Per la rubrica “Una settimana con il dottor Giovanni Mari” questa volta è Fabio Castriota a commentare le vicende della serie tv diretta da Saverio Costanzo giunta alle sue ultime puntate
di
Fabio Castriota
In Treatment volge al termine, i commenti specifici dei colleghi che si sono soffermati anche questa settimana sui diversi casi danno una lettura precisa e coinvolgente sui tanti aspetti emersi. La serie ha suscitato contrastanti emozioni tra quanti (noi analisti, pazienti ed “esterni”) hanno seguito le complesse vicende dei diversi personaggi. Il dato più rilevante è che si è trattato di un lavoro che non ha comunque lasciato indifferenti: molti colleghi lo hanno denigrato in quanto fuorviante e scandalosamente lontano da una conduzione minimamente seria dello standard analitico o comunque psicoterapeutico minimamente accettabile, molti pazienti sono rimasti inorriditi dalle rotture di un setting così (fortunatamente) diverso dalla loro esperienza, altri, curiosi, lo hanno vissuto come confuso e sono rimasti senza una chiara risposta su cosa sia veramente una psicoterapia, altri ancora dicono di non uscire la sera per poter seguire le puntate senza perderne una… Dall’altra parte invece (anche tra chi si occupa di cinema e fiction) la versione italiana della fortunata serie è apparsa coinvolgente e stimolante, partendo dal giusto presupposto che la situazione di una stanza d’analisi è antiteatrale di base e che se volessimo realmente descrivere, nei modi e nei tempi usuali, una seduta, il prodotto finale sarebbe lento, noioso, comunque irrappresentabile.
Per questo molti colleghi, e non solo, si sono invece coinvolti (come dimostrano i commenti che hanno preceduto queste mie note) riuscendo a percepire, aldilà di ogni incongruenza tecnica e teorica, un senso più profondo capace di cogliere qualcosa che si attiva nel coinvolgimento che la nostra pratica muove sul piano sia individuale sia relazionale, nell’area intrapsichica ed anche interpersonale.
Soprattutto questa penultima settimana ha visto i protagonisti delle vicende catturati in situazioni che virano su un piano ancor più profondo e drammatico (l’analista riceve addirittura la notizia della morte di un paziente!), mentre compaiono (finalmente) sulla scena sogni e libere associazioni: elementi, la cui assenza, ci ha fatto sentire così poco analitica la situazione. Ma questo non cambia di molto il sentire di chi si è lasciato catturare da In Treatment e da chi se n’è tenuto con sufficienza lontano.
Quello che credo ci ha intrigato (e forse allontanato altri) sono, per cominciare, gli elementi che agitano i protagonisti. Affetti, desideri, paure, odio, amore, distruttività e tutto il repertorio delle emozioni che vengono rappresentate sono quelle che quotidianamente saturano i nostri studi e aprono, chiudono, interrogano le relazioni che abbiamo coi nostri pazienti. Tutti questi stati affettivi (con tutti gli agiti che ne derivano) sono nelle varie puntate concentrati in tempi ridottissimi; quello che vediamo svolgersi in 5, 6 sedute presumibilmente occuperebbe 5, 6 mesi (o forse anni) del nostro lento procedere terapeutico. Ma questo è inevitabile se accettiamo che una fiction s’inoltri nei territori relazionali di un lavoro psicoterapeutico. Aldilà quindi di come si è scelto di rappresentarla e di quali escamotage la regia e la produzione hanno pensato di sviluppare nell’approccio tecnico/clinico dello psicoterapeuta, il dato di fatto è che la “materia emotiva” con cui la serie è costruita è autenticamente vicina ai nostri vissuti.
Più che sottolineare alcuni classici concetti analitici di riferimento, come il transfert ed il controtransfert, In Treatment si articola mostrando come la relazione terapeutica sia sottoposta ai terremoti di movimenti spesso inconsci più vicini ai temi delle identificazioni proiettive, degli agiti (sia dei pazienti sia del terapeuta) e delle forme più violente di enactment. Quello che il protagonista affronta e cerca a modo suo di risolvere (soprattutto in queste sedute finali) è il materiale incandescente o distruttivamente congelante che quotidianamente i pazienti ci portano e che interagisce con i nostri livelli più profondi. Certo noi abbiamo sviluppato altri strumenti, altra tecnica, diversa da quella che il protagonista mette in atto, ma al dunque non stiamo parlando di una fiction didattica e non è questo che possiamo o dobbiamo aspettarci.
In questo senso In Treatment è un fotogramma molto fedele delle patologie e dei problemi che attraversano la nostra realtà e il modo in cui sono espressi dagli attori è di grande livello, cosicché risultano vivi e credibili. Questo è il paese in cui viviamo (nonostante la serie sia nata in Israele) e queste sono le angosce dei pazienti e le nostre difficoltà a gestirle. Se poi ci voltiamo indietro, a un secolo fa, quando la Psicoanalisi muoveva i primi passi e le regole del setting erano in una fase di elaborazione, erano poi tanto diverse le rotture di quella prassi allora in costruzione, da quelle che il protagonista della fiction mette in atto? Questo ci induce a riflettere sulla difficoltà e sullo sforzo tenace che Freud e i primi suoi allievi dovettero affrontare per consegnare agli psicoanalisti della seconda e delle successive generazioni uno strumento capace di metterci di fronte, senza esserne sopraffatti, a quanto di più complesso e talora distruttivo si muove nell’ inconscio dei pazienti e di noi analisti, coinvolti relazionalmente con loro. Possiamo, come hanno fatto diversi colleghi, domandarci dell’utilità per la nostra disciplina di una fiction che entri così direttamente nel merito del nostro lavoro, mostrandolo appunto in modo distorto sul versante dell’intervento terapeutico.
L’impressione di alcuni di noi è che in ogni caso la psicoanalisi debba confrontarsi, senza troppo timore, con la curiosità e le fantasie che una larga parte delle persone, che non hanno mai messo piede in una stanza d’analisi, nutre per il nostro approccio terapeutico. Nelle diverse situazioni di outreach ed eventi che la SPI sta progressivamente promuovendo in questi anni il dato costante è un ascolto attento, quando siamo capaci di porgere il nostro sapere e la nostra ricerca in modo profondo, ma nello stesso tempo coinvolgente (tramite una forma dialogante ed empatica) al pubblico dei “non addetti ai lavori”. Intrattenerci in queste note di commento alle diverse puntate di questa serie, seguite e lette con passione da tante persone non necessariamente implicate in un lavoro analitico, può andare in questa direzione di apertura, capace di costruire momenti di scambio e di reciproco arricchimento.
In Treatment volge al termine, i commenti specifici dei colleghi che si sono soffermati anche questa settimana sui diversi casi danno una lettura precisa e coinvolgente sui tanti aspetti emersi. La serie ha suscitato contrastanti emozioni tra quanti (noi analisti, pazienti ed “esterni”) hanno seguito le complesse vicende dei diversi personaggi. Il dato più rilevante è che si è trattato di un lavoro che non ha comunque lasciato indifferenti: molti colleghi lo hanno denigrato in quanto fuorviante e scandalosamente lontano da una conduzione minimamente seria dello standard analitico o comunque psicoterapeutico minimamente accettabile, molti pazienti sono rimasti inorriditi dalle rotture di un setting così (fortunatamente) diverso dalla loro esperienza, altri, curiosi, lo hanno vissuto come confuso e sono rimasti senza una chiara risposta su cosa sia veramente una psicoterapia, altri ancora dicono di non uscire la sera per poter seguire le puntate senza perderne una… Dall’altra parte invece (anche tra chi si occupa di cinema e fiction) la versione italiana della fortunata serie è apparsa coinvolgente e stimolante, partendo dal giusto presupposto che la situazione di una stanza d’analisi è antiteatrale di base e che se volessimo realmente descrivere, nei modi e nei tempi usuali, una seduta, il prodotto finale sarebbe lento, noioso, comunque irrappresentabile.
Per questo molti colleghi, e non solo, si sono invece coinvolti (come dimostrano i commenti che hanno preceduto queste mie note) riuscendo a percepire, aldilà di ogni incongruenza tecnica e teorica, un senso più profondo capace di cogliere qualcosa che si attiva nel coinvolgimento che la nostra pratica muove sul piano sia individuale sia relazionale, nell’area intrapsichica ed anche interpersonale.
Soprattutto questa penultima settimana ha visto i protagonisti delle vicende catturati in situazioni che virano su un piano ancor più profondo e drammatico (l’analista riceve addirittura la notizia della morte di un paziente!), mentre compaiono (finalmente) sulla scena sogni e libere associazioni: elementi, la cui assenza, ci ha fatto sentire così poco analitica la situazione. Ma questo non cambia di molto il sentire di chi si è lasciato catturare da In Treatment e da chi se n’è tenuto con sufficienza lontano.
Quello che credo ci ha intrigato (e forse allontanato altri) sono, per cominciare, gli elementi che agitano i protagonisti. Affetti, desideri, paure, odio, amore, distruttività e tutto il repertorio delle emozioni che vengono rappresentate sono quelle che quotidianamente saturano i nostri studi e aprono, chiudono, interrogano le relazioni che abbiamo coi nostri pazienti. Tutti questi stati affettivi (con tutti gli agiti che ne derivano) sono nelle varie puntate concentrati in tempi ridottissimi; quello che vediamo svolgersi in 5, 6 sedute presumibilmente occuperebbe 5, 6 mesi (o forse anni) del nostro lento procedere terapeutico. Ma questo è inevitabile se accettiamo che una fiction s’inoltri nei territori relazionali di un lavoro psicoterapeutico. Aldilà quindi di come si è scelto di rappresentarla e di quali escamotage la regia e la produzione hanno pensato di sviluppare nell’approccio tecnico/clinico dello psicoterapeuta, il dato di fatto è che la “materia emotiva” con cui la serie è costruita è autenticamente vicina ai nostri vissuti.
Più che sottolineare alcuni classici concetti analitici di riferimento, come il transfert ed il controtransfert, In Treatment si articola mostrando come la relazione terapeutica sia sottoposta ai terremoti di movimenti spesso inconsci più vicini ai temi delle identificazioni proiettive, degli agiti (sia dei pazienti sia del terapeuta) e delle forme più violente di enactment. Quello che il protagonista affronta e cerca a modo suo di risolvere (soprattutto in queste sedute finali) è il materiale incandescente o distruttivamente congelante che quotidianamente i pazienti ci portano e che interagisce con i nostri livelli più profondi. Certo noi abbiamo sviluppato altri strumenti, altra tecnica, diversa da quella che il protagonista mette in atto, ma al dunque non stiamo parlando di una fiction didattica e non è questo che possiamo o dobbiamo aspettarci.
In questo senso In Treatment è un fotogramma molto fedele delle patologie e dei problemi che attraversano la nostra realtà e il modo in cui sono espressi dagli attori è di grande livello, cosicché risultano vivi e credibili. Questo è il paese in cui viviamo (nonostante la serie sia nata in Israele) e queste sono le angosce dei pazienti e le nostre difficoltà a gestirle. Se poi ci voltiamo indietro, a un secolo fa, quando la Psicoanalisi muoveva i primi passi e le regole del setting erano in una fase di elaborazione, erano poi tanto diverse le rotture di quella prassi allora in costruzione, da quelle che il protagonista della fiction mette in atto? Questo ci induce a riflettere sulla difficoltà e sullo sforzo tenace che Freud e i primi suoi allievi dovettero affrontare per consegnare agli psicoanalisti della seconda e delle successive generazioni uno strumento capace di metterci di fronte, senza esserne sopraffatti, a quanto di più complesso e talora distruttivo si muove nell’ inconscio dei pazienti e di noi analisti, coinvolti relazionalmente con loro. Possiamo, come hanno fatto diversi colleghi, domandarci dell’utilità per la nostra disciplina di una fiction che entri così direttamente nel merito del nostro lavoro, mostrandolo appunto in modo distorto sul versante dell’intervento terapeutico.
L’impressione di alcuni di noi è che in ogni caso la psicoanalisi debba confrontarsi, senza troppo timore, con la curiosità e le fantasie che una larga parte delle persone, che non hanno mai messo piede in una stanza d’analisi, nutre per il nostro approccio terapeutico. Nelle diverse situazioni di outreach ed eventi che la SPI sta progressivamente promuovendo in questi anni il dato costante è un ascolto attento, quando siamo capaci di porgere il nostro sapere e la nostra ricerca in modo profondo, ma nello stesso tempo coinvolgente (tramite una forma dialogante ed empatica) al pubblico dei “non addetti ai lavori”. Intrattenerci in queste note di commento alle diverse puntate di questa serie, seguite e lette con passione da tante persone non necessariamente implicate in un lavoro analitico, può andare in questa direzione di apertura, capace di costruire momenti di scambio e di reciproco arricchimento.