Frankenstein al cinema, tra Whale, Mel Brook e Del Toro i film imperdibili sul mostro

Frankenstein al cinema, tra Whale, Mel Brooks e Del Toro i film imperdibili sul mostro Il mito che non muore mai Ci sono storie che non appartengono a un’epoca ma a tutte. Frankenstein è una di queste: nato nel 1818 dalla penna febbrile di Mary Shelley, continua a mutare forma e a specchiarsi in ogni epoca. È il mito dell’uomo che vuole sostituirsi a Dio, ma anche quello della creatura rifiutata che cerca amore. A seconda del tempo, può essere gotico romantico, horror espressionista, satira pop o melodramma politico. E come ogni mito che resiste, cambia maschera ma non perde la sua sostanza: la paura dell’abbandono e il desiderio di riconoscimento. Frankenstein , l’urlo che inventò l’horror James Whale dirige per la Universal quello che diventa il manifesto del cinema gotico. Boris Karloff, sotto il trucco di Jack Pierce, con fronte alta, bulloni e sguardo smarrito, entra per sempre nell’immaginario collettivo. “It’s alive!” non è solo un urlo di nascita, ma il grido con cui il cinema horror trova la sua voce. È un film che parla alla Grande Depressione: un mondo che ha perso certezze e guarda a un mostro come simbolo di diversità e paura. Whale, regista raffinato e ironico, fa convivere l’espressionismo tedesco con il melodramma americano. L’iconica scena del mulino in fiamme non è solo spettacolo, ma allegoria della società che brucia ciò che non capisce. La moglie di Frankenstein , l’eleganza della tragedia Due anni dopo, Whale sorprende tutti con un sequel che molti considerano persino superiore. Qui la creatura di Karloff non è più soltanto un corpo animato, ma un’anima ferita che desidera affetto. La sposa, interpretata da Elsa Lanchester, è forse il personaggio femminile più iconico dell’horror: acconciatura fulminata, sguardo fiero e subito respingente. Nasce per essere compagna, ma diventa rifiuto. La scena finale, in cui la creatura sceglie l’autodistruzione, è struggente come una tragedia greca. Whale inserisce ironia e satira, ma resta fedele al cuore romantico: il mostro è umano perché sa amare, e proprio per questo soffre. La maschera di Frankenstein , la rinascita gotica della Hammer Il mito si risveglia nell’Inghilterra del dopoguerra grazie alla Hammer Film Productions. Terence Fisher, regista cardine della casa, trasforma Frankenstein in un gotico barocco, pieno di sangue e colori saturi. Peter Cushing è un Barone elegante e glaciale, capace di inquietare più della creatura stessa. Christopher Lee, con i suoi 198 cm, indossa il trucco di Phil Leakey e diventa un mostro spaventoso, lontano dalla malinconia di Karloff. Qui il terrore non nasce dalla pietà ma dall’orrore puro: corpi smembrati, cervelli rubati, occhi cavati. È un Frankenstein che parla alla Guerra Fredda, in cui la scienza è promessa e minaccia, progresso e abisso. Il mostro è in tavola… Barone Frankenstein , la blasfemia secondo Warhol Prodotto da Andy Warhol e diretto da Paul Morrissey, è forse il Frankenstein più scandaloso. Necrofilia, incesto, sangue in 3D: il barone, interpretato da Udo Kier, sogna di creare una razza superiore, e lo fa con un furore che sfocia nell’eccesso trash. Girato anche con la supervisione tecnica di Antonio Margheriti, mescola orrore e pornografia, kitsch e filosofia. È un Frankenstein postmoderno, che smaschera la sete di potere e la decadenza del corpo. Se Whale e Shelley parlavano di amore e solitudine, qui il mostro diventa simbolo della società dei consumi, che ingoia e sputa cadaveri come prodotti da laboratorio. Demoni e dei , il canto finale di James Whale Con Demoni e dei, Bill Condon non racconta il mostro, ma chi gli ha dato forma. James Whale, interpretato da un Ian McKellen di lancinante delicatezza, è un vecchio regista piegato dalla malattia e dai ricordi, che cerca negli ultimi giorni un riflesso di bellezza, un giovane giardiniere come ultimo specchio di desiderio e di vita. Il film è memoria che sanguina: la guerra, i fantasmi, il peso delle immagini che non smettono di perseguitare. Whale osserva la sua creatura e vi scorge se stesso: orfano di amore, marchiato dalla diversità, capace di creare mondi e insieme incapace di salvarsi. Il titolo è un epitaffio perfetto: Gods and Monsters. Whale fu dio e mostro, artefice e vittima. Il suo cinema inventò icone, ma il suo cuore restò una ferita scoperta. Questo film ci ricorda che ogni Frankenstein è un autoritratto: un mostro nato dal dolore del suo creatore. E che a volte, dietro la maschera di dio, c’è solo un uomo che non vuole più combattere contro i propri demoni. Dal mito a Del Toro: un mostro in Mostra Oggi il cerchio si chiude. Guillermo del Toro, con il suo Frankenstein presentato a Venezia 82 e presto su Netflix, riporta il mito nell’olimpo del cinema gotico. Dalla malinconia di Karloff al sorriso amaro di Brooks, dagli eccessi della Hammer alle visioni di Warhol, il mostro è passato attraverso i secoli senza perdere la sua forza. Frankenstein è l’uomo che cerca amore, lo scienziato che gioca a fare Dio, il diverso che non trova posto. È il mostro che ci guarda ancora, che non smette di risorgere, che continua a dirci: “È vivo!” — ed è la vita, imperfetta e spezzata, a renderlo eterno.

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Paolo Nizza