L'album racconta un nuovo percorso di crescita sia personale che artistico di un artista che cerca di far pace con le proprie contraddizioni attraverso un processo di semplificazione e di ritorno alle cose semplici. Annuciate le prime due date estive: 21 luglio Milano e 10 settembre Roma
Francesco Motta torna in modalità Semplice, ripartendo dall’attenzione nei confronti delle piccole cose, dall’importanza di ogni attimo vissuto, dalla quotidianità in quanto dimensione che sfugge, ma sempre presente e fondamentale per quel che sarà. Il suo volto non compare in copertina: siamo a una sintesi che è in sé una nuova fase in cui l’autore compie un passo indietro per lasciare che a parlare siano le canzoni, parole e musica che cogliendo stati d’animo, emozioni, immagini fugaci, più che raccontare una storia tratteggiano un’interiorità che dialoga con se stessa e riflette sulle proprie incongruenze per accoglierle in un abbraccio.
Francesco partiamo dalla nascita del disco.
L'ho fatto soprattutto per me. Quest’anno per la prima volta mi sono chiesto il senso di fare questo mestiere. In alcuni momenti mi dava noia anche solo vedere la chitarra, poi ho trovato la risposta in un verso dei Colle del Fomento: non lo faccio per la gloria né per l’oro ma se no me moro.
Semplice si ascolta come si legge un libro.
L’album è per me importantissimo e ha uno sviluppo organico e hai ragione, si sviluppa come un racconto anche se lo ascolteranno in pochi.
Non credo, è un album che ipnotizza. A partire dall'incipit.
L’inizio con gli archi è un senso di rinascita mentre la fine, con Mentre guardiamo una rosa, è molto nera ma è un mondo che sto esplorando e mi piace pensare che un eventuale prossimo disco ripartirà da lì. Mi piace che una traccia strumentale possa avere un racconto, qui c’è solo la ritmica sotto non ci sono loop armonici. C’è la collaborazione con Dario Brunori col quale siamo amici ma mai abbiamo lavorato insieme. Sentivo esigenza di raccontare un momento difficile che abbiamo vissuto tutti lo scorso anno. Non c’erano le parole giuste e l'ho fatto con un racconto strumentale. Il Bolero di Ravel non ha un testo ma quel rullante racconta una storia.
Pronto per i concerti?
Il 21 luglio sarò al Carroponte di Milano e il 10 settembre all'Auditorium Parco della Musca di Roma. In estate ho deciso di presentare il disco con la band. Non ci saranno luci bestiali ma l'importante è andare in giro con i musicisti. Avere iniziato a 18 anni suonando per la strada mi ha aiutato. Dunque ci sarò. Non sarà un concerto rock ma ci sono parti strumentali che ci permettono di suonare. Questo disco ha un rock elegante e lo puoi godere anche seduto. Ho voglia di attenzione e non mi preoccupa che la gente sia seduta, mi spiace però che non abbia la facoltà di scegliere come ascoltarlo.
E’ possibili essere felici?
Il disco nasce per arrivare al semplice che non è il minimale. La cosa più difficile per arrivare alle cose semplici è capire cosa andare a levare, concentrarmi sulle cose importanti mi ha reso contento. Ci sono parecchie canzoni dove accetto di dire qui va tutti bene.
Mi racconti l'incontro con Francesco De Gregori?
Qualcosa di normale viene molto da quel mondo. Una notte ho sognato di essere in una casa con mio padre e mia madre. Mio padre dice ti tornare a casa che lui arriva con De Gregori: io corro per tornare a casa, sprofondo in un burrone, nessuno mi aiuta a risalire, poi sono in autobus e infine gli faccio sentire Qualcosa di Normale e un inedito che era presente solo nel sogno. Avevo la necessità che lo ascoltasse e via mail mi ha detto che era ok, il solo suggerimento che mi ha dato è di cantarlo per una donna: volevo una persona scelta nel profondo ed è stato naturale farlo con mia sorella: con lei il testo ha cambiato significato.
L'album nasce a tema libero o con una traccia?
Al titolo ci sono arrivato alla fine e ho capito che era il tema. Ho letto le Lezioni americane di Italo Calvino sulla leggerezza e ho compreso che la leggerezza non è una piuma che cade ma un uccellino che batte le ali per restare su. E’ faticosa la leggerezza.
Il tuo rullante motivazionale?
Prima avevo paura di fermarmi, guardarmi e dire sto bene o almeno sto. Prima c’era paura del tempo e una voglia di essere molto legato al passato e giudicarmi molto, non capire le contraddizioni. Ora le accetto e per la prima volta col rullante è più stabile di prima. Quando è venuta meno la socialità e mi sono fermato a pensare per la prima volta non ho guardato il passato ma ho preso quel momento per guardare al futuro che è come accettare di essere presente in una città, Roma, mentre prima c’era il ricordo di accettare da dove venivo, Pisa, per capire chi ero. C’erano la provincia e lo spavento della città. Trastevere ha tante cose in comune con Pisa e questo mi ha permesso di stare e stare meglio.
La tua canzone preferita?
Di solito quella che mi piace meno è quella che più piace alla gente. Semplice se tornassi in studio non saprei dirti come è stata fatta, c’è quello strumentale che ci ha coinvolti tutti ma non so come. La chiarezza del testo è la parte centrale del racconto.
Che palco ti immagini?
Tutto partirà da un sorriso ma non bisogna nascondercisi dietro. Penserò a chi ora non sarà sul palco con me perché fa un altro mestiere. Mi sento fortunato ma il sorriso è a metà. E’ tanto che non vedo la gente e non so chi siamo diventati. Però dico meno male che si suona.
Come cambia la vita da via Giovenale a via Della Luce?
Come da Rio de Janeiro a New York. Qui c’è tanta Roma e ora sento questa come la mia città. Mai avrei pensato di mettere la parola sanpietrino in una canzone poi mi sono detto: perché no invece? Anche avere lo studio a Trastevere mi ha aiutato. In via Giovenale era piccolo poi a Torpignattara ho trovato spazi più grandi e ora per questo disco avevo uno studio che mi ha permesso anche di dividere meglio la mia vita privata da quella vita musicale. Resto tormentato ma lo faccio pesare meno.
Si sente sempre una urgenza nella tua musica.
Suono da quando ho 18 anni e suonare per strada ha influito sulla mia formazione. Ho vissuto un mese a Dublino con Maestro Pellegrini, suonavamo per strada e io proponevo pezzi di Adriano Celentano e Luigi Tenco. Il primo giorno avevamo fatto 20 euro, praticamente nulla. Allora ho preso dei cartoni fuori dai negezi e facevo pezzi in inglese e in un paio di giorni cominciamo a raccogliere più soldi. Una ragazza ci ascoltò per un’ora e mezzo, comprò il demo e poi ci chiese in che lingua cantavamo. C’era una forza nella musica. Racconto in Quello che Non so di te che non avevamo niente ma quel niente ci bastava. Vedo oggi ragazzi che iniziano che sanno più cose di me adesso ma perdono un po’ il focus: noi suonavamo perché ci piaceva suonare. Oggi posso fare ascoltare le mie canzoni a tutti ma io sono così oggi grazie a quella parte della mia vita.
Nella copertina non ci sei.
Ci sono arrivato alla fine. Per te che è semplice anche l’amore…ci ho messo tre anni e dieci canzoni per arrivare a questa frase. In origine avevo altre idee anche complicate poi ho visto questo che è un manifesto anche se non ci sono e mi sono detto che se bisogna levare il superfluo non ci devo essere neanche io, le canzoni sono più importanti di chi le scrive. E’ la mia cover più punk.