Monster: La storia di Ed Gein, la serie horror sull’uomo dietro l’incubo americano

La neve del Wisconsin è coltre e sudario. In quella fattoria isolata si consuma la leggenda di Ed Gein, il serial killer che ha seminato orrore e ispirato alcuni dei capisaldi del cinema horror. Monster: The Ed Gein Story, terza stagione dell’antologia creata da Ryan Murphy e Ian Brennan, debutta su Netflix con un obiettivo preciso: raccontare non solo i crimini, ma la radice culturale e psichica di un mito nero che continua a perseguitare la nostra immaginazione collettiva. In Italia la serie è distribuita con il titolo Monster: La storia di Ed Gein, a sottolineare l’intento di riportare l’uomo reale dietro l’incubo. Ryan Murphy è come le ostriche o il tartufo: o lo ami o lo detesti. Monster: The Ed Gein Story è un distillato della sua arte anarchica, ribelle e citazionista. Dalla fattoria alla perversione La serie si apre con immagini bucoliche: la mungitura delle mucche, i gesti quotidiani che sembrano puri. Ma dietro la calma agreste esplode subito la crepa: Ed che spia due adolescenti intente a cantare le lodi di un reggiseno provocante, per poi scivolare nel furto di biancheria intima e nelle pratiche di autoerotismo autostrangolatorio. È un catalogo di ossessioni che sembra uscito dalle illustrazioni bondage di Gene Bilbrew e dai fumetti sadomaso di Eric Stanton o dai romanzi pulp e financo dei racconti di rituali cannibali dei Mari del Sud. I personaggi e il cast Al centro c’è Charlie Hunnam, nei panni di Ed Gein: un uomo apparentemente dimesso, ma posseduto da pulsioni inconfessabili. Al suo fianco, Laurie Metcalf è Augusta Gein, madre dominatrice e matrice di tutti i fantasmi. Suzanna Son interpreta Adeline, complice/illusione sospesa tra sogno e incubo; Tom Hollander veste i panni di Alfred Hitchcock, collegando la vicenda alla genesi di Psycho. Accanto a loro, Vicky Krieps è Ilse Koch, la “cagna di Buchenwald” che infesta i sogni di Ed; Lesley Manville è Bernice Worden, vittima dolente; Addison Rae appare come la babysitter Evelyn. Tutti tasselli di un mosaico maledetto. Charlie Hunnam, metamorfosi di un attore Hunnam ha letto tutto ciò che esiste su Gein, fino a procurarsi un’audio-intervista inedita dalla quale ha estratto la voce infantile e acuta del killer. Ha perso oltre 30 chili, ha vissuto il personaggio per mesi, lavorando in simbiosi con Laurie Metcalf. “Non volevo glamorizzare nulla – ha detto – ma trovare l’uomo sotto l’orrore”. Il risultato è un corpo posseduto: muscoli e ossa abitati da un’anima bambina, in bilico tra tenerezza e abomini. Augusta, Jezebel e Adeline La serie non sarebbe tale senza la matrice materna. Laurie Metcalf costruisce un’Augusta che è predicatrice e carnefice: “Avrei dovuto castrarti alla nascita,” urla al figlio. Una madre che riecheggia Jezebel, la regina biblica divorata dai cani, simbolo di impurità e impudenza. Quando Augusta muore, Ed rimane solo con fantasmi e cadaveri. Adeline diventa il riflesso di un bisogno impossibile: compagna reale o allucinazione? Figura ambigua, a volte solidale, a volte carnefice, che introduce Ed a un immaginario di atrocità e lo accompagna nella discesa verso l’abisso. Cinema e mutazioni dell’immaginario Hitchcock cambia la storia del cinema con una doccia che non mostra mai il coltello penetrare il corpo di Janet Leigh. Ma il pubblico, ormai assuefatto, corre in delirio per Il boia scarlatto di Pupillo o gli scherzi macabri di William Castle. Anthony Perkins resta prigioniero di Norman Bates, stretto tra la sua omosessualità repressa e le sedute con la psicanalista Mildred Newman. E poi Tobe Hooper, con The Texas Chain Saw Massacre: non il film che l’America voleva, ma quello che meritava. Una famiglia cannibalica come riflesso della disfunzione nazionale. Leatherface, con le sue tre maschere e la sua sega elettrica, diventa il figlio legittimo di Ed Gein. Ilse Koch, Christine Jorgensen e Buffalo Bill Ed colleziona fumetti su Ilse Koch, la “bestia di Buchenwald” che selezionava prigionieri tatuati per scuoiarli. Vicky Krieps la interpreta con eleganza malvagia, trasformandola in spauracchio erotico e macabro. Nell’episodio “Ham Radio” compare Christine Jorgensen, pioniera della transizione. Gein si crede donna, ma lei lo corregge: non è trans, è ginefilico. Un uomo talmente ossessionato dal corpo femminile da volerci abitare. Distinzione fondamentale per Brennan e Murphy, per non alimentare stereotipi transfobici. E intanto echeggia la danza di Buffalo Bill sulle note di Goodbye Horses, rito di trasformazione e specchio narcisistico. “Vorresti scoparmi? Io mi scoperei,” mormora il killer di Silence of the Lambs. Ed Gein non è mai uscito da quella fase dello specchio. Il girotondo dei mostri Nell’episodio finale si apre un vero e proprio luna park dell’orrore, degno della tradizione di American Horror Story. Sfilano come in una parata macabra i mostri d’America: Jerry Brudos, il feticista delle scarpe; Richard Speck, detto “Birdman”, l’assassino delle infermiere che in manicomio mostrava il seno frutto di una terapia ormonale; Edward Kemper, il killer delle studentesse; e persino Charles Manson, profeta psichedelico della violenza. La serie si concede qui un gioco meta: accanto agli assassini reali compaiono anche gli investigatori di Mindhunter — Holden Ford, Bill Tench e Wendy Carr — come a dire che il racconto dei serial killer non finisce mai, si autoalimenta, divora se stesso. È un girotondo di mostri, un cabaret apocalittico in cui la vita di Gein diventa la matrice da cui tutti gli altri prendono forma. Speck, Bundy e il puzzle incompleto Ma Monster non si limita a rievocare le ossessioni di Gein: gioca anche con invenzioni narrative che dilatano il mito. Così Richard Speck, nelle lettere scritte dal manicomio, diventa quasi un oracolo involontario, contribuendo alla cattura del sadico Ted Bundy, altro spettro che attraversa la serie. Una forzatura storica, certo, ma efficace sul piano drammaturgico, perché aggiunge sfumature inattese a Speck stesso, uomo che si descriveva come “un puzzle in cui le tessere non combaciano mai”. L’eredità e lo specchio Ma il vero colpo di scena è lo specchio che la serie porge a noi. Non basta chiedersi se i mostri nascano o vengano creati: Monster suggerisce che siamo noi, come spettatori, a nutrirli. Ogni volta che consumiamo una storia su Gein, ogni volta che ci affasciniamo ai suoi orrori, alimentiamo un mito che non muore. Il Grand Guignol finale In puro stile Murphy, una TV manda Owner of a Lonely Heart su MTV e pazienti e infermieri ballano in manicomio. In un cimitero adolescenti tentano di profanare la tomba di Ed Gein, ma le ombre di Norman Bates, Buffalo Bill e Leatherface li mettono in fuga. L’ultima immagine è un omaggio a Non aprite quella porta: Leatherface danza con la motosega, infestando per sempre la scena. Poi, un patio assolato, Augusta che mormora “solo una madre potrebbe amarti” mentre serve limonata. Una pace solo apparente: l’orrore si è già trasfigurato in mito pop, pronto a riemergere ogni volta che torniamo a guardare Psycho, Il silenzio degli innocenti o Texas Chainsaw Massacre. Perché i mostri non svaniscono mai: cambiano maschera, e siamo noi a invocarli.

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Paolo Nizza