Per Pasquale Manfredi, il boss della 'ndrangheta arrestato nei giorni scorsi, è stata fatale la sua passione per Facebook. Gli investigatori sono riusciti a trovarlo proprio grazie alle connessioni internet. E non è il primo caso
di Nicola Bruno
Galeotto fu Facebook. E' finita l'era dei pizzini di Bernardo Provenzano e Francesco Lo Piccolo. Ora i boss sono appassionati di rete e preferiscono comunicare attraverso i social network. Ne sa qualcosa Pasquale Manfredi, esponente di spicco della 'ndrangheta calabrese, che nei giorni scorsi è stato arrestato proprio grazie agli indizi arrivati attraverso le sue connessioni online.
Manfredi era latitante dallo scorso 4 dicembre ed era finito nella lista dei cento ricercati più pericolosi d'Italia. Dopo esser sfuggito a una retata, si era nascosto in un palazzo di Isola Capo Rizzuto (in provincia di Crotone). E da lì continuava a collegarsi a internet attraverso una chiavetta mobile per aggiornare il profilo su Facebook, dove si faceva chiamare Scarface. La pellicola di Brian De Palma è un vero e proprio cult tra gli esponenti della malavita: come ricorda Roberto Saviano in Gomorra, il boss della camorra Walter Schiavone (meglio conosciuto come Sandokan) aveva fatto costruire la sua villa a immagine e somiglianza di quella del mafioso protagonista del film.
E proprio la passione per Scarface e Facebook alla fine sono stati fatali per Pasquale Manfredi. Incrociando le sue attività su Facebook con i dati di connessione, gli investigatori sono riusciti a risalire al covo in cui si trovava, per poi arrestarlo.
Le tecniche investigative 2.0 della squadra mobile di Crotone sono certamente innovative, ma non rappresentano una novità nel resto del mondo. Proprio in questi giorni negli Stati Uniti è stata resa pubblica una vera e propria guida che spiega agli agenti dell’FBI come utilizzare i social network (Facebook, MySpace) e altri servizi online (Google Street View) per scovare criminali o attività illecite. Spesso gli agenti si muovono in incognito, diventando "amici" di potenziali sospetti sotto mentite spoglie, per seguirne più da vicino gli spostamenti. La diffusione del documento ha fatto scatenare un fiume di polemiche negli Usa: l'Electronic Frontiers Foundation, associazione che difende i diritti online, protesta contro i metodi poco trasparenti (l'utilizzo di falsi account) e teme che se la polizia e gli agenti segreti si riversano in massa online, prima o poi saremo tutti spiati. Criminali e non.
Ma al di là dei giusti timori per la privacy, Facebook e gli altri servizi online sono utilizzati da tempo con successo dagli investigatori, spesso portando all'arresto di criminali e ricercati.
Lo scorso ottobre un pregiudicato camerunense di 26 anni è stato scoperto e arrestato proprio grazie a un aggiornamento di status su Facebook. Maxi Sopo, questo il suo nome, stava scappando dalla giustizia Usa in Messico. Appena varcata la frontiera ha pensato di cambiare lo status su Facebook: "Mi trovo in paradiso"; "Mi diverto un sacco". Senza sapere che, mesi prima, aveva inavvertitamente aggiunto tra i propri amici un ufficiale del Dipartimento di Giustizia. Che è così venuto a sapere della fuga ed è riuscito a scovarlo. Ora Maxi Sopo rischia fino a 30 anni per i reati commessi.
Non sempre è la polizia a portare avanti le indagini su Facebook. Spesso sono anche gli utenti che collaborano per identificare gli autori di un reato. L'anno scorso si è parlato del “primo arresto via Facebook” quando è stato trovato il giovane ladro neozelandese che aveva svaligiato la cassaforte di un pub. I proprietari del locale avevano pensato di diffondere sul social network le immagini riprese attraverso le telecamere a circuito chiuso. In meno di 24 ore è stato identificato da alcuni amici che hanno poi fatto il suo nome alla polizia.
Di tutt'altra natura, invece, il reato di Shannon D. Jackson, arrestata per aver inviato un ingenuo poke a un'ex amica su Facebook, violando così l'ordine di una corte che le vietava di contattare la persona da cui era stata denunciata. Un poke pagato a caro prezzo: multa da 2500 dollari e 29 giorni di carcere.
Galeotto fu Facebook. E' finita l'era dei pizzini di Bernardo Provenzano e Francesco Lo Piccolo. Ora i boss sono appassionati di rete e preferiscono comunicare attraverso i social network. Ne sa qualcosa Pasquale Manfredi, esponente di spicco della 'ndrangheta calabrese, che nei giorni scorsi è stato arrestato proprio grazie agli indizi arrivati attraverso le sue connessioni online.
Manfredi era latitante dallo scorso 4 dicembre ed era finito nella lista dei cento ricercati più pericolosi d'Italia. Dopo esser sfuggito a una retata, si era nascosto in un palazzo di Isola Capo Rizzuto (in provincia di Crotone). E da lì continuava a collegarsi a internet attraverso una chiavetta mobile per aggiornare il profilo su Facebook, dove si faceva chiamare Scarface. La pellicola di Brian De Palma è un vero e proprio cult tra gli esponenti della malavita: come ricorda Roberto Saviano in Gomorra, il boss della camorra Walter Schiavone (meglio conosciuto come Sandokan) aveva fatto costruire la sua villa a immagine e somiglianza di quella del mafioso protagonista del film.
E proprio la passione per Scarface e Facebook alla fine sono stati fatali per Pasquale Manfredi. Incrociando le sue attività su Facebook con i dati di connessione, gli investigatori sono riusciti a risalire al covo in cui si trovava, per poi arrestarlo.
Le tecniche investigative 2.0 della squadra mobile di Crotone sono certamente innovative, ma non rappresentano una novità nel resto del mondo. Proprio in questi giorni negli Stati Uniti è stata resa pubblica una vera e propria guida che spiega agli agenti dell’FBI come utilizzare i social network (Facebook, MySpace) e altri servizi online (Google Street View) per scovare criminali o attività illecite. Spesso gli agenti si muovono in incognito, diventando "amici" di potenziali sospetti sotto mentite spoglie, per seguirne più da vicino gli spostamenti. La diffusione del documento ha fatto scatenare un fiume di polemiche negli Usa: l'Electronic Frontiers Foundation, associazione che difende i diritti online, protesta contro i metodi poco trasparenti (l'utilizzo di falsi account) e teme che se la polizia e gli agenti segreti si riversano in massa online, prima o poi saremo tutti spiati. Criminali e non.
Ma al di là dei giusti timori per la privacy, Facebook e gli altri servizi online sono utilizzati da tempo con successo dagli investigatori, spesso portando all'arresto di criminali e ricercati.
Lo scorso ottobre un pregiudicato camerunense di 26 anni è stato scoperto e arrestato proprio grazie a un aggiornamento di status su Facebook. Maxi Sopo, questo il suo nome, stava scappando dalla giustizia Usa in Messico. Appena varcata la frontiera ha pensato di cambiare lo status su Facebook: "Mi trovo in paradiso"; "Mi diverto un sacco". Senza sapere che, mesi prima, aveva inavvertitamente aggiunto tra i propri amici un ufficiale del Dipartimento di Giustizia. Che è così venuto a sapere della fuga ed è riuscito a scovarlo. Ora Maxi Sopo rischia fino a 30 anni per i reati commessi.
Non sempre è la polizia a portare avanti le indagini su Facebook. Spesso sono anche gli utenti che collaborano per identificare gli autori di un reato. L'anno scorso si è parlato del “primo arresto via Facebook” quando è stato trovato il giovane ladro neozelandese che aveva svaligiato la cassaforte di un pub. I proprietari del locale avevano pensato di diffondere sul social network le immagini riprese attraverso le telecamere a circuito chiuso. In meno di 24 ore è stato identificato da alcuni amici che hanno poi fatto il suo nome alla polizia.
Di tutt'altra natura, invece, il reato di Shannon D. Jackson, arrestata per aver inviato un ingenuo poke a un'ex amica su Facebook, violando così l'ordine di una corte che le vietava di contattare la persona da cui era stata denunciata. Un poke pagato a caro prezzo: multa da 2500 dollari e 29 giorni di carcere.