Il terzo film del regista napoletano (L'Arte della felicità e Gatta Cenerentola) è un altro gioiello del cinema italiano d'animazione. "Una piccola ballata" tra tematiche ambientali e ambientazioni che giocano con l'immaginario dei manga e degli anime
“Quelli nati alla fine del mondo, nati sbagliati che fanno sogni sbagliati”. Yaya e Lennie sono due spiriti liberi, una ragazza sveglia e sboccata dallo spiccato accento napoletano e un ragazzone grande e grosso, apparentemente disabile mentale e con negli occhi tutto lo stupore della vita. Sono loro i protagonisti dell’ultimo gioiello di Alessandro Rak, talento purissimo del cinema italiano, giunto con Yaya e Lennie – The Walking Liberty al suo terzo film d’animazione dopo L’Arte della felicità (2013, Best European Animated Feature Film agli European Film Awards) e Gatta Cenerentola (2017, 2 David di Donatello, un Ciak d’Oro, un Nastro d’argento, una candidatura agli Oscar).
Yaya e Lennie – The Walking Liberty, prodotto da Mad Entertainment e Rai Cinema, sarà al cinema il 4-5-6-7 novembre. un racconto di libertà e di amore nel suo senso più completo. È una storia ambientata in un futuro distopico non troppo lontano, in un luogo che in un commovente finale si rivela essere estremamente vicino, tra la vegetazione fitta di una giungla bella come le lucciole e pericolosa come un branco di cani randagi affamati e rabbiosi, e una città cresciuta a dismisura fino a divorare se stessa, industrializzata fino allo spasimo, retta da una dittatura militare – l’Istituzione – che incasella le persone con numeri di matricola e compiti prestabiliti, strappando i bambini alle madri perché i bambini sono il futuro dell’Istituzione.
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Yaya (doppiato da un bravissimo Ciro Priello) e Lennie (che ha la voce della giovane attrice Fabiola Balestriere) sono anarchici. Cresciuti dagli insegnamenti di zia Claire, non hanno alcuna intenzione di farsi catturare. Scappano e nella loro fuga incrociano una serie di personaggi secondari altrettanto azzeccati, a partire dalla banda di Rospoleón (Francesco Pannofino), un rivoluzionario a metà tra Don Chisciotte e Che Guevara, che va in giro a dorso d’asino, con una bandiera argentina a fargli da mantello e un tatuaggio di Maradona sul braccio sinistro. Una truppa sgangherata e gioiosa, perché se è vero, come diceva Mao, che la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è detto non possa essere una festa danzante e colorata a ritmo di musica.
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Funziona tutto in Yaya e Lennie – The Walking Liberty. La texture dei disegni, che ancora una volta, come nello stile di Rak, rifugge la perfezione patinata della computer grafica disneyana, dando allo spettatore la sensazione di trovarsi davanti a una pagina stampata su carta ruvida. Le ambientazioni, che mischiano scorci amazzonici con l’immaginario post apocalittico di manga e anime giapponesi, omaggiando Hayao Miyazaki con un poster di Conan il ragazzo del futuro che si vede appeso alla parete di una casa in mezzo alla foresta in cui Yaya e Lennie vengono accolti in un momento di svolta del film.
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E funziona, in modo particolare, anche quel senso di malinconica nostalgia preventiva che Rak sembra volerci trasmettere con la sua galleria di oggetti perduti, tra i quali vediamo il robot giocattolo Emilio, le locandine di Ritorno al Futuro II e Stranger Things, una copia di Io speriamo che me la cavo piazzata giusto una mensola sotto un volume dell’Enciclopedia Treccani. E una splendida e quanto mai funzionale citazione de Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin.
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Tema ambientale e desiderio di libertà si intrecciano nell’arco di tutto il film col racconto del rapporto particolare tra i due protagonisti, una strana coppia che nonostante tutto riesce a funzionare, così come forse non è troppo tardi per far convivere la spinta al progresso tecnologico e le necessità ecologiche sempre più impellenti e di attualità. C’è tanta testa e tanto cuore in Yaya e Lennie, una fiaba per bambini grandi e per grandi che non hanno mai smesso di essere bambini, “niente più che una storiella, una piccola ballata”, per dirla con le parole di Rak. Ma che storiella. E che ballata.