In Treatment e la giusta distanza

Cinema

Per la rubrica “Una settimana con il dottor Giovanni Mari” questa volta è Simonetta Bonfiglio Senise a commentare le vicende appassionanti della serie tv diretta da Saverio Costanzo

di Simonetta Bonfiglio Senise

Mentre la barca del Dott. Mari (o di Giovanni ?) naviga in acque sempre più pericolose, io, spettatrice, vengo nel procedere della navigazione,  via via   incuriosita, coinvolta,  chiamata a  prendere parte, anticipare e immaginare …. Riuscirà  il dott. Mari /Giovanni  a non far naufragare la barca tenendo la distanza giusta  tra lo Scilla e Cariddi di un eccessivo coinvolgimento o di un distanziante eccesso interpretativo?  Il dottor Giovanni Mari spesso diventa solo Giovanni, anche per i suoi pazienti e con il suo  stesso consenso: è una scelta che può favorire la vicinanza, ma può anche pericolosamente cancellare confini, distanze, differenze.  Il pubblico, il privato, l’uomo, il terapeuta: come è difficile, eppure quanto necessario mantenere le distinzioni, salvando l’unicità e l’unità della persona e del soggetto. 

La fiction che, per la prima volta, ci fa guardare (o spiare?) dentro una stanza molto speciale, luogo strano, intimo, reale e fuori dal reale nello stesso tempo, si apre  questa settimana con  episodi di intensità anche drammatica, nei racconti e nei gesti dei protagonisti.   Abbiamo conosciuto di puntata in puntata le modalità relazionali che caratterizzano gli scambi tra Giovanni-Dott. Mari e i suoi pazienti:  la donna (Sara), l’uomo (Dario), l’adolescente (Alice) e la coppia (Lea e Pietro),  tutti coinvolti in un difficile scambio con il terapeuta, in situazioni dove la  scena è spesso occupata  da  aggressività, attacchi verbali, seduzioni, invasioni di campo, intrusioni, agiti, cui Giovanni Mari deve far fronte, a cui deve dare significato e risposta. Abbiamo visto Giovanni Mari nella sua realtà e fragilità di uomo e nelle sue difficoltà di terapeuta, sollecitato e mosso da queste diverse figure. 

Resistenza e conflitto animano come caratteristica centrale questo spazio terapeutico  e gli danno identità: penso che accentuare questi aspetti sia stata una scelta necessaria, sul piano dello spettacolo,  per interessare   e coinvolgere, anche se finisce per mettere in secondo piano o addirittura  nascondere quella atmosfera,  altrettanto faticosa e difficile, di  costruzione, di dialogo di “due persone che parlano in una stanza”,  alleate in una ricerca e nella condivisione di un viaggio, dove il terapeuta  ascolta il paziente come una persona  che porta comunicazioni e cerca di dare  indizi  per farsi raggiungere, l’alleato che segnala la lunghezza d’onda su cui sintonizzarsi. Ma per il Dott. Mari andare a raggiungere i suoi pazienti risulta impresa spesso troppo ardua, soprattutto quando c’è di mezzo un amore di transfert: Giovanni Mari non riesce a trovare  la giusta  lunghezza d’onda  per ascoltare  un dolore profondo e lontano, quello di una Sara bambina. L’amore “brucia” Sara, brucia Giovanni e brucia la terapia. Dalla navigazione, dal mare e dall’acqua, elemento vitale e materno, passiamo alla metafora del fuoco, dell’incendio che divampa pericolosamente sulla scena,  secondo le immagini usate dallo stesso Freud nel ricordare la forza esplosiva del transfert, necessario e pericoloso  elemento  dell’analisi.
La quinta settimana drammatica  porta alcune svolte cruciali.  

Assistiamo a una chiara  differenziazione  tra  le situazioni  in cui  il Dott.Mari riesce a procedere nella navigazione e quelle in cui rischia il naufragio.  Le storia di Sara e di Dario, si sono incrociate e “l’amore di transfert” brucia sulla scena.  Giovanni, (non più Dott. Giovanni Mari ma solo Giovanni) travolto da Sara, a partire dal primo cedimento che aveva ridotto la loro distanza con il passaggio al tu, cede nell’abbraccio che pone fine alla terapia  in una scena che li  accomuna  in un uguale e diverso dolore.   Annullate le differenze, le asimmetrie, i ruoli, rimasto senza strumenti interni, viene a mancare in Giovanni la capacità di contenere prima di tutto se stesso e dare risposte alle proprie  emozioni: restano un uomo e una donna di fronte ad un dolore e ad un fallimento. La frittata, che Sara detesta, è fatta! Il tema della distanza giusta, dei limiti che proteggono, delle differenze che aiutano ad  uscire dalla confusione, mi sembra percorra come un filo conduttore  tutte le puntate di questa settimana. La terapia con Dario ripropone una situazione di grande tensione e di una crudeltà al limite del sopportabile. Viene da empatizzare, simpatizzare con Giovanni, tanto Dario appare duro (come l’acciaio), violento. Dario si difende dal suo dolore attaccando sia sul piano professionale che su quello personale, forzando fino al limite estremo, fino alla violazione della vita privata del terapeuta . Quando lo scenario è di lotta senza quartiere, siamo spinti a schierarci, riproducendo forse quella  stessa difficoltà di integrazione e  di comunicazione  presente nella relazione. 

La reazione emotiva di Giovanni arriva improvvisa, alla provocazione su Sara, dopo essere stato, forse troppo a lungo, trattenuto di fronte agli attacchi rivolti  alla moglie e alla figlia, che lo  lasciano quasi paralizzato; dice di difendere i pazienti, ma lo sentiamo in grande difficoltà a difendere se stesso. Anche in questo caso le distanze si sono troppo assottigliate, nella sovrapposizione  e confusione  delle storie, travolgendo sia Dario che Giovanni.   Quasi inaspettatamente, le puntate  con Alice e Lea  rimettono Giovanni Mari nel suo ruolo e nelle sua competenza terapeutica: nella  seduta con Alice  forse una delle migliori, Giovanni ritrova la capacità di ascoltare, modulare le distanze, avvicinarsi con empatia a livelli profondi di dolore. Sa trattare con delicata fermezza la difficile dinamica tra Alice e la madre: usa un tono “severo”, da padre, quando le chiede di togliere lo zaino e fare posto a sua madre, poi  si schiera dalla parte di Alice, per la richiesta di tornare al ballo.  In questa seduta vediamo la capacità del Dott. Giovanni Mari di raggiungere  Alice, di sostenere l’alleanza, di trovare la giusta distanza, così importante e così difficile e da mantenere   con gli adolescenti.
Lui stesso parlando con Alice dice della giusta  distanza che lei cerca con la madre .
La seduta con Lea non è facile, ma contiene una evoluzione emotiva e un passaggio di piani narrativi favoriti dall’ascolto attento e empatico. Lea, raggiunta, può ripercorrere la sua storia di bambina infelice  e obesa,  la sua umiliazione  nei confronti della sorella bella e “crudele”, la dolorosa perdita del padre, ma soprattutto  riprendere contatto con la difesa dal dolore e il rifiuto della tenerezza.
La conclusione della settimana chiude il cerchio: da una supervisione con confini, regole, contenuti e ruoli poco definiti si passa ad una terapia di coppia, chiaramente definita: interessante la scena iniziale in cui l’analista sta preparando lo spazio fisico (come quello psichico interno ) con la sua poltrona al centro. Giovanni è nel ruolo di paziente insieme alla moglie.  Assistere a una seduta del terapeuta nei panni del paziente, non metaforicamente in questo caso, è forse una fantasia di molti.  Giovanni non solo è sulla poltrona del paziente, ma anche del colpevole: messo sotto accusa da una moglie dolente, cerca debolmente di difendersi invocando teorie sul transfert, ma deve cedere alla forza emotiva di Eleonora che intuisce e gli restituisce aspetti del sé “sputi sentenze, accusi, interpreti, smettila di pontificare…”.

Eleonora cerca una parte viva, autentica, che non sente più in sé, in Giovanni, nella loro coppia e pone il problema della differenza tra agiti e fantasie capovolgendolo: per lei l’esperienza sessuale consumata non conta niente, ma il desiderio trattenuto di Giovanni è un vero abbandono e una profonda ferita.  Lo psicoanalista è sul lettino, di fronte a due donne. L’analista donna raccoglie, nel silenzio, il dolore della coppia…e ci lascia sull’uscio di una porta che si chiude, facendoci aspettare…

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