possibilità di controllo ma l’agente sotto copertura non può permettersi questo rischio: deve imporsi di non pensare all’indagine in corso, di non preoccuparsi che i suoi colleghi siano appostati e pronti a intervenire, come pure non dovrà mai chiedersi se il suo interlocutore gli stia o meno credendo, perché dal cervello il dubbio passa allo sguardo e finisce per tradirlo.
Queste cose, ovviamente, non si possono insegnare in quattro settimane. Per questo, dal 2010, è stato istituito una sorta di follow up, un corso di ripetizione e aggiornamento, in cui vengono affinati e approfonditi i concetti esposti nel corso istituzionale. Terminate le lezioni teoriche si passa all’azione, al test sul campo, con simulazioni di operazioni sotto copertura svolte nel centro di Roma e nei grandi centri commerciali, dove l’agente si deve confondere tra i passanti senza dare nell’occhio, ma registrando mentalmente ogni avvenimento utile all’indagine simulata. Alla Dcsa possono attingere da una ricca collezione di sceneggiature, riscritte sulle esperienze investigative acquisite e sulle indagini portate a compimento.
La Dcsa ha un piccolo arsenale a disposizione, con armi di ogni genere, anche non convenzionali. Perché di certo l’infiltrato non potrà andarsene a spasso con la Beretta Sf calibro 9 parabellum in dotazione alle nostre polizie, perché svelerebbe la sua appartenenza alle forze dell’ordine. E poi lavora con laboratori in cui vengono perfezionate sofisticate apparecchiature elettroniche. Microfoni a distanza, microspie, cimici, telecamere a fibre ottiche che possono essere impiegate nelle attività di ricognizione e che supportano l’attività dell’agente sotto copertura, il quale deve sempre raccogliere prove valide da portare in giudizio per dimostrare la colpevolezza degli affiliati a un’organizzazione criminale. Può sembrare semplice andare in giro con questa attrezzatura elettronica addosso, ma non lo è e anche a questo gli aspiranti undercover devono essere preparati. Il microfono che si indossa, per quanto piccolo, ha comunque bisogno di una batteria e di una memoria digitale su cui verranno archiviate le registrazioni. Ma un movimento brusco, un giubbotto tolto frettolosamente, potrebbero provocarne il malfunzionamento o addirittura lo spegnimento. Importante però è resistere alla tentazione di verificare se il microfono sia acceso, perché nel controllarlo l’agente potrebbe farsi scoprire.
©2010 RCS Libri S.p.A. Proprietà letteraria riservata
Tratto da Giorgio Sturlese Tosi, Una vita da infiltrato, Bur-Rizzoli, pp.232, euro 10,50
Giorgio Sturlese Tosi, giornalista specializzato in inchieste, cronaca nera e giudiziaria, lavora per “Panorama”, “L’espresso”, “E Polis”, Mediaset. Ex poliziotto, nel 2006 ha vinto il Premio Cronista dell’anno.
Ogni anno dieci finanzieri, dieci poliziotti e altrettanti carabinieri, selezionati dai rispettivi comandi generali, vengono iscritti nella lista dei possibili candidati.
Non prima, però, di aver superato una iniziale cernita interna, sostenuto test attitudinali e specifici training psicofisici. Se dimostreranno di poter affrontare situazioni al limite dello stress senza il rischio di far fallire, con il proprio comportamento, tutta l’indagine, saranno finalmente ammessi a seguire l’addestramento.
Per partecipare ai corsi però, oltre alla formazione specifica di un operatore di polizia, occorre che i candidati dimostrino anche di avere equilibrio psichico, pazienza, coraggio, tenacia e risolutezza. Insomma non servono dei Rambo per infiltrare una banda di trafficanti, ma semmai qualcuno con più sale in zucca che muscoli. Una volta a Roma, nella sede della Dcsa, in via Tuscolana, in un edificio moderno che affaccia sulla periferia di Cinecittà, gli allievi si immergono in lezioni teoriche e pratiche che affrontano vari argomenti.
La prima parte del corso consiste nel far conoscere, sia pure nel poco tempo a disposizione, il variegato mondo delle sostanze stupefacenti. Gli agenti infiltrati devono imparare a distinguere ogni tipo di droga, sapere che colore ha, quali sono i suoi effetti, come viene assunta, dove viene prodotta e quali sono i percorsi che segue fino alla piazza dello spaccio finale.
Le lezioni sono molto approfondite, tenute anche da chimici ed esperti della polizia scientifica. Perché la droga, quando viaggia, assume le forme più disparate. Vengono mostrati campioni di ogni tipo di sostanza, proibita o meno, comprese quelle che ancora non hanno invaso i mercati ma che si presuppone avranno una certa diffusione in futuro. L’aria dell’aula durante le lezioni si riempie degli odori emanati dalle diverse materie prime. Si sente il dolciastro dell’eroina, sembra quasi di palpare, in bocca, l’inconsistente amarezza della cocaina, di percepire l’odore intenso e caramellato dell’hashish e il profumo violento della marijuana. Per non parlare del fastidioso e allucinogeno puzzo acido dell’ecstasy, che impregna gli abiti, la pelle e i capelli.
Le tavolette di cocaina pressata, in genere avvolte nel cellophane o nel nastro da pacchi marrone, pesano cinquecento grammi e sembrano tutte uguali, ma invece cambia la consistenza e persino il colore, dal bianco acceso di quella più comune a quello vagamente rosato di quella più pregiata. Viene mostrato come ogni tavoletta porti impresso il marchio della raffineria dove è stata confezionata. Un marchio che vale come un Docg e che garantirà sulla qualità del prodotto. L’hashish invece viene di solito trasportato in valige di juta, dal forte odore di corda, riempite di polvere di caffè o intrise di olio per motori per camuffarne l’aroma. Spesso, però, gli allievi hanno già queste nozioni, avendo lavorato in precedenza nei reparti antidroga. Diverso è saper riconoscere in un litro di sciroppo alla fragola o in un vaso di ceramica bianca un chilo di cocaina purissima, modificata e portata allo stato liquido o solido per passare i controlli doganali ed essere poi, attraverso complessi procedimenti chimici, riportata alla forma originaria.
Gli agenti devono anche imparare quanto può essere pressata la cocaina per essere infilata in due sacchetti, ricavati dalle dita dei guanti di lattice prima di essere ingoiate dai corrieri che – è questo un test banale ma sempre valido e messo in pratica negli uffici doganali – eviteranno di bere la Coca-Cola che viene loro offerta, perché in grado di sciogliere gli involucri e provocare un’istantanea morte per overdose.
Dopodiché si passa alla dimostrazione pratica delle modalità di esame di una partita di droga. Se nei film basta infilare la punta di un coltello e portarselo alla lingua per valutare il principio attivo della polvere bianca, nella realtà le organizzazioni strutturate si servono di veri e propri chimici che testano un campione con un kit portatile che contiene provette, acidi e solventi: un armamentario che i futuri infiltrati dovranno dimostrare di saper usare al termine del corso. Dopo l’esperienza in laboratorio viene ripercorsa la filiera di ogni stupefacente. Gli allievi devono sapere chi ha il monopolio di una sostanza e in quale parte del mondo opera. Così come devono essere a conoscenza degli accordi tra organizzazioni che nascono dietro gli affari illeciti. Non possono ignorare, per esempio, che in Italia la cocaina la trattano soprattutto i calabresi, e che anche i siciliani devono ricorrere a loro per approviggionarsi della polvere bianca, mentre l’eroina viene spedita nel nostro Paese dai turchi, ma che il traffico viene gestito dagli albanesi che, a loro volta, si affidano ai nordafricani per la vendita al dettaglio. Perché ogni mafia, locale o transnazionale, in nome degli affari, è ben disposta ad allearsi e a spartirsi fette di un mercato di miliardi di euro. E, siccome di affari in fondo si tratta, gli agenti infiltrati devono essere al corrente del prezzo dello stupefacente all’origine e al dettaglio, con quali sostanze e in che modalità si può tagliare per aumentarne la quantità senza stravolgerne le qualità. Tutte queste informazioni non servono soltanto a far sì che l’agente infiltrato sappia distinguere una bustina di eroina da una di zucchero di canna, ma soprattutto che sia in grado di affrontare una trattativa con chi, di mestiere, smercia droga. L’undercover infatti compare all’improvviso, nessuno dei trafficanti lo ha mai conosciuto prima – semplicemente perché, prima, lui non esisteva – ed è naturale che venga sottoposto, palesemente o in maniera subdola, a una verifica sulla sua attendibilità. È fondamentale, per raggiungere l’obiettivo di apparire un interlocutore credibile nello scambio di una partita di droga – che potrebbe essere di quintali e valere milioni di euro –, che l’agente sotto copertura sappia anche mercanteggiare, mostrandosi attento al prezzo che pagherà (se si finge acquirente) o che intende guadagnare (se invece recita la parte del venditore).
Inutile infatti promettere cifre fuori mercato, perché anche nel commercio degli stupefacenti la concorrenza è agguerrita e il valore di un carico viene regolato dalla «Borsa» criminale dove i trafficanti internazionali si accordano con i rappresentanti di tutte le mafie, calcolando, di giorno in giorno, come nei mercati finanziari, la domanda e l’offerta, le piazze dove è opportuno investire e quelle più a rischio, le capacità del mercato di assorbire il prodotto e quelle dell’organizzazione di piazzarlo.
La seconda parte del corso riguarda gli aspetti giuridici e legislativi della figura dell’agente infiltrato, così come lo prevede l’ordinamento italiano. Viene spiegato, con l’ausilio di magistrati, quello che si può fare ma soprattutto quello che non si può fare. L’agente infiltrato non va infatti confuso con l’agente provocatore, figura impiegata in altri Paesi, come gli Stati Uniti. Con la denominazione di «agente provocatore» si identifica colui che istigando, determinando oppure offrendo l’occasione provoca la realizzazione di un reato, al solo fine di poterne catturare i colpevoli e acquisirne le prove. Poiché quasi sempre l’agente provocatore partecipa alla formazione della volontà a delinquere, la sua attività è difficilmente giustificabile e il nostro ordinamento la vieta.
In pratica, riassumendo le prerogative ma soprattutto i limiti di azione, le forze dell’ordine che hanno infiltrato un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, possono fare quasi tutto, tranne vendere la droga. Ovvero sono autorizzati ad acquistarla (i fondi saranno stanziati dalla Dcsa, su autorizzazione dell’autorità giudiziaria), possono intavolare trattative, partecipare agli scambi delle partite, trattenere parte della sostanza o effettuare quella che in gergo viene chiamata una «consegna controllata», in cui è l’agente infiltrato a trasportare un carico di droga. In questi casi, per esempio, il magistrato titolare delle indagini, grazie alla collaborazione con le autorità giudiziarie di altri Paesi e agli accordi bilaterali, può persino chiedere alle autorità doganali interessate dal passaggio del carico di non ostacolare i corrieri.
Ma mai, per nessuna ragione, un rappresentante delle nostre forze dell’ordine può vendere stupefacenti. Per il semplice motivo che il nostro ordinamento vieta tassativamente – al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei e negli Stati Uniti – che l’agente concorra in modo determinante alla commissione di un reato. L’articolo 55 del nostro Codice di procedura penale infatti, impone alla polizia giudiziaria di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori, vincolando l’agente infiltrato a funzioni di controllo, osservazione e contenimento delle attività illecite di cui è testimone, negandogli ogni partecipazione attiva nel reato. I nostri agenti infiltrati infatti agiscono in un contesto criminoso che già esiste (la cui disarticolazione è lo scopo della missione) e non possono istigare, suggerire o promuovere delitti che non siano già in compimento. Questi limiti, che in altri Paesi sono stati rimossi, si giustificano con il bilanciamento degli interessi in gioco. Il legislatore ha ritenuto inopportuno giustificare un’attività sotto copertura che vada a ledere alcuni diritti fondamentali, come quello alla vita, alla sicurezza e all’incolumità fisica.
La terza parte del corso è la più delicata. Si tratta infatti di insegnare ai futuri infiltrati a mentire, a dissimulare, a fingersi qualcun altro e, cosa più difficile, a sostenere un interrogatorio: una tecnica complicata da trasmettere, un’arte che necessita di molta esperienza. E in questo i maestri non sono i poliziotti, ma gli agenti segreti. Trucchi, travestimenti, comportamenti vengono infatti insegnati dagli esperti dell’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna, l’ex Sisde. Lezioni che vertono su un argomento di per sé rarefatto come il complicato intreccio psicologico che lega chi mente al suo interlocutore. Al corso si insegna come sostenere lo stress, superare i momenti di difficoltà, come inventarsi un’uscita di emergenza nel caso la situazione precipiti. Si impara a camminare sugli specchi sapendo che la persona che si sta ingannando e che potrebbe scoprire il raggiro è probabilmente armata e disposta a tutto per difendere i propri affari e la propria libertà. Gli esperti dei nostri Servizi, dopo aver svelato i segreti del mestiere ai futuri infiltrati, li sottopongono a veri e propri interrogatori, condotti con metodi anche violenti. Vengono simulate situazioni terribilmente realistiche, condotte in base alla casistica dell’esperienza acquisita anche dai Servizi segreti e dalle forze di polizia stranieri, che vengono riprese da una telecamera e poi visionate insieme a tutti gli allievi per condividere errori e stratagemmi. Sono vere e proprie lezioni di comportamento dove si spiega che anche un movimento provocato da un riflesso condizionato può assumere molta importanza. Fare lo sbirro per anni lascia molti segni, nel corpo e nell’anima, e a un occhio attento certi atteggiamenti, sguardi, reazioni a determinati stimoli non sfuggono.
La sfida più difficile è quella di riuscire a crearsi un’altra personalità, nella quale tutti i condizionamenti assimilati nel tempo, i convincimenti maturati nel far applicare la legge, le affinità verso certi individui piuttosto che le idiosincrasie verso altri, devono essere tenute nascoste. I pensieri affiorano senza possibilità di controllo ma l’agente sotto copertura non può permettersi questo rischio: deve imporsi di non pensare all’indagine in corso, di non preoccuparsi che i suoi colleghi siano appostati e pronti a intervenire, come pure non dovrà mai chiedersi se il suo interlocutore gli stia o meno credendo, perché dal cervello il dubbio passa allo sguardo e finisce per tradirlo.
Queste cose, ovviamente, non si possono insegnare in quattro settimane. Per questo, dal 2010, è stato istituito una sorta di follow up, un corso di ripetizione e aggiornamento, in cui vengono affinati e approfonditi i concetti esposti nel corso istituzionale. Terminate le lezioni teoriche si passa all’azione, al test sul campo, con simulazioni di operazioni sotto copertura svolte nel centro di Roma e nei grandi centri commerciali, dove l’agente si deve confondere tra i passanti senza dare nell’occhio, ma registrando mentalmente ogni avvenimento utile all’indagine simulata. Alla Dcsa possono attingere da una ricca collezione di sceneggiature, riscritte sulle esperienze investigative acquisite e sulle indagini portate a compimento.
La Dcsa ha un piccolo arsenale a disposizione, con armi di ogni genere, anche non convenzionali. Perché di certo l’infiltrato non potrà andarsene a spasso con la Beretta Sf calibro 9 parabellum in dotazione alle nostre polizie, perché svelerebbe la sua appartenenza alle forze dell’ordine. E poi lavora con laboratori in cui vengono perfezionate sofisticate apparecchiature elettroniche. Microfoni a distanza, microspie, cimici, telecamere a fibre ottiche che possono essere impiegate nelle attività di ricognizione e che supportano l’attività dell’agente sotto copertura, il quale deve sempre raccogliere prove valide da portare in giudizio per dimostrare la colpevolezza degli affiliati a un’organizzazione criminale. Può sembrare semplice andare in giro con questa attrezzatura elettronica addosso, ma non lo è e anche a questo gli aspiranti undercover devono essere preparati. Il microfono che si indossa, per quanto piccolo, ha comunque bisogno di una batteria e di una memoria digitale su cui verranno archiviate le registrazioni. Ma un movimento brusco, un giubbotto tolto frettolosamente, potrebbero provocarne il malfunzionamento o addirittura lo spegnimento. Importante però è resistere alla tentazione di verificare se il microfono sia acceso, perché nel controllarlo l’agente potrebbe farsi scoprire.
©2010 RCS Libri S.p.A. Proprietà letteraria riservata
Tratto da Giorgio Sturlese Tosi, Una vita da infiltrato, Bur-Rizzoli, pp.232, euro 10,50
Giorgio Sturlese Tosi, giornalista specializzato in inchieste, cronaca nera e giudiziaria, lavora per “Panorama”, “L’espresso”, “E Polis”, Mediaset. Ex poliziotto, nel 2006 ha vinto il Premio Cronista dell’anno.