Stupri: "il pericolo maggiore non è la strada"

Cronaca
Alessandra Kustermann (foto di Pietro Naj-Oleari)
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"Le aggressioni da parte di sconosciuti sono relativamente rare", dice Alessandra Kustermann, responsabile del Soccorso violenza sessuale di Milano. Prima di tutto "educhiamo i nostri figli ad amare le donne senza dover vincere"

di Cristina Bassi

Data e ora dell’aggressione/luogo/numero degli aggressori/conosciuti/tipo di relazione/sconosciuti/attivi o meno/eventuali notizie sull’aggressore/presenza di testimoni/minacce con o senza lesioni fisiche/minacce vere e proprie o solo verbali/furto di qualcosa/presenza di armi/ingestione alcolici o altre sostanze/perdita di coscienza/sequestro in ambiente chiuso, per quanto tempo/la vittima è stata spogliata, integralmente o parzialmente/le sono stati strappati i vestiti/penetrazione vaginale e-o anale e-o orale/penetrazione unica o ripetuta/penetrazione di oggetti/uso di preservativo/avvenuta eiaculazione/manipolazioni digitali.


La fredda cronaca del peggiore incubo ma anche il primo passo per uscire dal buio. È una delle pagine della cartella clinica che viene compilata per le vittime di stupro all’Svs, il Soccorso violenza sessuale della Mangiagalli. Dove rispondere alle domande precise e competenti di infermiere e medici che sanno ciò che fanno è l’unico modo per avere, oltre che aiuto, anche giustizia.
Quasi tutte le donne a Milano hanno sentito parlare dell’Svs e molte riconoscono il viso materno e tenace di Alessandra Kustermann, che 14 anni fa ha voluto questo porto sicuro per le donne violentate. “Dal momento in cui la legge ha stabilito che lo stupro è un reato contro la persona e non più contro la morale, abbiamo pensato che fosse necessaria un’istituzione sanitaria per assistere le vittime”.

Cosa succede a una donna che bussa alla vostra porta?
Viene innanzitutto ascoltata, la prima fase è quella del racconto dei fatti. È la donna a decidere i tempi della visita medica. Una ginecologa, un’infermiera e un medico legale sono a disposizione 24 ore al giorno, hanno il compito di prendersi cura della paziente e di prelevare campioni, scattare fotografie, raccogliere tutti gli elementi utili a dimostrare in un eventuale processo che la violenza è avvenuta. Vengono poi fatti tutti gli esami necessari e in certi casi somministrati antibiotici o antivirali. Infine compiliamo una cartella clinica molto dettagliata. In una seconda fase la donna incontra, se lo vuole, una psicologa e un’assistente sociale.
Le donne stuprate hanno ancora paura a denunciare?
Purtroppo sì. Anche tra quelle che si fanno visitare, non più della metà sporge denuncia, tanto più se conoscono il responsabile. È fondamentale che le donne siano seguite da personale specializzato: medici, avvocati, forze dell’ordine, magistrati. Ma il processo è sempre un percorso in salita. Spesso non ci sono testimoni, la parola della donna deve essere confermata con prove che dimostrino la violenza. E proprio questo è il punto critico. Per noi è molto difficile rispondere quando un inquirente ci chiede se la vittima è stata davvero violentata. A volte vengono qui dopo giorni, dopo essere state ore sotto la doccia o aver buttato via i vistiti, cancellando tracce importanti. Una donna su cinque inoltre non riporta lesioni, una su due non ha lesioni genitali. Infatti non è per nulla scontato che una persona violentata opponga resistenza. Può rimanere passiva per paura del peggio, perché minacciata con un’arma, oppure perché l’aggressore è il suo compagno e sa che se si ribella pagherà le conseguenze.
Chi lavora con lei?
Inizialmente il centro era composto da un gruppo di ginecologhe di consultori e vari ospedali. In seguito abbiamo potuto aggiungere psicologhe, assistenti sociali e gli avvocati dell’associazione Svs Donna aiuta donna. Per fare bene questo lavoro è indispensabile l’adesione volontaria. Nessuna di noi inoltre si occupa di violenze sessuali a tempo pieno, sarebbe troppo pesante, soprattutto per una donna, stare tutto il giorno a contatto con la realtà della violenza. Io sono una ginecologa e mi occupo anche di diagnosi prenatale. È comunque difficile, ma spesso do alle pazienti una buona notizia. In quel ruolo c’è spazio per la speranza. All’Svs invece le aiutiamo a riemergere dal dolore, ma il danno è fatto.
E non si può riparare.
Il senso di impotenza e frustrazione può essere forte per noi. La violenza di alcuni casi rimane addosso e la storia di certe donne ti fa pensare al fallimento. Però siamo un’équipe molto compatta, ci confrontiamo tra noi o con uno psicanalista quando ci capita di dubitare delle nostre capacità. D’altra parte non possiamo salvare o risarcire, solo fornire degli strumenti utili. E il fatto che una vittima si trovi davanti personale competente fa la differenza.
Cosa può fare una donna per evitare la violenza?
Non è vero che il pericolo maggiore è in una strada isolata di notte: le aggressioni da parte di sconosciuti sono relativamente rare. Si verificano episodi in situazioni del tutto ‘sicure’, anche quando sono state prese tutte le precauzioni. Certo, alcuni accorgimenti sono consigliabili. L’autobus che riaccompagna le ragazze fino a casa la sera è una buona idea, tutte le strade dovrebbero essere illuminate, urlare è sempre utile, come tenere il dito sul tasto di chiamata rapida del cellulare. Ma non c’è niente che una donna possa fare per azzerare il pericolo. E anche la sicurezza delle città è solo una parte del problema. Bisognerebbe spostare l’attenzione su un altro aspetto.
Quale?
Lavorare perché gli uomini non violentino più le donne. Non è un’utopia. Purtroppo in famiglia e a scuola i nostri figli sono a contatto con esempi di prevaricazione sull’altro sesso, non sanno affrontare senza frustrazione il contrasto e il rifiuto, non imparano ad amare senza dover vincere. Prima dell’educazione sessuale i ragazzi dovrebbero ricevere un’educazione sentimentale.

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