La fine delle emoji

Il mito racconta che le emoticon nacquero per sollazzo di un informatico americano della Carnegie Mellon University, Scott Fahlman: nel 1982 Fahlman, in vena di scherzi, decise di inventare brevi combinazioni di segni con cui rimarcare il carattere ironico – o dispiaciuto, o felice – di un messaggio di testo. Due punti, trattino, parentesi: bastava inclinare un po’ la testa, ed ecco che quella breve serie di segni diventava una faccina sorridente. Fahlman all’epoca non lo sapeva, ma aveva dato l’abbrivio a una rivoluzione comunicativa che arriva fino ai giorni nostri. Per parlare di emoji, invece – la versione più moderna e pittografica delle emoticon messe al mondo da Fahlman quel giorno negli anni Ottanta – dobbiamo arrivare al 1998, l’anno in cui un impiegato della compagnia telefonica giapponese NTT DoCoMo, Shigetaka Kurita, notò che sempre più utenti dei servizi della sua azienda si scambiavano immagini via sms. Come si poteva andare incontro a questa evidente volontà di comunicare sul piano visivo? Kurita la risolse immaginando piccolissime immagini da poter includere nei messaggi di testo brevi, dando agli sms una nuova linfa espressiva. Propose il loro design a grandi aziende nipponiche come Panasonic e Fujitsu, ma ricevette solo porte chiuse in faccia. Così ci pensò lui stesso, pescando da oggetti dei ricordi d’infanzia e della sua quotidianità. La prima collezione di emoji disegnata da Kurita, comprendente 176 persone e oggetti, oggi è esposta al MoMa di New York. E basterebbe quest’ultima frase per parlare di quanto le nostre vite connesse, negli anni, siano diventate legate a doppio filo, se non talvolta dipendenti, da quei piccoli disegni con cui comunicare i nostri stati d’animo, le nostre intenzioni, non di rado il nostro approccio estetico o creativo. Eppure potrebbe essere tutto finito: in un articolo pubblicato sull’Atlantic, il critico dei media Ian Bogost scrive che «l'uso degli emoji era divertente ed efficiente, ma ora sembra insidioso e inefficace». Questo perché, secondo Bogost, l’esperienza spontanea di comunicazione ben incarnata dal pensiero di Kurita a cavallo del nuovo millennio si è esaurita: oggi persino le emoji sarebbero andate incontro a una burocratizzazione forzata. E d’altronde da anni l’Unicode Emoji Standard and Research Working Group, una branca della grande non-profit californiana dietro le emoji, è l’organismo che decide ogni anno quali “faccine” aggiungere ai set disponibili sui nostri schermi, quali rimuovere e quali rendere più – come si dice – diverse e inclusive. Un simile approccio benintenzionato, per Bogost, ha però reso l’esperienza d’uso delle emoji sempre più complessa e frammentata: qualsiasi immaginetta ha dozzine di versioni divise per colore della pelle, appartenenza di sesso o di genere e varietà culturale. E oggi, scrive l’autore, «le emoji sono ormai un linguaggio illustrativo e non più ideografico: raffigurano scene specifiche anziché indicare concetti». Col risultato che le iconcine risultano ottime per cementare un’identità in una bio su Instagram, ma depotenziate nella comunicazione quotidiana, laddove servirebbero per spiegare idee senza fare ricorso alle parole. L’Atlantic parla direttamente di «tramonto delle emoji», piagate da una moltiplicazione invadente di identità e burocrazie, ma è presto per dire che stiamo assistendo alla loro fine: più probabilmente le vedremo riemergere in una nuova forma, con nuovi organi di rappresentanza e nuove modalità d’uso. D’altronde, quel penchant per le immagini non ci è mai passato.

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