E vissero felici e contenti: l’happy ending nella cultura pop

Cinema
Indizi di felicità, il documentario diretto da Walter Veltroni in arrivo su Sky Cinema

Nella nostra società la felicità è diventata uno status symbol da sbandierare sui Social Network e in giro per strada. Dalle fiabe ai film, dai libri ai videogiochi, passare al vaglio tutti i prodotti che hanno contribuito a rafforzare il mito della felicità trasformandola in El Dorado 2.0 aiuta a capire quanto la gioia sia protagonista della cultura occidentale. Aspettando l’attesissimo documentario Indizi di felicità diretto da Walter Veltroni in arrivo su Sky Cinema

di Camilla Sernagiotto

 

Il famigerato “C’era una volta” va a braccetto con “E vissero felici e contenti” nel mondo delle favole.

Ma anche nel mondo non certo favoloso della realtà circostante l’happy ending è fondamentale.

 

Si tratta di un finale con il botto che in verità finale non è, dato che la felicità che l’uomo ostenta a destra e a manca è semmai un gioiello da sfoggiare quotidianamente, sperando che faccia inverdire dall’invidia il vicino e la sua erba giallastra di bile.

 

Se da un lato la gioia è diventata un mero accessorio da mostrare come status symbol, dall’altro c’è chi ancora la crede una delle gioie più preziose della parure umana.

Tra questi ci sono senza dubbio i tanti individui intervistati in Indizi di felicità, l’attesissimo documentario di Walter Veltroni in arrivo su Sky Cinema, prodotto da Sky Cinema in collaborazione con Palomar.

Sullo schermo si dipana un dialogo quasi filosofico ma al contempo semplicissimo che con delicatezza unita a profondità di pensiero esplora uno dei concetti meno tangibili che esistano: la felicità, appunto.

 

Si può confondere con l’apatia, con l’atarassia, si può addirittura identificare nella mancanza del dolore: insomma, il tema che è stato omaggiato da tanti filosofi epicurei nonché da Al Bano e Romina Power ha moltissime sfaccettature, dipende sempre dal punto di vista di chi ne parla e dalla mezza pienezza oppure vuotezza del suo bicchiere.

 

Oltre a essere stato un tema parecchio dibattuto in materia filosofica, la suddetta emozione umana è assai gettonata anche nella cultura pop che contraddistingue lo scorso secolo e quello attuale.

Dai film ai libri, dai videogiochi alle pubblicità, non c’è prodotto culturale che non abbia omaggiato la felicità.

Parola di Al Bano e Romina.

 

Ma perché le sette note, le ventuno lettere, i frame e le sequenze sottostanno da sempre alla legge della gioia?

Perché prima del ritornello finale, dei titoli di coda, del glossario, dei ringraziamenti e del cartello THE END deve sempre fare capolino lei?

 

Semplice: perché la felicità è il deus ex machina delle nostre vite, che non si differenziano poi tanto dalle trame delle commedie plautine.

 

Dall’archetipo degli emoticon, ossia lo smile anni Ottanta, allo schema di Propp delle favole russe (e delle favole in genere), il sorriso è la conditio sine qua non della condizione umana.

Proprio questi prodotti della cultura popolare hanno contribuito a rafforzare il mito della felicità e a trasformarla in Eden 2.0.

È come se il Paradiso verso cui tutti siamo orientati fosse quello in cui lei fa da padrona, alla faccia di chi la considera un qualcosa di puerile, adatto alla tavolozza emozionale dei bambini piuttosto che al carnet di sentimenti propri delle persone adulte.

 

A un primo sguardo la felicità potrebbe effettivamente sembrare un gioco da ragazzi, forse perché l’infanzia non è ancora contaminata dall’erba cattiva che s’insinua dopo, anno dopo anno, Primavera dopo Primavera nel giardino di ciascuno di noi.

E poi perché la felicità è imprescindibile da quello che può essere considerato il prodotto culturale numero uno del mondo puerile: la favola.

 

Da Cenerentola a Cappuccetto Rosso, da Biancaneve e i sette nani a La Bella Addormentata nel Bosco, non c’è storia di cui si siano occupati Vladimir Propp o Walt Disney che non contempli l’happy ending, pena il non essere una storia adatta ai bambini.

 

Ma ogni bambino che si rispetti diventa poi un adulto, motivo per cui la felicità rimane insita nell’animo di ogni essere umano anche quando le più cocenti delusioni hanno già presentato il salatissimo conto (per lo meno quello dello psicanalista); non c’è delusione d’amore, rottura di un’amicizia o scoperta dell’inesistenza di Babbo Natale che sia così devastante da abbattere il mito della Felicità come faro della vita di ciascun uomo.

 

Proprio il celebre schema di Propp basato sulla favola e applicabile a qualsiasi narrazione della cultura occidentale è la base su cui si sono costruiti decenni di cinematografia classica, quella in cui il cartello FINE doveva necessariamente essere intriso di lacrime di felicità anziché di tragica tristezza.

La stessa cosa è successa in ogni campo dell’arte: dalle canzoni Pop che prevedono rime baciate dal sole, cuore e amore alle pubblicità con protagoniste famiglie sorridenti che paiono uscite dai rotocalchi degli anni Cinquanta, la felicità è Die Hard.

Dura a morire, con più vite di un gatto o di Bruce Willis.

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