Lo scandalo degli artisti fantasma delle playlist di Spotify

Mentre in Italia le pagine dello spettacolo e della cronaca si riempivano di aggiornamenti su discutibili accuse di censura per concerti di Capodanno senza una direzione artistica e di partecipazioni a Sanremo, nel resto del mondo la notizia principale riguardava Spotify, accusata di comportamenti non particolarmente corretti. L'inchiesta di Liz Pelly Il tutto parte da una lunga inchiesta della giornalista Liz Pelly e che fa parte del libro “Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist”, in uscita negli Stati Uniti a gennaio. Pelly accusa Spotify, la piattaforma più ascoltata di streaming audio e che di fatto controlla e influenza il mercato musicale globale, di riempire le playlist con artisti “fantasma” per ridurre al minimo i costi delle royalty. Le playlist in questione sono quelle - peraltro molto popolari – che gli utenti ascoltano come sottofondo per le proprie attività, scegliendole sulla base del genere, dell’atmosfera e del “mood” suggerito piuttosto che per gli artisti e le canzoni: sono quelle playlist dai titoli come “Ambient Relaxation”, “Deep Focus”, “100% Lounge”, “Bossa Nova Dinner”, “Cocktail Jazz”, "Morning Stretch". Dietro a queste playlist create da Spotify c'è un programma interno a Spotify chiamato Perfect Fit Content , concepito per massimizzare i profitti. In molti casi, infatti, i contenuti di queste playlist sono realizzate da società di produzioni esterne, per lo più situate al di fuori degli Stati Uniti, che vengono pagati al momento, rinunciando a una buona parte dei diritti d'autore, specialmente nel caso i brani diventino molto popolari. L'inchiesta ha evidenziato che, quando la questione è diventata di dominio pubblico all'inizio dell'anno, un portavoce di Spotify ha affermato che le accuse erano «categoricamente false, punto e basta», negando che l'azienda stesse creano tracce di artisti falsi. Tuttavia, aggiunge Liz Pelly, anche se Spotify dichiara di non averli creati, non è arrivata a negare di averli aggiunti alle sue playlist. L'inchiesta fa esplicito riferimento ai risultati dello scrittore musicale David Turner, che ha utilizzato l'analisi per dimostrare che la playlist "Ambient Chill" di Spotify era stata svuotata da artisti noti come Brian Eno e Jon Hopkins e riempita di tracce realizzate da Epidemic Sound, un'azienda svedese che offre una library di musica di produzione in abbonamento, incluso il tipo di materiale di repertorio ampiamente utilizzato come sottofondo di pubblicità e programmi TV, volutamente semplice e di facile ascolto. All'interno della stessa inchiesta ci sono anche dichiarazioni di ex dipendenti Spotify che ammettono di non trovare giusta l'attività di un paio di persone che scrivevano canzoni banalissime, sostituendole a quelle di veri artisti ma, aggiungono, “era come cercare di fermare un treno che era già partito”. Il risultato è che Spotify paga agli artisti meno royalties – già piuttosto bassi - mentre i pagamenti vanno ai partner PFC, che creano materiale da condividere sotto centinaia di profili di artisti completamente inventati sui quali vengono create delle biografie totalmente false contenenti dettagli pensati per farli diventare i producer più cool del mondo, ed è anche qui che sta il raggiro. Come è cambiata Spotify Per capire come Spotify sia arrivata a ospitare sulle sue playlist canzoni di artisti inventati è necessario conoscere la genesi dell’azienda stessa, nata nel 2008, in Svezia, con la promessa di essere uno strumento «migliore della pirateria», che permettesse di avere accesso a un enorme archivio musicale pagando un abbonamento mensile. Inizialmente il fondatore e tuttora CEO Daniel Ek era contrario alla creazioni di playlist e voleva basare tutto sul motore di ricerca e sulle scelte degli utenti. Poi con il passare degli anni la piattaforma è diventata sempre più uno strumento di consiglio di colonne sonore per ogni momento della giornata in base all'umore, al meteo e alle attività svolte. I miglioramenti dell'algoritmo verso una personalizzazione più spinta sulla base degli ascolti furono un'occasione per presentare Spotify agli artisti come uno strumento per svincolare la propria musica dalle etichette discografiche e dai media tradizionali, grazie alla presunta neutralità dell'algoritmo. In realtà fin dal primo giorno le major discografiche possedevano delle quote di Spotify per esercitare la loro influenza. Con il tempo, accumulando e analizzando i dati di ascolto, i tipi di Spotfy scoprono che un'alta percentuale di utenti non accedono alla piattaforma per ascoltare qualcosa di specifico, ma preferiscono affidarsi alle playlist con un titolo accattivante e che riescono a rappresentarli in quel preciso momento per un ascolto passivo e di sottofondo. Da qui la tendenza alle playlist e poi alla degenerazione del modello PFC. Le dichiarazioni del Ceo A scatenare ancora di più le proteste degli artisti e del mondo musicale sono state le sconsiderate affermazioni dello stesso Daniel Ek rilasciate quest'estate secondo cui «i costi di produzione dei "contenuti" sarebbero "vicini allo zero" all'inizio di quest'estate». Da qui i commenti di artisti e appassionati che accusavano Ek di vivere fuori dal mondo e di considerare la musica come commodity e non come una forma di espressione artistica che richiedeva tempo, lavoro e fatica. Dopo la reazione negativa, Ek ha condiviso un altro aggiornamento scusandosi per aver minimizzato le difficoltà affrontate dai musicisti e per aver utilizzato l'etichetta "riduttiva" di "contenuto". In realtà aveva espresso il suo pensiero molto chiaramente e lo scandalo delle playlist con gli artisti fantasmi e del modello PFC lo dimostra chiaramente.

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