Ben-Hur: la recensione

Cinema
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Il kolossal Ben-Hur  torna sul grande schermo in un remake del regista Timur Bekmambetov. Nelle sale dal 29 settembre

di Alessio Accardo

A circa 91 anni dal primo dei suoi 5 adattamenti cinematografici, torna in sala Ben-Hur, sinonimo di “mega-produzione hollywoodiana servito da scenari grandiosi e sostenuto da una narrazione magniloquente.” E il motivo risiede nel più celebre dei suddetti adattamenti del libro omonimo di Lew Wallace, il “filmone” girato nel 1959 da William Wyler e interpretato da Charlton Heston; kolossal per antonomasia, a partire dalla durata di oltre tre ore e quaranta minuti.

Erano altri tempi: in Italia scoppiava il dopoguerra e nasceva la cosiddetta “Hollywood sul Tevere”,  fenomeno non effimero di trasferimento di divi e script dagli Studios losangelini alla città eterna, di cui si intendeva tornare a cantare la grandezza imperiale, a colpi di racconti epici e scenografie di cartapesta.
 

In questi 60 anni scarsi tutto è cambiato, soprattutto la credulità di un pubblico allora avido di storie grandiose che lo potessero risollevare dalla miseria morale e materiale da cui era circondato, oggi stordito e quasi anestetizzato dal cinema blockbusteriano degli effetti speciali, più o meno cine-fumettistico.
 

Riuscirà la lotta fratricida tra un nobile della Giudea trasformato in servo e il suo fratello adottivo divenuto centurione di Roma a scaldare i cuori del pubblico odierno?

E’ questo il primo interrogativo che vien da porsi assistendo al Ben-Hur del terzo millennio, che della grandiosità dell’originale conserva per lo meno la caratura delle case di produzione (Metro Goldwin Meyer e Paramount) e distribuzione (Universal), ovvero tre delle otto “major” della Hollywood della golden age.
 

Così come identiche sono le ambizioni spettacolari di una pellicola che i produttori han deciso di affidare alla turgida regia del kazako Timur Bekmambetov, messosi finora in luce grazie all’action-fantasy Wanted - Scegli il tuo destino e all’horror-fantastico La leggenda del cacciatore di vampiri, entrambi caratterizzati da un marcato virtuosismo visivo. Lo stesso che Bekmambetov ha modo di sciorinare nelle riprese della celeberrima corsa delle bighe, una delle sequenze che resero immortale l’originale di Wyler. E però, benché le possibilità tecniche di oggi siano incomparabilmente superiori a quelle del film del ’59 (anche se gli autori giurano che non vi sia stato ricorso a nessuna ricostruzione in CGI), la sensazione è che il rincorrersi feroce di Charlton Heston (Ben-Hur) e Stephen Boyd (Messala) avesse in se qualcosa di al contempo più grezzo e più autentico.
 

A proposito di cast, va segnalato che il ruolo di Giuda Ben-Hur, prima nobile di Gerusalemme poi schiavo di Roma, è stato stavolta affidato a un nipote d’arte, si tratta infatti di Jack Huston, figlio del figlio del regista John, messosi in luce nella serie tv Boardwalk Empire - L'impero del crimine e poi visto al cinema in American Hustle - L'apparenza inganna e Ave, Cesare!

Meravigliose le location, ricreate – come nel film di Wyler – negli Studi di Cinecittà e girate dal vero nella splendida Matera, capitale europea della cultura 2019.

Occhio al sub-plot, in cui si narra - come da sottotitolo del romanzo di Wallace – la “storia di Cristo”, qui interpretato dal brasiliano Rodrigo Santoro. 

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