I 15 minuti di fama (e di infamia) sui social, come diventare famosi senza volerlo

Una delle più celebri citazioni della storia è un falso. Andy Warhol non ha mai detto che nel futuro che si stagliava davanti a lui chiunque sarebbe stato famoso in tutto il mondo "per quindici minuti": la frase è verosimilmente uno slogan di marketing coniato dal curatore artistico svedese Pontus Hultén per una mostra del 1968. Una lunga serie di coincidenze e direzioni di marcia del progresso l’hanno però resa un monito efficace per i giorni nostri: da una parte, a nessuno importa se Warhol abbia effettivamente pronunciato quella frase, che ormai è "sua" per una singolare forma di usucapione mediatica; dall’altra, soprattutto, nel nostro mondo effettivamente chiunque può diventare – anzi, diventa regolarmente – famoso per un quarto d’ora. L'era del main character Ma per il brevemente famoso di turno solo raramente la celebrità si accompagna a onore, lustro ed esaltazione: i quindici minuti di fama oggi somigliano sempre più spesso a quindici minuti d’infamia. È ciò che nel gergo della piattaforma un tempo nota come Twitter – e oggi come X – si definisce main character: il main character è il protagonista in negativo della giornata, quello che alimenta la macchina dell’indignazione, della rabbia, o comunque dei sentimenti dell’engagement algoritmico. «Ogni giorno su Twitter c’è un main character: l’obiettivo è non diventarlo mai», riassumeva un tweet del 2019 diventato una regola di sopravvivenza per i frequentatori del sito. Il caso Marco Violi Uno degli ultimi "personaggi principali" di X si chiama Marco Violi ed è un blogger e youtuber di Roma, tifoso dell’omonima società calcistica della Capitale, che gestisce un sito di notizie sulla sua squadra del cuore, Romagiallorossa.it. Violi è un po’ sovrappeso, ha un viso rotondo e una voce un po’ buffa; fa dirette video da quello che sembra un tinello, con alle sue spalle una triste tenda da cucina, in cui lancia frequenti anatemi e minacce legali ai suoi avversari e derisori. Per tutti questi motivi, Violi diventa spesso il main character del giorno: ma non lo è mai stato tanto quanto nella notte tra il 13 e il 14 luglio scorsi, quando un gruppo allargato di utenti di X che lo prende di mira da anni – noto informalmente come "Twitter Calcio" – ha convinto mezzo mondo che fosse l’attentatore che aveva appena sparato a Donald Trump a un comizio in Pennsylvania. "Secondo il dipartimento di polizia di Butler, l’attentatore di Trump è stato arrestato sul posto ed è stato identificato in Mark Violets, un antifa", ha scritto l’utente @Moussolinho postando una fotografia che ritrae Violi con cappello e occhiali scuri, e finendo per generare una notizia rilanciata da tv messicane, influencer di destra americani e account con milioni di follower di ogni latitudine; Reuters e Bloomberg, tra gli altri, hanno pubblicato articoli di fact-checking per smentire il coinvolgimento dello youtuber nell’attentato, mentre lui ha annunciato di voler querelare gli autori dello scherzo. Vincent Flibustier e l'attacco a CrowdStrike Pochi giorni dopo, la giostra della fama socialmediale è stata azionata con l’inganno: durante il colossale blackout informatico del 19 luglio, che secondo Microsoft ha colpito 8 milioni e mezzo di terminali connessi a internet – tenendo a terra migliaia di aerei e mandando offline banche, imprese e persino ospedali – un esperto di fact-checking belga, Vincent Flibustier, ha finto di essere un dipendente della piattaforma di cybersicurezza responsabile del guasto, CrowdStrike, postando su X un selfie photoshoppato con approssimazione in cui ammetteva di averla combinata grossa, per giunta nel suo primo giorno di lavoro. Flibustier voleva dimostrare una volta di più che online, sulle piattaforme digitali, la più lunare delle fake news prolifera senza sforzo. E l’esperimento è riuscito: decine di milioni di visualizzazioni, quasi 500mila "mi piace" e migliaia di commenti alternativamente adirati per il disagio causato o solidali per il suo sicuro licenziamento. Gli algoritmi della viralità su TikTok Su TikTok, definito puntualmente una "fabbrica da un milione di follower" dal sito The Information, per diventare celebrità globali basta molto poco: inventarsi panini strani, cover per cellulari creative, quando non espressioni buffe . Sempre in tempi recenti abbiamo assistito alla viralità della "Hawk Tuah Girl", al secolo Hailey Welch, una ventenne del Tennessee che deve la sua fama – e il suo nomignolo – ad aver dato un consiglio spassionato su come praticare del buon sesso orale al pubblico di un piccolo format di interviste su YouTube; gli algoritmi dell’app cinese e una serie di imprevedibili coincidenze hanno reso quel frammento onnipresente, trasformando una battuta come tante in un fenomeno di superstardom globale. All’inizio del 2022 invece per Caleb, un coetaneo di Welch che lavorava in un punto vendita newyorkese della catena di arredamento West Elm, la viralità si è rivelata un inferno; un’influencer di TikTok, accortasi che Caleb, oltre che con lei, usciva con altre ragazze, gli ha dedicato un video di accusa: nel giro di qualche ora decine di migliaia di giovani donne americane si sono messe a fare video sui "West Elm Caleb" delle loro città, indicati con nomi, cognomi e tag, sostituendo alla complessità dell’educazione sentimentale un semplice processo algoritmico con verdetti già scritti. Nell'economia dell'attenzione nessuno investe nel fact-checking Il punto, insomma, è che la fama improvvisa del mondo dominato dall’economia dell’attenzione non è mai innocua, nemmeno quando lo sembra: il critico dei media Ian Bogost ha scritto sull’Atlantic che "le persone non sono fatte per interagire così tanto" di fronte a un pubblico onnipresente e misurato da like e scariche di dopamina; non a caso, aggiunge Bogost, "i social media hanno prodotto una resa sociopatica e decisamente scardinata della socialità umana". La domanda che dovremmo iniziare a porci, in effetti, è anzitutto una: cosa porta con sé un mondo in cui chiunque può ottenere i suoi 15 minuti di fama in qualsiasi momento? E in cui qualunque informazione falsa o imprecisa può viaggiare alla velocità della luce, dribblando ogni tentativo di verifica e debunking, e costruire realtà parallele che influenzano, tra le altre cose, i processi democratici? Le grandi piattaforme digitali, quelle a cui abbiamo appaltato il nostro modo di essere società, per lungo tempo hanno fatto spallucce: finché i profitti crescono e l’engagement rimane redditizio, perché rovinarsi la festa con fisime quali l’ecologia dell’informazione e della comunicazione di miliardi di persone? Poi, dopo anni passati a promettere sforzi indomiti contro le fake news e la disinformazione, nel 2023, al primo alito di vento contrario sui loro conti economici, le multinazionali del tech algoritmico hanno smantellato i loro reparti di fact-checking, considerati la prima voce di spesa sacrificabile. Ora nei luoghi distorcenti, incattiviti e in balia di logiche opache che alimentano, le notizie false crescono come arbusti rampicanti. E tutt’intorno, una folla tumultuosa di milioni di potenziali main character o celebrità istantanee in impaziente attesa del proprio turno.

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