Il cinema che non conosci si propone di aiutare a far scoprire quei film “minori” che, per budget o per scelte tematiche, rimangono un po’ nell’ombra mentre meriterebbero di avere spinte promozionali più significative e impulso distributivo più ampio e convinto. Come Wajib-Invito al matrimonio di Annemarie Jacir , in questi giorni al Cinemino di Milano. A seguire la recensione del film.
“Wajib”. Parola che rimanda a un dovere sociale, a una tradizione palestinese. E come tale va mantenuta e rispettata. Tutte le tradizioni palestinesi vanno rispettate. Così come è bene che, chi nasce a Nazareth, ci cresca e ci invecchi. È giusto così. Restare legati alla propria terra e alla propria gente è segno di rispetto e di intelligenza. Perché non c’è luogo migliore. Chi nasce a Nazareth, lavora a Nazareth e si sposa con la sua gente, crea legami e amicizie e, se appartiene alla minoranza cristiana della città, deve accettare di vivere con diritti limitati pur di restare nel suo Paese. Non c’è alternativa. Non perché non ci sia un altro luogo dove andare. Ma perché Nazareth è l’unico luogo possibile in un mondo in cui, fuori dalle mura della città, tutto il resto è altro, estraneo e quindi uguale a se stesso e diverso dall’unica alternativa possibile: Nazareth, appunto. La generazione di Abu Shadi la pensa così. E così se tuo figlio è andato a vivere da un’altra parte, che sia in Italia oppure in America, è la stessa cosa. È comunque un posto estero, estraneo, inferiore. Se si è sposato con una giamaicana o una belga è la stessa cosa. È comunque una ragazza straniera, diversa, quindi peggiore.
Shadi torna da Roma dove lavora ormai da anni come architetto. Torna per il matrimonio di sua sorella. E, poiché torna a Nazareth, deve compiere il “Wajib” con suo padre, così come vuole la tradizione. Consegnare di casa in casa tutti gli inviti per il matrimonio, infatti, è un dovere sociale che gli uomini della famiglia della sposa devono osservare. Ma restare legati così profondamente a usanze che ormai appaiono senza più un senso, non è segno di chiusura? Così come pensare che Nazareth sia il centro del mondo. Una città dove niente funziona. A partire dall’impianto urbanistico complicatissimo, all’inesistente pulizia delle strade, agli edifici costruiti senza la minima attenzione per estetica e ordine. Un luogo dove l’istruzione è ancora un optional per troppe persone e si cresce con la convinzione che l’obiettivo della vita sia sposarsi presto (ovviamente con una donna o con un uomo del posto) e mettere al mondo il maggior numero possibile di figli. La generazione di Shadi non la pensa così. Perché è difficile farsi un’opinione in un luogo dove l’unica opinione possibile è controllata e protetta da solide mura. Solo alcuni la pensano così. Come lui che ha avuto gli occhi aperti sul mondo grazie, o a causa, dell’esempio contraddittorio di una madre che voleva altro. Che è scappata in America. Lontano da tutto. Via da Nazareth.
Due punti di vista. Due visioni del mondo agli antipodi. Due generazioni ormai troppo lontane che si scontrano in un escalation di pathos durante un viaggio on the road tra padre e figlio, tra Abu Shadi e Shadi.