Addio a Philip Roth, la spina nel fianco dell'America

Cinema

Fabrizio Basso

American Pastoral
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Questa sera, alle ore 21 e domani (giovedì 23 maggio) alle ore 13.35, Sky Cinema Cult omaggia Philip Roth riproponendo American Pastoral, il film tratto dal suo romanzo omonimo che nel 1998 gli valse il Premio Pulitzer, diretto e interpretato da Ewan McGregor. Nell'attesa il ritratto di un personaggio scomodo ma necessario per entrare nelle vene dell'America 

(@BassoFabrizio)

Ha attraversato l’America con le sue parole e non si può dire che fossero carezze. Ha dissacrato e consacrato, ha sfregiato le famiglie con terrorismo e sette improbabili, ha ironizzato sul sesso e sull’amore, ridicolizzando i tradimenti e le unioni consacrate. Questa sera, alle ore 21 e domani (giovedì 23 maggio) alle ore 13.35, Sky Cinema Cult omaggia Philip Roth riproponendo American Pastoral, il film tratto dal suo romanzo omonimo che nel 1998 gli valse il Premio Pulitzer, pagine intense che ruotano intorno ai tre capisaldi del suo impianto letterario: morale, sesso religione. E’ di certo il suo libro più popolare e amato, più americano. Ma chi scrive ha altre preferenze, nella ricca produzione di questo ebreo americano, e sono Il lamento di Portnoy, Il teatro di Sabbath, La macchia umana, L’animale morente ed Everyman. Non ottenne mai il Nobel per la Letteratura, e questo è stato negli anni motivo di dilanianti dibattiti tra letterati, accademici e lettori, e nei suoi libri ci sono ampi squarci autobiografici, vissuti talvolta proprio col suo nome e altri con nickname, tra cui quello celebre di Nathan Zuckerman.


ROTH, LE ORIGINI, L'ANATEMA DEL RABBINO E L'ADDIO ALLA SCRITTURA

Una esistenza, quella di mister Philip, attraversata come una nave nella tempesta. E infatti solo un infarto poteva fermare quel cuore indomito, ferito ma mai domo, ribelle verso quel sistema che si è nutrito del suo talento al punto di decidere, nel 2012, di smettere di scrivere e comunicandolo con poche parole più simili a una sentenza che a un pensiero: “La lotta con la scrittura è finita”. Philip Roth nacque nel 1933 a Newark, terra di immigrazione e di stenti, guardata con quel po’ di giusto schifo dalla contigua Manhattan. Lui lì coltivava la sua scrittura che è esplosa con le ossessioni sessuali di Portnoy e dei suoi lamenti, un romanzo ampiamente autobiografico che gli portò soldi e popolarità. Ma anche un ammonimento dalla comunità ebraica. In particolare il rabbino Gershom Scholem lo condannò come “più dannoso dei Protocolli dei Saggi di Sion”.


AMORI, DIVORZI, FUGA A LONDRA E IL RITORNO A CASA

Possiamo dire che, tolta la giovinezza, la vita, umana e letteraria, di Roth si divide in due immensi capitoli e nei suoi mille paragrafi. In America ci sono due matrimoni e due divorzi, tanti racconti che parlano di lui, poi fugge in Inghilterra ipnotizzato dalla malia dell’attrice Claire Bloom. Ma l’Oceano per lui non è come per Cristoforo Colombo un viaggio verso l’ignoto, per lui è nostalgia, melanconia per quell’America sulla quale ha versato tanto inchiostro e tanto acido. E allora torna indietro, si spolvera di quell’autobiografismo che lo ammanta, e comincia a leggere i vizi e le virtù della contemporaneità. E, per sua ammissione, è arduo trovare il bello. E si chiama coerenza. Le sue pagine sono angoscianti per i temi ma luminose per lo stile di scrittura. Grazie al poeta Alberto Prandi che ha convogliato chi scrive nell’universo di Roth e in quella sua visione dell’America limpida ma disincantata. Più realismo e meno American Dream. E a lamentarsi non è, non sarà, solo Portnoy ma più generazioni unite da questo ebreo dallo sguardo picaresco.

 

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