In Treatment 3: per Roberto Goisis è meglio un dubbio oggi

Serie TV

Sul canale 110 è quasi tempo dell’ultima seduta: la terza stagione di In Treatment, quella finale, debutterà infatti sabato 25 marzo alle 21.15 con la messa in onda della prima settimana di terapia. Anche stavolta, a guidarci lungo questo viaggio della durata di sette settimane con i loro commenti agli episodi saranno i membri della Società Psicoanalitica Italiana: in attesa del debutto, leggi l’intervista al Professor Roberto Goisis

 

di Linda Avolio

 

 

Sul canale 110 è quasi tempo dell’ultima seduta: la terza stagione di In Treatment, quella finale, debutterà infatti sabato 25 marzo alle 21.15 con la messa in onda dei primi cinque episodi, dunque della prima settimana di terapia. Ritroveremo il Dr. Mari, che è tornato a esercitare dopo un periodo di pausa, e conosceremo quattro nuovi pazienti (Rita, Padre Riccardo, Luca, e Bianca) e un nuovo supervisore (Adele).

 

Anche stavolta, e per l’ultima volta, a guidarci lungo questo viaggio della durata di sette settimane (per un totale di 35 episodi), saranno il Professor Roberto Goisis, membro della Società Psicoanalitica Italiana, e i suoi colleghi, che di volta in volta commenteranno i progressi del Dr. Mari e dei suoi pazienti. Perché noi comuni mortali spettatori non siamo i soli che si sono lasciati conquistare dal fascino di In Treatment. In attesa del debutto del capitolo conclusivo, ecco la nostra intervista a Roberto Goisis.

 

Anzitutto, ben ritrovato, Professor Goisis. Partiamo dal passato: tra i casi delle scorse stagioni di In Treatment, qual è quello che l’ha colpita maggiormente, e perché?

Io Ho un grande amore per il personaggio di Alice (ndr, interpretato nella prima stagione da Irene Casagrande). Lavoro molto con gli adolescenti, e della sua storia mi è piaciuta molto la rappresentazione della conduzione dal punto di vista clinico, tecnico e umano del caso. Mi è sembrata una di quelle meglio realizzate e più verosimili, mi sono ritrovato nel modo di lavorare del Dr. Mari, c’è stato un vero processo di immedesimazione con lui.

 

Dunque ci può confermare che alla base della serie c’è un’approfondita ricerca, che c’è una grande cura nella costruzione dei casi.

In Treatment è decisamente credibile e verosimile, in particolar modo la prima stagione, dove la figura di Giovanni Mari è molto vicina alle modalità utilizzate in questi anni da noi specialisti del settore. Ho ritrovato un grande studio del pensiero psicoanalitico e delle varianti tecniche che sono richieste di volta in volta in base alle particolarità dei pazienti. Quando vedemmo per la prima volta gli episodi alcuni anni fa, con alcuni colleghi fummo piacevolmente colpiti da una rappresentazione finalmente verosimile della nostra professione.

 

Parliamo ora della terza stagione: dei nuovi casi, qual è quello che la incuriosisce maggiormente?

Ah, senza ombra di dubbio il sacerdote, che tra l’altro è un personaggio originale, non presente nella versione statunitense.

 

Il Dr. Mari in quest’ultimo capitolo torna a esercitare dopo un periodo di pausa e di allontanamento dalla professione: quale consiglio gli darebbe?

A dire il vero il Dr. Mari il consiglio giusto se l’è già dato da solo, ed è lo stesso che avrei potuto dargli io o i colleghi alla fine della seconda stagione: prendersi un attimo di pausa. Quello che rivedremo nei prossimi episodi, quindi, penso sarà un “collega” che, per l’appunto, si è preso un momento per se stesso, si è reso conto, anche se lo già lo sapeva, di non essere una macchina, ma di essere un essere umano che fa una professione molto delicata, dove il coinvolgimento umano è estremamente intenso. Una professione per la quale bisogna fare ogni tanto della “manutenzione”. La seconda stagione, specialmente la versione italiana, ha mostrato un terapeuta in crisi sia sul piano personale sia su quello professionale, arrabbiato, in difficoltà. Ma se non siamo equilibrati noi professionisti, è molto difficile essere d’aiuto alle persone che si rivolgono a noi, a quel punto c’è troppa confusione, troppa sovrapposizione tra le nostre problematiche e quelle dei pazienti.

 

I prodotti di finzione, che siano serie tv, film, romanzi o quant’altro, rispecchiano la società e il periodo in cui vengono concepiti e creati. Come sono cambiati i problemi della gente negli ultimi decenni? Per dirla in breve, per cosa si andava in terapia tempo fa e per cosa si va in terapia oggi?

Questa è una domanda molto gettonata, ed è una tematica che noi del settore abbiamo ben presente. In breve, cambiano i pazienti, cambia l’atteggiamento culturale e psicologico nei confronti della terapia, cambiano, o meglio, si evolvono, le tecniche utilizzate, ma non cambiano i motivi per cui le persone stanno male, le problematiche. I modi di stare male sono più o meno sempre gli stessi: l’ansia, la tristezza, le relazioni interpersonali, e anche le problematiche di vita.

 

Se le chiedessi di farmi un esempio di problematiche attuali, contemporanee?

Se dovessi fare qualche esempio di problematiche “attuali”, certamente negli anni abbiamo visto un aumento deciso di quelle relative ai disturbi dell’alimentazione e ai disturbi dell’identità, ma quello che è cambiato moltissimo nelle persone che incontriamo è che spesso sono persone che hanno bisogno e voglia di risolvere in tempi brevi i loro problemi. Si tratta di individui che hanno un bisogno di tipo narcisistico, di avere un riscontro molto diretto, molto pratico, concreto. Oggi c’è, per dirla con il gergo tecnico, difficoltà a mentalizzare, ad attivare la funzione riflessiva su se stessi. Si tratta non di una patologia, ma di un modo di funzionare differente rispetto al passato. Sintetizzando: i sintomi, i modi di stare male, non sono cambiati molto, ma a essere cambiati sono i modi con cui le persone chiedono aiuto e vogliono aiuto.

 

Il Dr. Mari è ancora in piedi, ma il dubbio è sempre con lui. Ci riferiamo ovviamente al dubbio riguardo la validità della psicoanalisi. C’è un momento nella carriera di un terapeuta in cui forse è anche normale farsi una domanda del genere?

Non vorrei spaventare qualche potenziale paziente o chi è attualmente in terapia, ma credo che in ogni mestiere, e nel nostro in particolare, se non ci fosse il dubbio non ci sarebbe il pensiero. E’ ovvio che non deve trattarsi di un dubbio ossessivo, che blocca il pensiero, ma di un dubbio “sano”. Personalmente sono molto convinto del lavoro che faccio e dell’utilità che può avere, ma ogni persona che incontro mi fa riflettere. Penso che sia una domanda che ci si pone soprattutto all’inizio di questo mestiere, ma anche quando è da molti anni che si esercita, perché è un lavoro che ci mette costantemente a confronto con le nostre identità e con la professione stessa. Può magari essere inquietante per un paziente sapere una cosa del genere, ma credo che sia abbastanza realistico rappresentarci così, come persone che a volte hanno dei dubbi, e che soprattutto si fanno delle domande.

 

Qual è clinicamente il valore del dubbio?

Il valore clinico del dubbio, ovviamente quando non scade nel patologico, è la possibilità di porsi di fronte a un’altra persona senza una posizione di verità assoluta, ma mettendo a disposizione le proprie competenze, le proprie conoscenze, sempre in una posizione di dialogo. Penso che ciò che caratterizza la psicoanalisi degli ultimi tempi sia l’essere uno scambio intenso tra diversi pensieri, diversi saperi, diverse visioni del mondo. Il dubbio mi permette di mettermi di fronte a una persona per ascoltare quella persona, coglierne le specificità e riconoscere la sua individualità.

 

E’ meglio un dubbio oggi, o una certezza, per quanto brutta o angosciante, domani?

Meglio un dubbio oggi. E’ sempre utile farsi qualche domanda.

 

Parliamo ora della figura del supervisore. Nella serie, Giovanni per molti anni si è affidato ad Anna, collega ma anche amica, e con lei il rapporto è sempre stato ambiguo, dai confini labili. Presumo sia un caso piuttosto raro nella realtà.

Sì, assolutamente. Il supervisore dovrebbe essere un aiuto a orientarsi nelle difficoltà tecniche, teoriche e cliniche della professione. Il confine è sempre un po’ labile, perché ogni intervento che fa il supervisore va a toccare qualcosa anche della persona, oltre che del professionista. Nei casi in cui mi sono ritrovato in questo ruolo, in alcune occasioni ho cercato con delicatezza di far notare al collega che alcuni aspetti della sua vita privata e della sua personalità potevano andare a influire sul lavoro. In tal caso succede che si rimanda la persona a un altro collega per un percorso di terapia vero e proprio. In genere c’è e ci dovrebbe sempre essere una distinzione tra percorso personale di analisi e incontri col supervisore, sono due ambiti differenti. Quando ricopro il ruolo di supervisore non entro nel merito del privato e del vissuto della persona che ho di fronte, mi interessa come si comporta con i suoi pazienti, e se qualcosa del suo modo di essere come persona può avere delle ripercussioni sul lavoro con i pazienti.

 

In questa stagione di In Treatment alcuni personaggi scelgono volontariamente di entrare in terapia, mentre altri vi sono quasi costretti: come cambia l’approccio del terapeuta in questo caso?

E’ ovviamente più difficile lavorare con qualcuno che non ha scelto di intraprendere un determinato percorso, ma non è raro trovarsi in una situazione del genere. Pensiamo per esempio ai bambini e agli adolescenti, ma ci sono anche le terapie prescritte, di ordine giudiziario, o anche quelle consigliate da qualcun altro. E’ una sfida molto affascinante, perché si tratta di far sì che la richiesta altrui diventi la richiesta del paziente.

 

Domanda provocatoria: ha ancora senso la psicoanalisi oggi, nel 2017, visto che comincia anche ad avere “una certa età”?

Certamente. La psicoanalisi non è un’arzilla vecchietta. E’ nata tanti anni fa, ma ha generato tanti discepoli, tante generazioni successive, non bisogna fare l’errore di associare la psicoanalisi solo e soltanto a Freud, altrimenti in quel caso dovrei dirle che oggi tutto ciò non ha più senso. Se però pensiamo che la psicoanalisi è nata con Freud, ma poi si è sviluppata attraverso i suoi seguaci, allora è assolutamente viva e vegeta, e in continua evoluzione. Gli psicoanalisti vivono nel mondo e sanno rinnovarsi e adattarsi ai cambiamenti che la vita comporta. In sostanza: la psicoanalisi ha ancora senso, purché sappia sempre tener conto dei cambiamenti, dei modi di essere e dei bisogni delle persone.

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