La pratica “payola” sul mercato musicale

Il termine “payola” fa capolino nella storia dell'industria musicale a partire dagli anni 50 e fa riferimento alla pratica, allora molto diffusa, da parte di dj e speaker radiofonici che richiedevano alla casa discografica una parte delle entrate editoriali per passare e spingere una canzone in radio. La richiesta di quote copyright musicale costò allora la carriera radiofonica di Alan Freed e mise in seria discussione anche quella di Dick Clark, storico conduttore radiofonico e televisivo, nonché creatore degli American Music Awards. Si chiamano tecnicamente “master points” e sono essenzialmente una quota di royalties associate a una registrazione che di solito vengono attribuite a chi è coinvolto direttamente nel processo creativo di realizzazione del disco, come il produttore, l'ingegnere del suono o il responsabile A&R . Durante gli anni '60 la Federal Communications Commission FCC – l'agenzia governativa in tema di comunicazioni – iniziò a considerarlo un reato, ma questo non bloccò la pratica della payola che circolava liberamente nel settore discografico e radiofonico statunitense negli anni '70. Ma nei decenni successivi le regole si sono molto irrigidite al punto che il termine “payola” uscì dal radar. Il ruolo dei creator/influencer Si ripresenta oggi dove il contesto musicale e il panorama mediatico è completamente mutato. Infatti, se da una parte le piattaforme streaming mettono tutti sullo stesso piano ed è l'algoritmo a dettare le regole, dall'altra la radio ha ridotto drasticamente il proprio potere nella promozione in favore dei social media e degli influencer/creator. Negli States le case discografiche – principalmente le major, ma anche molte indipendenti – lavorano da molti anni con gli influencer dei social media, creando al loro interno delle divisioni che si relazionano con loro. Nel tempo il rapporto si è spostato dall'adorazione verso i grandi numeri di visualizzazione realizzati dai creator più importanti, a concentrarsi sui micro-influencer che hanno meno follower ma più fedeli e coinvolti. TikTok in particolare si è dimostrato uno strumento straordinario per la promozione della musica, sia sulle novità ma anche su quella di repertorio: infatti se a volte nelle classifiche dei singoli più ascoltati si trovano canzoni dei Fleetwood Mac o dei Toto è grazie anche ai meme creati da questi influencer che magari utilizzano una delirante versione accelerata per fare da colonna sonora per challange o video assurdi. Solitamente le case discografiche usano gli influencer di Instagram e di TikTok per "seminare" le canzoni prima della loro uscita per far sì che il pubblico e i servizi di streaming siano entusiasti della "trazione" che stanno vedendo. A volte, questi influencer sono già fan e sono semplicemente felici di essere associati al loro artista preferito o di ricevere a casa merchandising e biglietti VIP per concerti. Il più delle volte, si verifica una transazione commerciale, con gli hashtag "#ad" o "#promoted" in mezzo a una valanga di altri hashtag nella speranza che nessuno se ne accorga davvero. Tutto questo avviene in modo regolare e alla luce del sole. La nuova payola Tuttavia, succede che a volte coloro che praticano un gioco di prestigio mostrano i loro meccanismi. Come scrive Eamonn Forde su The Quietus, trovandosi a un conferenza sul business della musica ha ascoltato un rappresentante di un'agenzia che lavora con i creator dei social media il quale – in modo peraltro piuttosto arrogante – sosteneva che il 2025 sarebbe stato l'anno in cui avrebbero fatto le cose in modo diverso come "partner promozionali" per le case discografiche e per gli artisti. Da qui il prospettarsi minaccioso di un'altra payola come nella metà del secolo scorso, dove i dj delle radio sono sostituiti dai creator-influencer più arrembanti. In effetti, a ben pensare, da un certo punto di vista, il mercato musicale oggi è molto più vicino a quello degli anni '50, dove il singolo di fatto rappresenta il centro di gravità del business. Per questo motivo invece di chiedere semplicemente una quota per promuovere una canzone sui loro canali, questi influencer-creator dei social media avrebbero anche richiesto punti master sulle tracce che stavano promuovendo, considerandolo qualcosa che li spetta. La verità è che, con tutta la buona volontà, nessuno può sostenere che un personaggio di TikTok fugacemente famoso stia svolgendo un ruolo creativo nella musica che sta promuovendo nei suoi post. La sua stessa produzione e il modo in cui parla di quella musica potrebbero essere senza dubbio creativi, ma questo non influisce sulla musica in questione; perciò, chiedere dei master points sembra nella migliore delle ipotesi una forzatura e una rapina nella peggiore. In un momento in cui gli artisti si lamentano a gran voce di quanto poco guadagnino dallo streaming, chiedere una parte delle loro royalties sembra crudelmente opportunistico. Questo è quello che sta accadendo negli States, ma visto che nel mercato italiano regna l'autarchia e i social hanno il loro peso specifico, c'è il rischio che questa pratica senza senso del payola faccia breccia anche da noi. Mercato avvisato...

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