Il bambino nascosto, la recensione del film in prima tv su Sky e NOW

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Alessio Accardo

Roberto Andò dirige Silvio Orlando nell’adattamento cinematografico del suo omonimo romanzo.  Presentato al Festival di Venezia,  un dramma ambientato a Napoli. In prima tv su Sky Cinema Due e NOW. Disponibile anche On demand

Presentato fuori concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, dal 10 aprile 2022, sui canali Sky Cinema, arriva Il bambino nascosto diretto da Roberto Andò, che ha scritto la sceneggiatura ricavandola dal suo omonimo romanzo. Un dramma esile e scabro ma vibrante di indignata passione civile, come erano i romanzi di Leonardo Sciascia, che è stato non a caso il mentore del regista palermitano (anche scrittore, saggista, romanziere, regista teatrale e di opere liriche e che al cinema ha già diretto pellicole come Viva la libertà e Una storia senza nome).

 

Scruta la vita degli altri il professor Gabriele Santoro, da dietro le tende delle sue imposte, lui che una vita quasi non ce l’ha; abituato a vivere “fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani”, quasi fosse il pensionato di Guccini, quello che “apre persiane e tira tendine”, tra “mobili che non han visto altri splendori”, che qui si riempiono di spartiti musicali e dischi di musica classica. Scruta la vita brulicante dei Quartieri spagnoli, vitale e criminale; lui che ha sempre condotto una vita retta e ordinata, tutta giocata tra casa e il Conservatorio di Napoli dove insegna. Una vita ordinaria, nella quale il maestro di pianoforte ha messo la sordina ai propri sentimenti, quasi costringendoli nel pentagramma delle sette note che gli danno da vivere e gli permettono di sognare. E manda a memoria poesie, come Itaca del poeta greco Konstantinos Kavafis, che è già una sorta di carta d’identità o un ottimistico manifesto d’intenzioni: "Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure ed esperienze".

Al postino che gli consegna un pacco, apre la porta schivo e guardingo, ma non abbastanza da non lasciare aperto uno spiraglio per sciacquarsi il sapone da barba dal viso. In quello spiraglio si infila il bambino del titolo, che irrompe nella vita placida e solitaria del professore, sconvolgendola. E dando la stura alla trama.

Ciro, così si chiama, ha scippato la madre di un capo-clan fino a metterne a rischio la vita, perciò si nasconde: è braccato dalla camorra, che si insinua ora anche nella vita del “maestro”, come lo chiamano tutti nel quartiere, con modi ora perfidamente cortesi ora scopertamente minacciosi. Però lui non cede: per la prima volta in vita sua ha l’opportunità di essere il padre putativo di quel figlio che non ha mai avuto, di uscire da un universo solipsistico soltanto apparentemente soddisfatto di sé. Perché, come gli rimprovera il fratello, interpretato da un credibile Gianfelice Imparato, il professore “pensa sempre agli affari suoi, perché odia la famiglia”. Oppure, come sentenzia suo padre, un ex giudice in pensione interpretato da Roberto Herlitzka, perché “è un protestante nel luogo sbagliato, che vive intensamente solo le sue fantasie”. Ma non stavolta, stavolta Gabriele Santoro sceglie di difendere quel bambino sconosciuto dalle insidie della malavita, dandosi a un coraggio che forse non ha.

È l’incontro con l’altro da sé: tanto il maestro è pacato e apparentemente imbelle quanto lo scugnizzo a cui fornisce riparo è bellicoso e ribelle. Uno dei tanti ragazzi perduti nel ventre criminale di Napoli, pronti a ingrassare le “paranze dei bambini” raccontate da Roberto Saviano nel suo romanzo omonimo; due volte vittime di un mondo violento, forse irredimibile. Un enfant sauvage cresciuto a pistole e gangsta-rapper partenopei, che reiterano ritmicamente grida di battaglia impavide e arroganti: “non teng’ paura ‘nisciuno” (refrain che diverrà, nel corso del tempo, mantra e karma di questo piccolo eroe suo malgrado). Carne da macello di una faida endemica che sacrifica anche i più giovani e indifesi sull’altare di una incomprensibile guerra tra poveri. È quel che emerge dalle agghiaccianti gesta criminali di cui Ciro dice di esser stato testimone da sempre, pervia di una “mala educacion” tutta  dentro una vita violenta.

Ma è proprio il mostruoso vitalismo di quel piccolo uomo già così esperto di cose di malavita - quel bambino che gli grida in faccia con la sicumera di un adulto frasi come “ma come mai non ti sei mai sposato? Non ti ha voluto mai nessuno perché sei troppo acido?” - a fare breccia nel cuore dell’anziano professore. È quella sua minuscola nemesi che gli consente di guardarsi allo specchio e di assegnarsi un compito così temerario: difenderlo dalla condanna a morte della mafia.

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Più precisamente la camorra che è interpretata da due volti iconici dell’audiovisivo nostrano come quello di Lino Musella, che nelle prime due stagioni di Gomorra – La serie. Interpretava “'o Nano” il migliore amico di Ciro Di Marzio; qui è Diego, piccolo caporione di quartiere, tanto mellifluo quanto infido. E Salvatore Striano, ex detenuto che grazie al teatro prima e al cinema poi (è stato interprete di Gomorra di Matteo Garrone e di Cesare deve morire dei fratelli Taviani), si è da tempo reinserito nella società, e che in questo film interpreta il padre disperato e forse degenere del bambino nascosto.

Interessante caso di “miscasting” quello che riguarda Francesco Di Leva, interprete di tanti boss di celluloide in film drammatici e comici, da Il sindaco del rione Sanità a Benvenuti a casa Esposito, che qui recita la parte del compagno del professore, il quale è dunque un omosessuale che parrebbe però vivere con qualche disagio la sua condizione sentimentale (come in definitiva tutte le sue relazioni interpersonali).

Il film di Andò si regge per lo più sulle spalle del suo protagonista, un Silvio Orlando ormai talmente maturo da poter esprimere tutto il ventaglio delle emozioni umane grazie a un uso sapiente e misuratissimo della sua micromimica facciale: se aggrotta la fronte vuol dire che è preoccupato, se un sorriso minimo gli increspa il viso sta probabilmente sperando di trovare una luce improbabile in fondo al tunnel di questa storia tragica. Accanto a lui non sfigura il decenne Giuseppe Pirozzi, dotato di una naturalezza sbalorditiva anche se piuttosto facile a trovarsi nei giovani napoletani.

I due attori, e i loro personaggi, danno vita a un duetto accordatissimo pur in un contesto così disperatamente stridente: interpreti di una asciutta vicenda edificante dentro a un mondo in perenne disfacimento.

Senza spoilerare possiamo dire che il finale del film assomiglia a un’altra canzone di Guccini, Il vecchio e il bambino, per chi se la ricorda, quella che chiudeva così: “Mi piaccion le fiabe, raccontane altre” Una fiaba tragica e amara quella de Il bambino nascosto (come del resto era anche quella di Guccini), che come tutte le fiabe ci aiuta a rendere tollerabile ciò che tollerabile non è mentre ci esorta contemporaneamente a vincere pigrizie e paure per rendere almeno un po’ migliore quel che di orribile accade sotto i nostri occhi, davanti alle nostre finestre.

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