In concorso alla 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film di Andrej Končalovskij è un lungometraggio sui destini incrociati di tre personaggi nel tempo triste di una guerra senza precedenti. La storia racconta l'odissea di Olga, un membro della Resistenza francese spedita in un campo di concentramento. Leggi la recensione
di Alessio Accardo
“Grazie a Hitler avremo presto costruito un paradiso tedesco sulla terra”. E’ questo il senso in cui va inteso il titolo del film russo-tedesco passato ieri in concorso e intitolato, per l’appunto, Paradise. E’ la storia di tre individui, Olga, Jules e Helmut, le cui strade si incrociano durante la devastazione della guerra. Un’immigrata russa che diventa membro della resistenza francese e viene arrestata per aver nascosto due bambini ebrei; un collaborazionista francese incaricato di indagare sul suo caso; e un giovane ufficiale delle SS che l’aveva amata e tornerà ad innamorarsene quando la rincontrerà, da carnefice, in un campo di concentramento.
Un tema visto e rivisto sul grande schermo ma che non perde di attualità, quello dei lager, se si considera che proprio ieri passava fuori concorso Austerlitz, film che declina il tema nazista nel senso inquietante del turismo di massa nei campi di concentramento. Oppure se si pensa che il vincitore morale del Festival di Cannes 2015 è stato quel Figlio di Saul, che ci aveva portato negli orrori dei campi di sterminio con un unico terribile piano-sequenza. Ma non è soltanto l’Olocausto il tema caro al regista di Paradise, che è il russo Andrej Končalovskij (fratello del più noto Nikita Michalkov) il quale negli anni ’80 diede buone prove a Hollywood con opere come A 30 secondi dalla fine e Tango & Cash.
A Končalovskij interessa semmai una riflessione sulle tragedie e sulle illusioni del XX secolo, in tempi in cui sembra tornare a germogliare la mala pianta dell’estremismo. Tanto è vero che lo stesso personaggio che aveva sentenziosamente pronunciato le parole che abbiamo citato in cima, il giovane gerarca nazista Helmut, più tardi dirà: “Se fossi nato in Russia sarei diventato comunista. Vogliono realizzare il paradiso in terra e ci riusciranno.” E tuttavia a colpire di più sono proprio le scene girate all’interno dei campi di sterminio, che ad onta del titolo, ci sprofondano in un vero e proprio inferno. Assistiamo a scene di straordinaria violenza e non soltanto fisica, anzi le cose più agghiaccianti sono quelle che vengono pronunciate dalle bocche dei carnefici e delle vittime dei lager. Come quando viene raccontata la storia agghiacciante della “terra che si muove”, perché alcuni deportati sono stati sotterrati quando non erano ancora del tutto morti. Oppure di quando un gerarca spiega, con spietata indifferenza, che nei forni crematori riesce a stiparci fino a 1200 persone, anche se ce ne andrebbero solo 700.
Ma forse l’aspetto più interessante di Paradise è la sua cifra stilistica, in cui si alternano un bianco e nero evocativo e siparietti dal sapore “brechtiano” in cui i tre protagonisti raccontano in macchina le proprie vicende post-mortem, rivolti a un interlocutore invisibile.
Va poi aggiunto, per dire della finezza di un regista esperto e colto come Končalovskij, che nel film ci sono delle citazioni “italiane” molto sfiziose per il pubblico di casa: il terzo canto dell’Inferno di Dante Alighieri (“Per me si va ne la città dolente…”), salmodiato da uno dei tanti dannati della terra che popolano il film; e una sequenza ambientata nella Firenze del 1933, in cui si ode Parlami d’amore Mariù cantata da Vittorio De Sica.
Alla fine del film appare una didascalia in cui si ringraziano gli emigranti russi che hanno salvato i bambini ebrei, a cui il regista russo dedica il film.