Tra omaggi a Godard, Fellini, Welles e Bergman e domande esistenziali, la commedia del regista americano è una lettera d'amore nei confronti del cinema . In sala dal 6 maggio
E’ facile cadere nella tentazione di definire l’ultimo film di Woody Allen, Rifkin’s Festival, da lui scritto e diretto, che esce finalmente il 6 Maggio, con un semplice gioco di parole: il sogno di un cinefilo. Innanzitutto letteralmente: perché il protagonista, Wallace Shawn, ha un’intensa attività onirica in cui rivive i grandi classici del cinema. E poi, in modo meno didascalico: perché il regista ottantacinquenne, che ha ambientato la pellicola proprio al festival del cinema di San Sebastian, l’ha evidentemente realizzata come un omaggio allo zoccolo duro dei suoi fan. Fan per lo più europei e indifferenti alle accuse riemerse nei suoi confronti, che, colti e fedeli, si identificheranno con il protagonista, derideranno assieme a lui la parte più becera del mondo dell’industria del cinema, coglieranno l’occasione per una sana autoironia ed infine cercheranno, come negli storici film di Allen, un rifugio alle domande esistenziali nella fantasia e nell’arte
Wallace Shawn è Mortimer Rifkin, ex professore di cinema, nevrotico e cerebrale, come si addice a tutti gli alter ego di Allen, alla ricerca dell’ispirazione per scrivere il libro definitivo, quello che passerà alla storia come un capolavoro. Lo incontriamo seduto sulla poltrona dell’analista, ma presto seguirà la statuaria moglie Sue (Gina Gerson) al festival di San Sebastian, in Spagna. “Amavo i festival”, ci informa subito Mortimer\ Allen, “ma quando il cinema era arte”. Più tardi, con la tipica vena dissacratoria del regista, sentiremo dire del protagonista che “guarda con sospetto qualunque film che intrattenga o faccia un profitto” ed è con questa malcelata avversione al mondo contemporaneo del cinema che lo troviamo catapultato a San Sebastian. In effetti al suo arrivo, testa sempre più incassata nelle spalle, come una testuggine al seguito della bella e affaccendata moglie PR, siamo accolti dalla caratteristica mercenaria dell’industria: quando, en passant, sentiamo un produttore dire ad una bella e procace bionda che sarebbe perfetta nei panni di Hannah Arendt.
Mortimer detto Mort non sarebbe lì se non per tenere d’occhio quella che potrebbe essere più di una relazione professionale tra la moglie e il regista del momento, il francese Philippe, interpretato da Luis Garrel: un acclamato e affascinante giovane autore il cui profluvio di luoghi comuni ( “vado a vela perché il mare è l’unico posto dove mi sento libero “) è accolto come rivelazione dalla stampa adorante e che promette, con il suo prossimo film. di risolvere autonomamente la crisi Israele-Palestina.
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Ed è qui che inizia il festival di Rifkin, quello che Mort Rifkin vive nella sua testa; quando ad occhi aperti, o dormendo, scivola in uno stato onirico e diventa protagonista delle pellicole che, per lui, sono cinema e arte: Orson Wellls, Fellini, Godard, Bunuel, Bergman, Truffaut. Classici della storia del cinema, prevalentemente europei, come i gusti del protagonista cine-snob, che il pubblico si divertirà a riconoscere. Resi in bianco e nero dall’abile mano del DP sodale d Woody Allen, Vttorio Storaro, e sempre, ovviamente, declinati in chiave comica. Nei primi 10 minuti siamo già trasportati dentro a Quarto Potere, dove la famosa slitta Rosebud è ribattezzata Rose Budnick, in una versione molto ebrea New-Yorchese del famoso incipit di Orson Welles; o in una sequenza alle terme alla 8 e 1/2, dove Mort reincontra tra l’altro i suoi genitori e il rabbino. Porgendo cosi il fianco ad un altro tema caro ad Allen: Dio e la sua (non) esistenza.
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Chi ama Allen amerà Rifkin’s Festival proprio perché ci ritroverà tutti i temi noti del regista. Così agli equivoci matrimoniali presto si aggiunge l’ipocondria di Mort, che lo porterà a visitare un cardiologo, Jo, che si rivelerà essere Joana: una donna affascinante (Elena Anaya) oltre che apparentemente l’unica persona in grado di cogliere la vacuità del giocane regista. Il matrimonio della cardiologa con il pittore fedifrago Paco, (Sergi Lopez) è in crisi: ecco quindi un altro fattore di confusione, sogno, speranza e possibilità di ridistribuzione degli elementi della coppia. L’incontro con la bella dottoressa, come già avvenuto per i suoi altri film europei, (To Rome With Love, Midnight in Paris, Vicky Cristina Barcelona) diventa anche il pretesto per un tour della città di San Sebastian: partendo dall’epicentro del festival: l’hotel Maria Cristina fino all’incantevole villaggio di Pasaia e al suo mercato dell’antichità, passando per parchi, giardini, spiagge e calles.
A questo peregrinare si affianca l’incessante ricerca esistenziale di Mort, la stessa che lo aveva portato sul lettino dell’analista: “ma la vita è tutta qui?” E finalmente, dopo 49 film, una risposta alla sua ossessione per la morte Woody Allen ce la fa consegnare da Christoph Waltz ,in un ruolo che non vi possiamo rivelare, intervenuto per evitare che questo povero sciocco che è Mort, ma che è anche Allen, ma che siamo anche noi, continui a rovinarsi la vita pensando all’Inevitabile.