Scala, inizia l’era Ortombina : “Il melodramma italiano è la nostra lingua nazionale”

Alla Scala è iniziata l’era di Fortunato Ortombina. Il nuovo sovrintendente si è insediato dopo un periodo di affiancamento a Dominique Meyer, a cui non è stato rinnovato il contratto in seguito al decreto legge che pone il tetto dei 70 anni d’età. Un decreto e un mancato rinnovo che hanno innescato un vortice di polemiche che il nuovo sovrintendente cerca subito di lasciarsi alle spalle. “Prima ancora di cominciare so già che ho i giorni contati - sottolinea con il sorriso - Sono il primo della storia ad entrare in carica con una scadenza già fissata perché tra cinque anni supererò i limiti d’età ora previsti”. Ma assicura subito di non voler fare il pre-pensionato e che non saranno cinque anni tranquilli. Poi le prime mosse: in primis l’annuncio della nomina di Frédéric Olivieri come nuovo direttore del Corpo di Ballo, poi quella di Paolo Gavazzeni come coordinatore artistico e la conferma di Alessandro Galoppini come direttore dei cast. Nessun cambio invece per quanto riguarda il direttore musicale, contrariamente alle indiscrezioni circolate negli ultimi mesi. “Il direttore musicale c'è ed è Riccardo Chailly che a Milano ha impegni per un paio d'anni e quindi le decisioni si prenderanno in tempi e modi adeguati”. Questo nuovo inizio per Ortombina è in realtà un ritorno. Alla Scala infatti aveva già lavorato come coordinatore artistico più di 20 anni fa, prima di andare alla Fenice di Venezia dove è stato sovrintendente per 17 anni. Lei ha già lavorato qui come coordinatore artistico dal 2003 al 2007… Che Scala ha ritrovato? Ho ritrovato molta della stessa gente di allora ma anche persone che oggi lavorano qui che, quando io sono arrivato, probabilmente non erano ancora nate. Ecco questo mi fa abbastanza impressione però dà anche l'idea di un mondo che cambia. E non dobbiamo aver paura, io personalmente non ho timore per il futuro del teatro d'opera. Sono sicuro che fra 500 anni ci saranno molte più persone che conosceranno arie come Che gelida Manina o Nessun Dorma. Questa coscienza di quanto sia importante la letteratura musicale italiana e in particolare operistica ci fa sentire tutta la responsabilità che abbiamo sapendo che fra 500 anni, ma anche adesso secondo me, non c'è e non ci sarà più nessuno al mondo che potrà dire di non avere mai sentito, o per intero, o solo in parte “vincerò, vincerò”. A proposito di arie famose e di grandi interpreti… Ci sono opere che non vengono rappresentate perché non ci sono le voci giuste. Lei cosa pensa? Penso che questo non dovrebbe più verificarsi. Bisogna fare tanta ricerca per trovare il cantante giusto e quando non c’è va creato. Non si può stare 20 anni senza fare un’opera perché manca il cantante ideale, non bisogna dirlo neanche per scherzo. Certo, cinquant'anni fa avevano un po' più di fortuna sotto questo punto di vista, nel senso che c'era un certo numero di stelle che erano anche riconosciute come tali. Oggi il tempo è diverso, i tempi sono diversi, gli uomini sono cambiati e non si produce più lo stesso canto di cinquant'anni fa. Quindi al netto di questo noi abbiamo la responsabilità di fare ricerca. La gente che viene a teatro vuole che gli raccontiamo una storia, nel senso più sincero, come quando un bambino chiede alla mamma “raccontami una storia”. È qualcosa di autentico e questo è il teatro: persone che vengono per sentirsi raccontare una storia. Abbiamo una grande responsabilità! Lei ha sottolineato più volte quanto il teatro sia l'espressione più intima della propria città. Qual è il rapporto tra Milano e la Scala e qual è il punto di forza di questo legame? La forza della Scala è quella di essere il teatro più importante al mondo, non credo di esagerare nel dirlo. È l'espressione di un contesto metropolitano e di una civiltà. E la risposta è molto semplice: la Scala è la Scala perché è a Milano. Dopodiché non possiamo dimenticare la storia, quello che qui è accaduto ad esempio durante il Risorgimento con la presenza di Verdi, sono avvenimenti di una portata impressionante. O quando, ottant'anni fa, dopo i bombardamenti a Milano si decise come prima cosa di ricostruire la Scala. Ecco questo è un qualcosa per cui tutti, non solo i milanesi ma tutti i cittadini italiani, devono ringraziare chi fece quella scelta perché fu un segno importante. La Scala è la Scala a Milano ma anche nel mondo... Questo è un luogo dove si fa letteratura, il melodramma italiano è la nostra lingua nazionale e quindi la Scala, nell'essere tempio della nostra letteratura nazionale, con tutto il rispetto per Manzoni che viveva a pochi metri da qui, è il luogo dove si fa la storia e fa parte della vita di tutti, anche di chi non è mai entrato. Ecco perché ho detto che mi piacerebbe che non ci fosse più nessun milanese che potesse dire di non esser mai stato alla Scala. Perché anche chi non è mai stato qui parla della Scala con una forma di intima venerazione che denota una sorta di identificazione. È qualcosa di assolutamente unico. Nelle prossime stagioni quanto spazio darà ai classici e quanto a opere più contemporanee o magari nuove? Dovreste leggerlo quel libro di Italo Calvino che dice “perché leggiamo i classici?”. Non dimentichiamoci che i classici sono i classici e di fronte a un classico è un po’ come di fronte a una divinità: non c'è niente da fare, devi solo prenderne atto. Questo però non vuol dire rinunciare a fare ricerca anche perché spesso i classici sono quelli che rivelano la più impressionante modernità altrimenti forse non sarebbero diventati classici. Ci sono poi invece opere che alla Scala non si sono mai viste. C’è tanta ricerca da fare su tanti temi e io credo molto nella forza del teatro d'opera in generale. Ho lavorato qui ma sono cresciuto altrove e ho imparato come a un certo punto diventi anche una questione di forza. È un po' come trovare sempre il passo giusto nello sport, come quando vai in bicicletta. Nel 2028 ci sarà anche l’anniversario dei 250 anni della costruzione della Scala, state già lavorando alle celebrazioni? Si sta pensando a della musica nuova, a una commissione che si farà per quell'anno, e si sta pensando anche a mettere insieme titoli che siano molto importanti per la nostra storia, per il nostro teatro, capaci di riassumere un po' questi 250 anni. Naturalmente non c'è che l'imbarazzo della scelta. Non vogliamo però che sia solo un'autocelebrazione ma anche un momento di grande apertura verso la città e verso il mondo. A proposito della danza, in questi ultimi anni il sovrintendente Dominique Meyer ha dato tantissimo spazio al balletto. Ed è qualcosa che sta accadendo anche all’estero come dimostra, per esempio, il cambio di nome a Londra da Royal Opera House a Royal Ballet and Opera House. Proseguirete in questa direzione? Assolutamente sì. Qui c'è l'orchestra, il coro e il corpo di ballo. Quindi la stagione è lirica, sinfonica e di balletto, su questo non si discute. Sicuramente nel tempo c'è stato un apporto sempre maggiore della danza anche nella regia, basti pensare a tutto il teatro barocco, alla drammaturgia del teatro barocco che si è sviluppata con la danza. E poi non dimentichiamoci che c’è tantissima gente fuori che pratica la danza, ci sono tantissime scuole di danza anche per dilettanti ed è un’arte credo quasi più praticata della musica. In questi ultimi anni la Scala ha fatto tanto anche per i bambini con spettacoli per loro e persino un’opera nuova come Il Piccolo Principe. Che importanza darete al piccolo pubblico scaligero? Negli ultimi 17 anni sono stato sempre nello stesso posto e ho fatto in tempo a vedere i bambini poco più che lattanti, perché c'era una specie di laboratorio anche per neonati dai sei mesi d'età, diventare grandi e abbonati. Per questo sono convinto che questa sia una strada che si deve sviluppare senza per questo compromettere quell’esclusività che tutti i teatri d'opera devono avere, non solo la Scala. L’esclusività di un teatro per me passa anche attraverso una forma di grande inclusività e di grande apertura.

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