Valeria Golino al Cinemoda Club di Vogue Italia e Kering, tra moda e cinema

Dal 25 al 27 settembre 2025 Milano si è trasformata in una capitale non solo della moda ma anche del cinema. Nella cornice della Fashion Week, tre sale simboliche – il Cinema Arlecchino, il Mexico e il Palestrina – hanno ospitato Cinemoda Club, la rassegna curata da Vogue Italia e Kering, ideata e guidata da Gian Luca Farinelli insieme a Valeria Golino, madrina dell’iniziativa. Tre giorni, oltre trentasei film, un viaggio tra capolavori e rarità: da Vacanze romane a In the Mood for Love, da Marie Antoinette di Sofia Coppola a Do the Right Thing di Spike Lee, passando per Rapsodia Satanica e documentari su Yves Saint Laurent, Franca Sozzani e Wim Wenders. Un programma che ha illuminato il dialogo creativo tra due linguaggi che condividono immaginazione, trasformazione e desiderio. Ad aprire la rassegna, il 25 settembre al Cinema Arlecchino, un talk tra Valeria Golino e Gian Luca Farinelli, critico e direttore della Cineteca di Bologna, che ha trasformato la sala in un confessionale poetico. L’attrice e regista ha ripercorso il suo rapporto con i costumi cinematografici, rendendo evidente come un abito possa cambiare il destino di un personaggio. Valeria Golino e il potere dei capelli "Per me i capelli sono fondamentali", racconta Golino. "Li ho cambiati più di qualsiasi altro attore italiano, uomini e donne compresi. Nei film, quando guardo la mia acconciatura, capisco subito chi è il personaggio". Una dichiarazione che svela quanto anche l’elemento apparentemente più effimero possa diventare chiave interpretativa. Nel corso della sua carriera i registi hanno spesso deciso la sua immagine: liscia e bionda per un film, liscia e bruna per un altro, trasformata in una donna diversa a seconda della visione altrui. Con il tempo, però, Golino ha imparato a proporre e difendere le proprie scelte, acquisendo la libertà di intervenire nella costruzione visiva dei suoi ruoli. Dai set di Hollywood al realismo italiano L’attrice rievoca i primi set americani, quando Barry Levinson la volle in Rain Man accanto a Tom Cruise e Dustin Hoffman. Dopo mesi di provini, decise che il guardaroba del suo personaggio fosse semplicemente il suo: scarpe, giacche, pantaloni, camicie. "A volte – dice Golino – il regista prende l’intero pacchetto: personalità e vestiti diventano inseparabili". Al contrario, in Immortal Beloved, il film su Beethoven con Gary Oldman e Isabella Rossellini, indossò sontuosi costumi ottocenteschi firmati Maurizio Millenotti. "Erano meravigliosi, ma non venivano valorizzati. Così, in segreto, mi muovevo perché fossero ripresi: per me l’abito è parte della scena, non un semplice ornamento". In Respiro di Emanuele Crialese i costumi erano ridotti al minimo: vestitini semplici, quotidiani, e la rete da pesca trasformata in un abito improvvisato e sensuale. "Quell’accessorio diventò ornamento, vestito, persino arma di seduzione. Quei piccoli abiti poveri, così tipici del Sud, sono entrati nel linguaggio del cinema italiano come icone di realismo". Miele e la giacca marinaresca diventata manifesto Con Miele, il film che segna una svolta nella sua carriera da regista, Golino plasma Jasmine Trinca in un’eroina androgina, fragile e intensa. La voleva diversa: magrissima, con i capelli cortissimi, lontana dalla femminilità ovvia che fino a quel momento caratterizzava la giovane attrice. Fu la costumista Maria Rita Barbera a proporre una giacca da marinaio trovata in un circolo nautico. "Non la volevo, la trovavo inadatta. Io immaginavo abiti aderenti, sportivi. Ma una volta indossata, quella giacca blu marina è diventata il capo distintivo di Jasmine, tanto da finire nel manifesto del film". Un esempio di come i costumi possano contraddire l’intuizione iniziale e rivelarsi invece essenziali. La Gioia: piumini, invisibilità e verità del personaggio Il ricordo più recente riguarda La Gioia, presentato alle Giornate degli Autori a Venezia. Qui Golino interpreta un personaggio fragile e sospeso, e i costumi diventano parte integrante della sua invisibilità. Non piume leggere, ma piumini: giubbotti quotidiani, quasi banali, che l’attrice inizialmente detestava. "Avrei voluto un mantello, un capo poetico", confessa. "Ma ho capito che proprio quei piumini restituivano la verità del personaggio, la sua impermeabilità, la sua ostinata discrezione". È in questo scarto tra ciò che si desidera e ciò che serve al film che, secondo Golino, nasce il senso più profondo del cinema. Il risultato è un personaggio che vive della stessa leggerezza e dello stesso peso dei suoi abiti: anonima eppure memorabile, invisibile ma potentissima. La Gioia, in questo senso, diventa un film manifesto della funzione simbolica del costume, capace di restituire un’identità proprio sottraendola alla visibilità. Costumi, dettagli e il rischio del contemporaneo Per Golino i dettagli sono fondamentali. "Le scarpe, ad esempio, si vedono sempre. Definiscono l’epoca, la condizione sociale, la verità del personaggio". Una convinzione che smentisce la leggenda secondo cui calzature e accessori resterebbero invisibili sullo schermo. Il rapporto con i costumisti è spesso giocoso, complice. "Con loro cerco sempre di creare un piccolo clan contro il regista", scherza. Ma dietro l’ironia c’è la consapevolezza che i costumi possono determinare la riuscita di una scena. "Un abito sbagliato può persino peggiorare la recitazione", dice senza esitazioni. Eppure, se nei film storici i riferimenti offrono solidità, nei film contemporanei il lavoro si fa più arduo: il rischio di cadere nel banale o nel volgare è altissimo. "Servono costumisti straordinari – osserva – per dare autenticità al quotidiano". Moda e cinema: un linguaggio condiviso Cinemoda Club ha messo in dialogo film e moda come due linguaggi speculari. Sullo schermo, le dive di ieri e di oggi: Audrey Hepburn in Givenchy, Ingrid Bergman spogliata da Rossellini in Stromboli, Sofia Coppola che in Marie Antoinette osa inserire sneakers moderne tra merletti e corpetti settecenteschi. Per Valeria Golino, madrina della rassegna, la lezione è chiara: "Il cinema e la moda parlano lo stesso linguaggio. Quello dell’immaginazione, della trasformazione, del desiderio". All’Arlecchino di Milano, davanti a un pubblico che univa cinefili e appassionati di moda, la sua voce ha reso evidente ciò che il festival intendeva celebrare: il costume non è un accessorio, ma parte integrante della narrazione, un dispositivo che plasma i personaggi, li tradisce o li rivela. Così, tra giacche da marinaio diventate manifesto, piumini che raccontano invisibilità, reti da pesca trasformate in abiti e scarpe che definiscono intere epoche, Valeria Golino ha consegnato un ritratto di sé e del cinema. Un ritratto in cui l’abito non è mai solo tessuto, ma destino.

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Paolo Nizza