Strippoli racconta La valle dei sorrisi: "Il santo come un supereroe"

“La valle dei sorrisi”, il nuovo film di Paolo Strippoli al cinema con Vision Distribution, è un horror psicologico, che gioca con la tensione, che parla di soprannaturale e che lavora sulle piccole cose: i non detti, le sfumature; le insinuazioni. Michele Riondino interpreta un ex-campione di judo che si trasferisce al nord, tra le Alpi, per insegnare ginnastica. Nella comunità in cui viene accolto, deve imparare velocemente a fare i conti con nuovi equilibri e nuove dinamiche. Conosce Michela , una giovane barista, e Matteo , uno degli studenti della sua classe. Ed è proprio Matteo che, con le sue straordinarie abilità, rappresenta il centro della vita del paese. Dice Strippoli che non gli interessano quei film fluidi, lineari, che tendono a spiegare ogni cosa allo spettatore. Con le sue storie ha sempre voluto fare altro: sorprendere, prendere in contropiede il pubblico e usare la paura come uno strumento. “La valle dei sorrisi” è un racconto solido, ben costruito, che non cerca di scimmiottare gli americani, ma che, anzi, è in grado di trovare una sua direzione. Una, per così dire, profondamente italiana. I film di genere, spiega Strippoli, possono essere una risorsa, proprio perché permettono di affrontare argomenti diversi, talvolta di stretta attualità. Nel caso dell’horror, la paura è la chiave di volta. Come nasce il suo rapporto con l’horror? Nasce durante la mia adolescenza. O meglio, si è consolidato durante l’adolescenza. Ho avuto la fortuna di andare al cinema molto presto. Mi ricordo ancora il primo film che ho visto in sala, quando avevo poco più di un anno. Mio padre mi aveva portato a vedere “Il gobbo di Notre Dame”, e mi sono spaventato tanto. Ricordo la paura che ho provato, e la paura in un certo senso è diventata un sentimento nobile per me. L’ho sempre cercata. Uno dei film che cito spesso, quando parlo di horror, è “Biancaneve e i sette nani”. Perché? Perché “Biancaneve e i sette nani” ha uno degli stacchi di montaggio più spaventosi della storia del cinema, quando da Biancaneve, che prepara serenamente la torta di mele, passiamo all’immagine della strega alla finestra. Senza preparazione, senza nessuna gradualità. Di colpo, ci ritroviamo davanti a quell’immagine ed è veramente paurosa. Per me si tratta di uno degli stacchi più belli che hanno a che fare con la paura. E quando ero piccolo, amavo quel film. Soprattutto amavo quella scena. Chiedevo ai miei genitori di riavvolgere la videocassetta per poterla vedere e rivedere. E in adolescenza, invece? In adolescenza, come le dicevo, il mio rapporto con l’horror si è consolidato. L’ho sempre trovato un genere catartico. Mi ha formato come persona. Non credo che gli horror si vedano solo per provare paura, ma soprattutto per liberarsene. Nel cinema horror c’è sempre un momento di rilascio ed è una delle emozioni più belle che si possano provare al cinema. Di stacchi come quello che citava prima, senza mediazione e abbastanza netti, ce ne sono diversi ne “La valle dei sorrisi”. È una cosa che mi è rimasta dentro e che provo a riproporre nei miei film. Non amo particolarmente la fluidità narrativa. Credo che molto spesso sia una mancanza di coraggio. Quando devi far vedere qualcosa di importante e di disturbante, è sempre meglio non preparare lo spettatore. Quando invece succede, per me è un problema. A volte si tende a prediligere la fluidità narrativa alla sorpresa. E non solo nell’horror, ma nel cinema in generale. Un film, per quanto mi riguarda, deve essere inaspettato. Odio i film dove posso prevedere la direzione sia a livello della storia che a livello di immagini. Dove nasce l’idea per “La valle dei sorrisi”? Io vedo la figura del santo come una sorta di figura supereroistica, soprattutto in questo film. E il supereroe è un essere tragico, perché ha un potere che deve imparare a gestire e che – mi perdonerà la citazione “spidermaniana” – porta delle responsabilità. Per me era interessante dare questo carico di responsabilità e questo potere estremamente difficile da gestire a un adolescente, che dovrebbe trovare una sua strada nel mondo ma che, nel caso de “La valle dei sorrisi”, non può perché sono stati gli altri a trovarla per lui chiamandolo salvatore e angelo. Quel potere meraviglioso si rivela essere una gabbia. E quando decide di usarlo per liberarsi, esplode. Ed esplode spinto dalle pulsioni che qualsiasi adolescente prova. Era importante per lei riflettere sull’adolescenza? Assolutamente, e infatti l’adolescenza è centrale in questo film. Se il protagonista non fosse stato un adolescente, il racconto avrebbe preso una direzione completamente diversa. La crisi arriva perché un adolescente si sente in gabbia e, alla fine, esplode. L’adolescenza è un periodo estremamente conflittuale. Non condivido quella visione che la ritrae come una cosa patinata e pacifica. Un altro elemento centrale ne “La valle dei sorrisi”, ma più in generale nell’horror, è il corpo: la sua fisicità, come cambia, come si trasforma. E in questo senso si parla anche di abuso. Un abuso che si fa fatica a inquadrare come tale, proprio perché viene perpetrato da un adolescente che a sua volta è stato abusato. “La valle dei sorrisi” è anche un film sul rapporto tra padri e figli? Soprattutto è un film che si concentra su due visioni diverse di genitorialità. Mi spiego. Da una parte abbiamo un padre che riconosce la vera natura di suo figlio e che è pronto a fermarlo, rinunciando al proprio ruolo. Dall’altra parte, invece, abbiamo un padre che non vuole fermare suo figlio, perché è convinto che vada protetto a qualunque costo. Come ha trovato il paese dove ambientare la sua storia? In realtà, non è un unico paese. È un collage, diciamo così, di posti diversi che si trovano su due montagne diverse del Friuli-Venezia Giulia: una al confine con la Slovenia, nella zona di Tarvisio, e l’altra nella zona di Sappada, che confina con il Veneto. Volevo avere una parete di roccia con cui poter contenere questo paese. Un po’ come in un abbraccio. E gli abbracci sono il simbolo di questo film. Un simbolo ambiguo: tanto terapeutico, di protezione, quanto di costrizione. Volevo che questo paese non diventasse la Pleasantville di turno; volevo che fosse un paese caratterizzato da una certa italianità. Per me era fondamentale che si sentisse. Questo è, e lo dico in maniera abbastanza fiera, un horror italiano. E il paese in cui è ambientata la storia è un paese in cui possiamo capitare. Quanto sono importanti le voci e i suoni? Tantissimo. Io sono ossessionato dal lavoro del suono in quello che faccio. Nel genere, i suoni sono indispensabili. Hanno bisogno di una cura e di uno spazio di ricerca artistica che se manca rischia di rendere incompleto il film. E le voci, invece? Penso al lavoro che ha fatto Romana Maggiora Vergano, che ha un timbro praticamente irriconoscibile. Romana è un’attrice meravigliosa. Ha capito che non bastava indossare una giacca di pile per diventare il suo personaggio; ha studiato, si è impegnata, ha sviluppato un suo accento veneto. E ha incarnato il suo personaggio anche da un punto di vista vocale. Perché in Italia è così difficile fare film di genere e, più nello specifico, film horror? Perché non si fanno in maniera continuativa da almeno vent’anni… Anzi, direi trenta. Abbiamo un problema di natura culturale, piuttosto recente, con il soprannaturale. Insomma, non è l’horror di per sé il problema. Ma è il modo in cui viene visto un certo cinema italiano. Non so dirle con precisione quale sia il motivo. Anche perché non credo che sia uno solo. C’entra sicuramente la disabitudine. Raccontare il soprannaturale significa raccontare storie che parlano di noi, del nostro presente, di quello che siamo diventati. Come ha trovato Giulio Feltri, l’attore che interpreta il protagonista? Dopo un lungo street casting, fatto soprattutto in Nord Italia. Non riuscivo a trovare un adolescente adatto al ruolo, capace di incarnare quello che volevo. È stata la casting director, Anna Pennella, che l’ha scoperto a uno spettacolo teatrale di allievi attori. Quando l’ha visto, mi ha immediatamente contattato. Io mi fido molto di lei. L’ho conosciuta grazie a Francesco Gheghi. Giulio ha fatto quattro provini, molto intensi, prima di essere confermato. E ho capito che oltre ad avere questa caratteristica da mutaforme, con occhi dolcissimi e un fisico che si sta sviluppando, ha anche un’intelligenza emotiva e una sensibilità superiori a quelle dei suoi coetanei. Sono due elementi estremamente importanti, questi. Soprattutto quando devi affrontare temi come la sessualità. In Giulio ho trovato una persona molto disponibile e capace di sopportare il peso del ruolo. Un’altra caratteristica fondamentale de “La valle dei sorrisi” è l’utilizzo del trucco. Ho preferito ridurre al massimo gli effetti digitali, anche per mio gusto personale, e puntare tutto su quelli pratici. E poi ho scelto di non utilizzare un dummy nella scena finale. Ho preferito lavorare con gli attori. Un dummy mi avrebbe dato maggior controllo, ma io cercavo una naturalezza diversa, più concreta. Qual è il punto di partenza quando si vuole girare un horror? Per esempio, come costruisce l’atmosfera giusta per il set? Io lavoro molto con la musica e soprattutto provo con gli attori prima di iniziare a girare. Questo, chiaramente, dipende anche dalla produzione. Ho avuto un budget contenuto, che mi ha comunque permesso di fare tutto quello che avevo in mente. E poi ho avuto la fortuna di lavorare con attori talentuosi, estremamente coinvolti e disponibili. Per me è indispensabile trovare l’atmosfera migliore. Giro di meno, faccio meno ciak, ma quando giro ho la sicurezza di ottenere quello che cerco.

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Gianmaria Tammaro