La morale è che i suoi problemi sono anche i tuoi. In Treatment entra nei meandri della mente e come lo fa ce lo racconta Nicola Lusuardi, responsabile dell’adattamento: un ruolo strategico per questa serie
Nicola Lusuardi ha lavorato all’adattamento di In Treatment. Ecco le impressioni di una persona che lavora dietro le quinte ma senza la quale le quinte sarebbero deserte.
Signor Lusuardi partiamo dalla formula?
Volentieri. Nasce da una idea di Hagai Levi, sceneggiatore e regista israeliano che prima di questa esperienza aveva lavorato a lungo nel mondo delle soap opera.
Ecco dove nasce la sequenzialità.
La narrazione quotidiana e di durata relativamente breve è tipica della soap. Nessuno prima aveva immaginato una narrazione a così alta temperatura drammatica e orientata all’esplorazione dei conflitti interiori.
Anche nella realtà l’appuntamento con l’analista è fisso.
Il paziente che va una volta alla settimana dall’analista, e sempre nello stesso giorno, determina una unicità che ha molto a che vedere anche col cuore, col senso del racconto, con ciò che si mette in scena.
Che pensa della matrice israeliana?
Non è un caso. In Treatment è nato in quella terra che raccoglie tutte le ragioni culturali. Non è un caso, certo sarebbe potuto nascere anche negli Stati Uniti e forse in altri paesi, ma il fatto che sia nata lì è pertinente e preciso.
L’adattamento è stato impegnativo?
Stabilisce, forse per la prima volta nella storia della narrazione audiovisiva seriale, che il testo diventa un classico sequenza dopo sequenza. E usa un linguaggio universale viste le nazioni che lo hanno accolto. C’è una sequenza narrativa che non ha confini.
Però ha una struttura rigorosa.
La struttura drammaturgica lo è. Si va avanti a cicli e ogni settimana se ne chiude uno. E poi abbiamo un analista in crsii che il venerdì si ritrova ad affrontare gli irrisolti della sua vita.
Come avete lavorato sui personaggi?
Abbiamo riletto e ripensato i personaggi cercando di restare fedeli all’intenzione originale. Poi volevamo raccontare attraverso ciascuno di loro le la zona oscura di tutte le istituzioni fondamentali della società: la famiglia, i rapporti genitori figli nello specifico della nostra cultura italiana.
Come immagina il ruolo dello spettatore?
Scomodo perché In Treatment solletica un aspetto implicitamente voyeuristico.
In che senso?
L’entrare nella stanza di un analista e lo spiare il rapporto tra lui e il suo paziente è voyeurismo. Penso che se siamo stati bravi questa partecipazione disvelante dovrebbe mettere lo spettatore in una posizione un po’ scomoda, un po’ inquieta, perché in realtà contrariamente a quello che ti capita guardando i reality dovresti percepire un fattore fondamentale.
Ovvero?
Che i suoi problemi sono anche i tuoi.
Signor Lusuardi partiamo dalla formula?
Volentieri. Nasce da una idea di Hagai Levi, sceneggiatore e regista israeliano che prima di questa esperienza aveva lavorato a lungo nel mondo delle soap opera.
Ecco dove nasce la sequenzialità.
La narrazione quotidiana e di durata relativamente breve è tipica della soap. Nessuno prima aveva immaginato una narrazione a così alta temperatura drammatica e orientata all’esplorazione dei conflitti interiori.
Anche nella realtà l’appuntamento con l’analista è fisso.
Il paziente che va una volta alla settimana dall’analista, e sempre nello stesso giorno, determina una unicità che ha molto a che vedere anche col cuore, col senso del racconto, con ciò che si mette in scena.
Che pensa della matrice israeliana?
Non è un caso. In Treatment è nato in quella terra che raccoglie tutte le ragioni culturali. Non è un caso, certo sarebbe potuto nascere anche negli Stati Uniti e forse in altri paesi, ma il fatto che sia nata lì è pertinente e preciso.
L’adattamento è stato impegnativo?
Stabilisce, forse per la prima volta nella storia della narrazione audiovisiva seriale, che il testo diventa un classico sequenza dopo sequenza. E usa un linguaggio universale viste le nazioni che lo hanno accolto. C’è una sequenza narrativa che non ha confini.
Però ha una struttura rigorosa.
La struttura drammaturgica lo è. Si va avanti a cicli e ogni settimana se ne chiude uno. E poi abbiamo un analista in crsii che il venerdì si ritrova ad affrontare gli irrisolti della sua vita.
Come avete lavorato sui personaggi?
Abbiamo riletto e ripensato i personaggi cercando di restare fedeli all’intenzione originale. Poi volevamo raccontare attraverso ciascuno di loro le la zona oscura di tutte le istituzioni fondamentali della società: la famiglia, i rapporti genitori figli nello specifico della nostra cultura italiana.
Come immagina il ruolo dello spettatore?
Scomodo perché In Treatment solletica un aspetto implicitamente voyeuristico.
In che senso?
L’entrare nella stanza di un analista e lo spiare il rapporto tra lui e il suo paziente è voyeurismo. Penso che se siamo stati bravi questa partecipazione disvelante dovrebbe mettere lo spettatore in una posizione un po’ scomoda, un po’ inquieta, perché in realtà contrariamente a quello che ti capita guardando i reality dovresti percepire un fattore fondamentale.
Ovvero?
Che i suoi problemi sono anche i tuoi.