Alti esponenti ecclesiastici in Birmania hanno auspicato che il Pontefice non menzioni la minoranza musulmana nel suo viaggio. Ma dal Vaticano fanno sapere che “non è una parola proibita” e al momento rimane in programma un incontro tra il Santo Padre e i profughi
Papa Francesco è partito per il Myanmar e Bangladesh per il suo viaggio pastorale. Una visita che si preannuncia difficile per la gestione della crisi dei Rohingya, la minoranza musulmana in Birmania discriminata, perseguitate e costretta all’esodo. Nelle ultime ore sono arrivati diversi appelli al Pontefice, da parte di esponenti della chiesa locale, in cui gli viene chiesto di “non nominare mai la parola Rohingya durante la sua visita”.
La richiesta al Papa
Il presidente della Conferenza Episcopale in Myanmar, ha riportato la richiesta del cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon (Birmania) che ha auspicato che “il Papa non nomini mai la parola Rohingya”. Il motivo è quello di “evitare problemi tra le varie religioni, che non vogliamo avere”.
Previsto un incontro
Papa Francesco dovrebbe incontrare la vessata minoranza musulmana dei Rohingya, in difesa dei quali spesso ha lanciato appelli. Accadrà a Dacca, nella tappa successiva del viaggio, ha fatto sapere il portavoce della Santa Sede, Greg Burke, precisando che "Rohingya non è una parola proibita in Vaticano”. Interpellato sulla questione dei profughi che vivono in condizioni inumane in entrambi i Paesi della visita, il segretario di Stato Pietro Parolin ha evidenziato come il Papa abbia “manifestato più volte la sua attenzione nei confronti della situazione di questi profughi”.
Chi sono i Rohingya
I Rohingya sono una minoranza musulmana che conta circa un milione di persone e vive per lo più nella regione settentrionale del Myanmar, principalmente nel nord dello stato birmano del Rakhine. Sono discriminati e perseguitati da anni e anche l'Onu ha definito la violenza contro questo gruppo un caso di "pulizia etnica”. I Rohingya non sono riconosciuti tra le 135 minoranze ufficiali della Birmania. Una legge del 1982 nega loro la cittadinanza e per questo lo Stato li considera apolidi. Di conseguenza, sono soggetti a diverse discriminazioni e il loro accesso ai servizi statali è limitato. Spesso si parla di loro come della minoranza “più perseguitata al mondo”.
Tensioni che durano da anni
Nel 2012 le tensioni tra i Rohingya e la maggioranza buddista nello stato del Rakhine sono esplose provocando violenti scontri e causando la fuga di decine di migliaia di musulmani che si sono trovati confinati nei diversi campi profughi sparsi nel Paese e nel vicino Bangladesh. L’ottobre del 2016 ha registrato un nuovo picco di tensione nella zona, con l’uccisione di alcuni militari birmani e la repressione della popolazione Rohingya. Negli anni, entrambe le parti hanno accusato l’altra di uso eccessivo della violenza e il governo birmano sostiene di aver colpito solamente i responsabili degli attacchi contro le forze di sicurezza dello stato, considerati terroristi. Secondo quanto riporta l’Unicef, questa nuova ondata di violenza ha portato circa 400mila persone (dal 25 agosto al 14 settembre) a fuggire verso il Bangladesh e verso i campi profughi sempre più affollati.