Paolo Virzì racconta le sue Notti magiche: l'INTERVISTA

Cinema

Gabriele Acerbo

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Arrivano al cinema le Notti magiche di Paolo Virzì, un film con più livelli di lettura, un film ricco di aneddoti, storie e vita. Il regista toscano ce ne parla in questa intervista realizzata in occasione della sua partecipazione a Cinepop

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Ma come è Notti magiche, il quattordicesimo film di Paolo Virzì che esce oggi in tutta Italia? Sicuramente fa parte di quel gruppo di opere del regista livornese che potremmo definire “autobiografiche col trucco” in cui Virzì usa spregiudicatamente fatti della sua vita per creare materia narrativa incandescente. A differenza di Ovosodo e La prima cosa bella non siamo più a Livorno: ci siamo trasferiti nella decadente Roma cinematografica che Virzì conobbe a vent’anni, la stessa età dei tre protagonisti di Notti magiche, geniale orazione funebre intorno al cadavere del cinema italiano. In effetti il morto c’è ed è pure un produttore di film, precipitato in fondo al Tevere nella notte in cui  l’Argentina sconfigge l’Italia ai Mondiali di calcio del '90. E chi sono a finire sotto accusa? Tre giovani sceneggiatori di belle speranze appena entrati in contatto col mondo magico e cialtrone della settima arte: un toscano esuberante, un intellettuale del Sud e una problematica alto-borghese romana. Alter-ego del trio Virzì-Archibugi-Piccolo, gli autori del copione di Notti magiche? Forse sì, forse no. E sarà forse Michelangelo Antonioni quell’omino che in trattoria mangia da solo e da anni non parla più, ma che ha un debole per le belle ragazze di Piombino? E mica sarà Furio Scarpelli, il maestro di Virzì, quel Fulvio che insegna ai suoi discepoli che per prendere ispirazione si debba guardare alla finestra? Chi può dirlo? Perché Notti magiche è un gioco di specchi: nel prendere in giro con affetto e sarcasmo il mondo del cinema, Virzì confonde vero e falso, divertendosi perfino a citarsi addosso (la scena in fabbrica di Ovosodo con gli stessi attori di allora, il pulmino di Villa Biondi uscito diritto da La pazza gioia). Per godersi al meglio Notti magiche, visto che è pieno zeppo di personaggi, aneddoti, scene madri, il consiglio è di vederlo almeno due volte. Tra l’una e l’altra visione, potrebbe far comodo leggere questa nostra conversazione col regista.

Sei partito per Roma nel 1985 e hai vissuto molte vicende che sono raccontate nel film, anche se hai spostato tutto nell’estate del 1990, nella notte delle semifinali dei Mondiali. Che epoca era per il cinema italiano?
Eravamo durante lo struggente e interminabile crepuscolo di quella generazione di gloriosi autori che, a partire dal dopoguerra, aveva fatto grande il cinema italiano. I vecchi maestri erano ancora al lavoro, anche se svogliatamente. Come Dino Risi, che dirigeva Serena Grandi in Teresa la camionista. Quando le incontravo, queste figure da me mitizzate si divertivano a massacrare la mia idolatria. Mi facevano sentire stupido perché consideravo importante il loro lavoro. Volevo raccontare non solo il disincanto e la disperazione di quelle figure che avevo mitizzato, ma anche il rischio di finire nelle grinfie di tanti cialtroni.
Come sei arrivato a trasformare una parte del tuo vissuto in un film?
Avevo in mente uno schema narrativo da grande romanzo francese, pensavo a Illusioni perdute di Balzac e continuavo ad accumulare appunti in cui annotavo episodi capitati a me e ad altri. La voglia di trasformarlo in film nasce, così si ricorda Francesco Piccolo, il giorno dopo i funerali di Ettore Scola. Forse ho desiderato fare un omaggio che fosse una riverenza ma anche un’irriverenza, come d’altro canto mi avevano insegnato i miei maestri. Spesso facevo questi racconti a voce, per esempio di quando mi capitò di conoscere l'antro di Ennio, uno sceneggiatore esageratamente prolifico che lavorava in modo industriale: il suo studio era invaso da giovani che facevano i “negri”, non avrebbero mai firmato un copione e venivano pagati in contanti. E’ successo anche a me, non mi sentivo affatto sfruttato, anzi. La consideravo un’ occasione  per mettere il naso in qualcosa di formidabile.
Qualcuno ha visto in Notti Magiche un desiderio di pareggiare i conti. Ti sei tolto qualche sassolino nella scarpa nei confronti dei tuoi maestri?
Non c'é nessun sassolino, nessuna voglia di critica, anzi se c’ é qualcosa che mi ha fatto impazzire d’ amore per questa professione è proprio la concomitanza tra elementi di raffinatissima poesia accanto a volgarità e oscenità totali. Vivevo in un mondo che sfornava commedie erotiche e film da Palma d’oro, poliziotteschi sgangherati realizzati rimontando materiali di altri film e opere di grande valore civile. Io volevo raccontare a chi non c’era l’epopea della memorabile industria cinematografica italiana. Avventurosa, ridicola e disgraziata.
Dici che hai fatto un film per chi non c’era. Eppure chi ha già visto il film gioca a riconoscere, tra i tanti personaggi, chi è Antonioni, chi Scarpelli o De Bernardi.
Non è un amarcord per chi c'era e che ora si diverte a riconoscere Tizio o Caio, ma per far vivere a chi non c’era l’atmosfera di allora, un’epoca in cui l’unica chance per avvicinare certe coorti inaccessibili era, per esempio, quel che succede ai tre protagonisti di Notti magiche, partecipare e vincere al premio Solinas, perché la giuria era composta dal gotha del cinema italiano. Lo abbiamo fatto sia per chi ha ambizioni in campo artistico sia per chi ha voglia di divertirsi dando uno sguardo su quello che siamo stati. E allo stesso tempo, dal momento che raccontiamo tre persone che stanno immaginando storie per il cinema, descrivere cosa voglia dire scrivere una storia. Prendere la vita e trasformarla in racconto.

 

 

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