In un Paese dove è ricorrente l'allerta meteo, come oggi al Centro Nord, il 70 per cento dei comuni italiani è a rischio frane o alluvioni. Calabria, Umbria e Valle d'Aosta al top del pericolo secondo il rapporto Legambiente-Protezione Civile. Ecco perché
ALLUVIONE A MESSINA:
L'ALBUM FOTOGRAFICO - LO SPECIALE
di Cristina Bassi
Si scava ancora a Messina per liberare dal fango le ultime vittime dell’alluvione del primo ottobre. I palazzi arrampicati sulla montagna, in parte travolti dalla frana in parte rimasti miracolosamente in piedi, sono diventati il simbolo di un disastro che secondo molti si poteva evitare. Ma Giampilieri non è un caso isolato e i costanti bollettini di allerta meteo, come quello di oggi al Centro Nord, testimoniano lo stato di emergenza costante a cui è sottoposto il nostro territorio.
Nel nostro Paese sono proprio i centri abitati nati e cresciuti su colline rese franose dal disboscamento o e dallo sfruttamento edilizio o gli edifici costruiti addirittura nel greto di un corso d’acqua a riempire la mappa del cosiddetto rischio idrogeologico. Così si spiega perché il 70 per cento dei comuni si trova in zone in pericolo di frane o alluvione. E perché questi comuni, elencati da Ecosistema rischio 2008, il rapporto di Legambiente e Protezione civile, sono in Sicilia così come in Lombardia e in Puglia. Non sono le condizioni ambientali, comuni a quasi tutto il Paese, a fare la differenza, ma gli interventi e le costruzioni che trasformano un territorio delicato in una vera trappola mortale in caso di pioggia abbondante.
Nella classifica delle zone in pericolo ci sono capoluoghi come Genova e Potenza e compaiono regioni "insospettabili". Bastino i primi tre posti: Calabria, Umbria, Valle d’Aosta. Aree molto diverse tra loro, ma che hanno il cento per cento dei comuni considerati esposti. «La definizione stessa di rischio – spiega Giorgio Zampetti, coordinatore dell’ufficio scientifico di Legambiente – va al di là della conformazione del territorio. Frane e alluvioni sono fenomeni naturali, che non avrebbero conseguenze se nella zona colpita non ci fossero abitazioni. Nel nostro Paese, a un equilibrio idrogeologico di per sé molto fragile, si aggiunge l’urbanizzazione delle aree tra montagna e costa». Urbanizzazione vuol dire spesso peggiorare una situazione già pericolosa con interventi poco lungimiranti o, peggio, con l’abusivismo. Case, quartieri, fabbriche là dove potrebbe esserci una frana o un’alluvione sono la norma. "L’esempio della Puglia è significativo. Qui l’ambiente è favorevole, pianeggiante e con pochi fiumi, ma gli interventi dell’uomo hanno aggravato il rischio. Il fatto è che in Italia i piani regolatori dei comuni non sono quasi mai vincolati alla mappa del rischio idrogeologico – continua Zampetti –. La zona R4 (quella con il livello di pericolo più elevato, ndr) sulla carta non è edificabile, ma i comuni possono concedere deroghe e approvare cambi di destinazione, per non parlare di condoni e sanatorie".
La causa del disastro in molti casi è l’intervento dell’uomo. Gli ambientalisti puntano il dito contro la cementificazione dei corsi d’acqua. I fumi vengono deviati e costretti con argini troppo rigidi, quando non ostruiti con ponti «sottoquota», cioè con «luce» insufficiente. I torrenti asciutti sono occupati da discariche abusive, parcheggi, abitazioni. «La canalizzazione si rivela sempre di più un errore – sottolinea l’esperto di Legambiente –. Sarebbe molto meglio, e spesso meno costoso, spostare le costruzioni in pericolo, tenere puliti i corsi d’acqua, evitare il disboscamento e gli incendi sulle montagne». Restituire a torrenti e ruscelli quel terreno che gli è stato strappato dal cemento, invece di innalzare barriere che non saranno mai abbastanza alte da contenere la furia dell’acqua e del fango e, anzi, farebbero da «tappo» in caso di piena.
L’imbrigliamento dei corsi d’acqua è molto diffuso al Nord, dove rappresenta un alibi per continuare a costruire sul bordo dei fiumi. Nel Ponente ligure, ad esempio, i torrenti sono «tombinati», cioè rinchiusi in una sorta di sarcofago in cemento, sopra cui sono state costruite strade e infrastrutture. Al Sud, ma non solo, a fare i danni maggiori è l’abusivismo edilizio, spesso reso «legale» da deroghe e condoni. Sempre secondo Legambiente, l’88 per cento dei comuni italiani ha nel piano urbanistico vincoli che vietano di costruire nelle zone a rischio, ma il 77 per cento ammette di avere case nelle aree esposte a frane o alluvioni. Solo un caso: Reggio Calabria. È detta «la città delle fiumare», cioè i corsi d’acqua che la attraversano, una dozzina, quasi sempre in secca. Sopra e dentro le fiumare sono sorti edifici pubblici, centri direzionali, mercati. Nel torrente Annunziata è in costruzione una casa dello studente progettata dalle facoltà di Architettura e Ingegneria. I cantieri spuntano nei greti asciutti, si lavora a pieno ritmo. Sperando che non piova violentemente per due giorni di seguito. Come nel 1953, data dell’ultima alluvione a Reggio, o come a Messina l’altro ieri.
LE PREVISIONI METEO PER I PROSSIMI 7 GIORNI
L'ALBUM FOTOGRAFICO - LO SPECIALE
di Cristina Bassi
Si scava ancora a Messina per liberare dal fango le ultime vittime dell’alluvione del primo ottobre. I palazzi arrampicati sulla montagna, in parte travolti dalla frana in parte rimasti miracolosamente in piedi, sono diventati il simbolo di un disastro che secondo molti si poteva evitare. Ma Giampilieri non è un caso isolato e i costanti bollettini di allerta meteo, come quello di oggi al Centro Nord, testimoniano lo stato di emergenza costante a cui è sottoposto il nostro territorio.
Nel nostro Paese sono proprio i centri abitati nati e cresciuti su colline rese franose dal disboscamento o e dallo sfruttamento edilizio o gli edifici costruiti addirittura nel greto di un corso d’acqua a riempire la mappa del cosiddetto rischio idrogeologico. Così si spiega perché il 70 per cento dei comuni si trova in zone in pericolo di frane o alluvione. E perché questi comuni, elencati da Ecosistema rischio 2008, il rapporto di Legambiente e Protezione civile, sono in Sicilia così come in Lombardia e in Puglia. Non sono le condizioni ambientali, comuni a quasi tutto il Paese, a fare la differenza, ma gli interventi e le costruzioni che trasformano un territorio delicato in una vera trappola mortale in caso di pioggia abbondante.
Nella classifica delle zone in pericolo ci sono capoluoghi come Genova e Potenza e compaiono regioni "insospettabili". Bastino i primi tre posti: Calabria, Umbria, Valle d’Aosta. Aree molto diverse tra loro, ma che hanno il cento per cento dei comuni considerati esposti. «La definizione stessa di rischio – spiega Giorgio Zampetti, coordinatore dell’ufficio scientifico di Legambiente – va al di là della conformazione del territorio. Frane e alluvioni sono fenomeni naturali, che non avrebbero conseguenze se nella zona colpita non ci fossero abitazioni. Nel nostro Paese, a un equilibrio idrogeologico di per sé molto fragile, si aggiunge l’urbanizzazione delle aree tra montagna e costa». Urbanizzazione vuol dire spesso peggiorare una situazione già pericolosa con interventi poco lungimiranti o, peggio, con l’abusivismo. Case, quartieri, fabbriche là dove potrebbe esserci una frana o un’alluvione sono la norma. "L’esempio della Puglia è significativo. Qui l’ambiente è favorevole, pianeggiante e con pochi fiumi, ma gli interventi dell’uomo hanno aggravato il rischio. Il fatto è che in Italia i piani regolatori dei comuni non sono quasi mai vincolati alla mappa del rischio idrogeologico – continua Zampetti –. La zona R4 (quella con il livello di pericolo più elevato, ndr) sulla carta non è edificabile, ma i comuni possono concedere deroghe e approvare cambi di destinazione, per non parlare di condoni e sanatorie".
La causa del disastro in molti casi è l’intervento dell’uomo. Gli ambientalisti puntano il dito contro la cementificazione dei corsi d’acqua. I fumi vengono deviati e costretti con argini troppo rigidi, quando non ostruiti con ponti «sottoquota», cioè con «luce» insufficiente. I torrenti asciutti sono occupati da discariche abusive, parcheggi, abitazioni. «La canalizzazione si rivela sempre di più un errore – sottolinea l’esperto di Legambiente –. Sarebbe molto meglio, e spesso meno costoso, spostare le costruzioni in pericolo, tenere puliti i corsi d’acqua, evitare il disboscamento e gli incendi sulle montagne». Restituire a torrenti e ruscelli quel terreno che gli è stato strappato dal cemento, invece di innalzare barriere che non saranno mai abbastanza alte da contenere la furia dell’acqua e del fango e, anzi, farebbero da «tappo» in caso di piena.
L’imbrigliamento dei corsi d’acqua è molto diffuso al Nord, dove rappresenta un alibi per continuare a costruire sul bordo dei fiumi. Nel Ponente ligure, ad esempio, i torrenti sono «tombinati», cioè rinchiusi in una sorta di sarcofago in cemento, sopra cui sono state costruite strade e infrastrutture. Al Sud, ma non solo, a fare i danni maggiori è l’abusivismo edilizio, spesso reso «legale» da deroghe e condoni. Sempre secondo Legambiente, l’88 per cento dei comuni italiani ha nel piano urbanistico vincoli che vietano di costruire nelle zone a rischio, ma il 77 per cento ammette di avere case nelle aree esposte a frane o alluvioni. Solo un caso: Reggio Calabria. È detta «la città delle fiumare», cioè i corsi d’acqua che la attraversano, una dozzina, quasi sempre in secca. Sopra e dentro le fiumare sono sorti edifici pubblici, centri direzionali, mercati. Nel torrente Annunziata è in costruzione una casa dello studente progettata dalle facoltà di Architettura e Ingegneria. I cantieri spuntano nei greti asciutti, si lavora a pieno ritmo. Sperando che non piova violentemente per due giorni di seguito. Come nel 1953, data dell’ultima alluvione a Reggio, o come a Messina l’altro ieri.
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