Marina Viotti e la battaglia contro il cancro: “C’è una vita dopo e nessuno può prenderla”

“C'è una vita dopo e nessuno la può prendere. Ci sono momenti difficili e di disperazione certo. Io sono stata come una guerriera, ho pensato: ‘Ok, questo è il piano, ora devo fare questo, poi quest’altro e poi finito andiamo a fare le prove dell’opera etc. Non mi sono messa a pensare alle cose negative. C'erano, ci sono e ci saranno sempre perché devo convivere con questo male che un giorno potrebbe anche tornare. La malattia farà sempre parte di me ma ho imparato ad assaporare tutte le piccole cose della vita”. Ha vinto la sua battaglia contro il cancro Marina Viotti, mezzosoprano tra i più richiesti al mondo. Una battaglia che ha vissuto senza mai arrendersi, continuando a salire sul palco e tenendo nascosta la sua malattia. Oggi, cinque anni dopo la diagnosi, sta bene e ha scelto di raccontare la sua storia attraverso la forma di comunicazione che meglio conosce: la musica. Ha così pubblicato l’album Melankholia, - In darkness through the light per l'etichetta Naive che contiene le musiche che l’hanno accompagnata nel momento più difficile di questo percorso di cure e sofferenza. L’album unisce la musica del compositore rinascimentale John Dowland a canzoni di Lana Del Ray, degli U2 o dei Metallica rispecchiando in pieno le sue due anime: da una parte l’opera e la musica classica, dall’altra il rock e il pop. Come ha costruito questo mix? Quando ho scoperto di avere il linfoma di Hodgkin ho interrotto tutto. Stavo lavorando a un progetto di rivisitazione delle musiche di questo autore rinascimentale. Ho iniziato sei mesi di chemio e radioterapia. I dottori mi avevano prospettato anche lo scenario peggiore perché il tumore era molto vicino alle corde vocali. Io non avevo più fiato, non avevo più forza. L’unica cosa che potevo fare era cantare con una voce molto più naturale, non lirica. Perché la lirica richiede tutto il corpo, tutta quella potenza e fiato che non avevo più. Era una fragilità nuova per me perché io sono molto energica. Quindi ho pensato: ‘C'è ancora qualcosa che posso cantare?’. E sì, potevo cantare tutte quelle canzoni un po' più pop, con il microfono che mi aiutava. Così ho iniziato a fare delle prove ogni tanto con due amici, poco perché mi stancavo molto, accostando le canzoni di John Dowland a quelle più moderne di Lana Del Ray, Johnny Cash, dei Metallica o degli U2. Poter cantare mi ha dato un po’ di serenità, è stata una forma di meditazione. Per questo l’album si chiama In Darkness Through the Light, perché è stato veramente il viaggio che ho fatto dentro la notte, nell'oscurità. Oggi come sta? Adesso, cinque anni dopo la prima diagnosi, sto benissimo, in piena forma, canto in tutti i teatri del mondo ma questa voce più naturale, che arriva forse un po' più dall'anima, ora fa parte di me. Questo album per me è molto importante. Affronta vari temi attraverso coppie di brani. Per esempio il tema della morte, che è stato molto presente nella mia vita perché ho perso mio padre quando avevo 19 anni , è rappresentato da Born to die di Lana Del Ray e In Darkness Let Me Dwell di Dowland. Tutti le canzoni sono ri-arrangiate da me, che canto e suono il flauto, e da alcuni musicisti amici con strumenti antichi, come l'arciliuto, e altri elettronici come il mellotron, la chitarra elettrica, il Moog . Ha scelto una copertina che rappresenta il momento forse più difficile, una foto di lei senza capelli durante la malattia. E all’interno dell’album c’è anche un booklet che ripercorre in forma di diario tutta la sua storia. Qual è il messaggio che vuole dare? Che c’è una vita dopo e nessuno ce la può togliere. Io non ho creduto a quei dottori che mi hanno detto che non ce l’avrei fatta o che avrei smesso di cantare. Ho seguito la mia voce interiore e quella delle persone che mi hanno circondato, la mia famiglia prima di tutto. Certo, ci sono momenti di disperazione. Io sono stata come una guerriera. Ho pensato che avevo un piano da seguire e affrontato tutto un passo alla volta senza mai dare peso alle cose negative che c’erano, ci sono e ci saranno sempre. È difficile perché quando sei malato sei un po' isolato, sei fuori dalla società perché è una battaglia molto personale. Ma è importante non essere soli. Io ho fatto questo cd e ho scelto questa foto proprio per dire che non è giusto e non è normale essere isolati. Siamo in tanti alle prese con una battaglia personale. E forse tutti ne abbiamo una, non solo chi è malato. Superato il momento iniziale, lei ha ripreso subito in mano la sua carriera di mezzosoprano. Come è stato possibile? Ho terminato il ciclo iniziale di chemioterapia due mesi prima del mio debutto al Teatro alla Scala in Roméo et Juliette. Sul podio ci sarebbe stato mio fratello Lorenzo, unico a sapere delle mia malattia. Ero molto debole, avevo perso dieci chili credo, non avevo fiato e non avevo forze. Ma io volevo riscattare tutta quella sofferenza che avevo vissuto. Volevo farcela e volevo salire su quel palco. Sono arrivata il primo giorno con i capelli corti ma nessuno si è accorto. Tutti conoscono anche l’altra parte di me, quella che ama il rock, e hanno pensato a un taglio più moderno ecco. Quello è stato un momento chiave per me, è stato il primo spettacolo che ho affrontato dopo la diagnosi. E lì ho capito che avrei potuto farcela. Poi è arrivato il Covid che è stata anche una fortuna perché con i teatri chiusi ho avuto un lungo periodo per riposare e per riprendermi. E poi l’abbiamo rivista alla Scala nei Les Contes d’Hoffmann, al Teatro dell’Opera di Roma in Alceste e nei più importanti teatri del mondo. Perché ha tenuto nascosta la sua malattia? Da un lato avevo paura di perdere le opportunità e i contratti, perché far esibire una persona che ha un cancro comporta una serie di rischi, dall’altro non volevo essere etichettata come una persona malata perché tutti si sarebbero poi comportati diversamente con me. Io volevo prima superare e poi parlare. Raccontare la mia storia e provare a cambiare le cose. Non bisogna avere paura quando si sta già affrontando una battaglia personale così difficile. E questo album nasce proprio con questo intento. La malattia ha cambiato la sua voce? Sì, l’ha migliorata. Il cancro mi ha permesso di andare più in profondità e ho scoperto una voce con molto più volume, più carnale, con più colore. Ho avuto la sensazione di poter osare di più. L’album rispecchia in pieno le due anime che ha sempre avuto: da un lato l'opera e la musica classica, dall'altro il rock o il pop. L’abbiamo anche vista con la band metal francese Gojira alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi, esibizione candidata anche ai prossimi Grammy. Come passa da un mondo all’altro? Sono due universi molto differenti ma anche molto simili perché entrambi sono per me “epici”, hanno un enorme energia. Ma certo sono due modi di vivere diversi. Con una band metal c’è il contatto diretto con il pubblico, sul palco si è molto liberi, serve tanto carisma e meno precisione tecnica. Quando sei una cantante lirica, invece, devi sempre puntare alla perfezione della tecnica e del canto. Devi fare attenzione ai movimenti sul palco, il pubblico lo percepisci certo ma non c’è un rapporto diretto. Nell’opera sei parte di una storia, è un lavoro molto più interiore. Ma sono veramente come due parti di me perché io adoro il metal e scrivere le mie canzoni ma allo stesso tempo amo l’opera. È cresciuta in una famiglia di musicisti, qual è stato l’insegnamento più grande di suo padre? L'amore per la famiglia e per la gente. Io l'ho conosciuto come padre. In questi anni mi è capitato spesso di incontrare colleghi che lo hanno conosciuto e tutti lo ricordano sempre come un uomo che amava la vita e le persone. La nostra famiglia è tutto per me e siamo tutti così. Io, mio fratello Lorenzo, gli altri e la mia mamma che è forse la nostra dea. Penso che sia molto raro nel mondo della musica riuscire ad avere una famiglia così unita e sempre presente sempre.

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Marina Viotti e la battaglia contro il cancro: “C’è una vita dopo e nessuno può prenderla”