Art is a family business, il documentario in onda su Sky Arte lunedì 23 novembre alle 16.55, racconta la storia di Fidia Falaschetti: una carriera esplosa a Los Angeles nel 2014, un percorso reso possibile grazie al legame indissolubile tra Fidia e la propria famiglia. L'intervista
Dissacrante e connessa incessantemente all’attualità, l’arte di Fidia Falaschetti è nota in tutto il mondo grazie anche alla presenza delle sue opere in collezioni pubbliche e private ad Amsterdam, New York, Taipei, Los Angeles.
Celebre per la sua provocatoria interpretazione dei simboli della contemporaneità, Fidia Falaschetti considera l’arte un vero e proprio affare di famiglia. Nato e cresciuto in una piccola città sulla costa marchigiana, Fidia appartiene a una famiglia in cui la creatività è sempre stata l’ingrediente essenziale.
Il suo destino sembra ben definito sin dai primi passi (non è un caso che Fidia prenda il nome da uno dei più noti scultori classici), ma il sogno di valicare i rassicuranti confini conosciuti lo spinge a lasciarsi alle spalle affetti, amici e la piccola realtà di provincia per conquistare la fama globale.
“Art is a family business” va in onda su Sky Arte lunedì 23 novembre alle 16.55.
Fidia, perché la tua arte è un “affare di famiglia”?
“Diciamo che dandomi Fidia come nome di battesimo i miei hanno già piantato un bel seme in famiglia! Poi, nato e cresciuto con mio padre, mia madre, mio nonno, pittori, ceramisti, professori di educazione artistica, sia io che mia sorella abbiamo avuto un bel navigare nell’immenso oceano dell’arte. È stata una costante coscienza famigliare per me. Un imprinting di cui sono immensamente grato. Non è mai stata un’imposizione: è stato il risultato di una vera e propria passione collettiva condivisa”.
Anno 2014, si vola oltreoceano, a Los Angeles, e vola anche la tua carriera artistica. Che cosa è successo?
“Probabilmente tutte le esperienze fatte sino a quel momento hanno preso forma come una cometa che arriva da lontano, e avvicinandosi alla terra viene vista da molti. Un po’ come se la fase di sperimentazione fosse finita, e dopo tanti sacrifici, le energie si siano unite dando vita ad una realtà sincera e sicura di sé, che ha cominciato a raccontare delle storie senza più paure. La carta vincente credo sia stata il fatto che queste storie non erano neppure più solo le mie, ma piuttosto era la mia voce che cominciava a narrare la collettività. Sai, in Italia non era semplice vista la crisi che vivevamo (e che ancora c’è purtroppo), dunque vivere di arte era davvero un sogno quasi irrealizzabile. Credo che quando decidi di andare fino in fondo pur sapendo di perdere molto, quando ti metti in gioco al 100%, sai che indietro non si torna facilmente e dunque qualcosa di incredibile succede per forza. Viene fuori la tua vera natura, le carte migliori si scoprono, e l’universo comincia a manifestarsi nella sua versione più sorprendente”.
La tua arte è una provocatoria interpretazione dei simboli della realtà. Con quale obiettivo?
“La realtà che viviamo è abbastanza inquietante (ne sappiamo qualcosa negli ultimi mesi, COVID docet), dunque sento l’urgenza di aprire un dialogo tra la gente, in modo che le mie opere possano stimolare una reazione alle insoddisfazioni, o un cambiamento di molte pessime abitudini che abbiamo come esseri umani. Atteggiamenti imbarbariti direi che purtroppo creano conseguenze sociali devastanti. Lo faccio con provocazione utilizzando icone riconoscibili e cambiandone i connotati in modo buffo, con ironia, perché, si sa, il sorriso stimola una reazione di endorfine che incoraggia e non demoralizza, e dunque può muovere gli intenti verso direzioni più costruttive, che chissà possono dar lentamente forma ad una società migliore. Ovviamente è un progetto ambizioso e decisamente non mi sento paladino delle buone prassi, o cavaliere onorevole dell’etica; forse proprio per questo, ironizzare sulla società è un po’ come fare dell’autocritica in qualità di cittadino del primo mondo. Usare simboli della realtà serve ad arrivare a quanta più gente possibile, che possa riconoscersi in qualcosa di vicino a loro. Non credo che l’arte debba essere per una ristretta élite. Come artista sento l’esigenza di inviare un messaggio che possa essere leggibile da quanta più gente possibile. Poi le letture sono molteplici ovvio, ma che meraviglia che sia così!”
La realtà del 2020 si sta presentando cose che mai ci saremmo immaginati di vedere e vivere. Quali sono i simboli che secondo te più rappresentano questo anno, e come immagineresti di reinterpretarli?
“Le mascherine direi sono la cosa che più descrive questo 2020. È interessante pensare che siamo una società nella quale (per certi versi) abbiamo sempre dovuto indossare delle maschere, e poi siamo finiti ad indossarle, letteralmente e obbligatoriamente, tutti i giorni. Speriamo che quando torneremo ad essere sereni e il virus sarà solo un brutto ricordo, quando saremo di nuovo liberi di circolare al sicuro senza le mascherine, avremo anche capito che è arrivato il momento di togliere le altre maschere, quelle sociali, che indossavamo con disagio prima del COVID, pur di farci meglio accettare dagli altri.
Spero che il distanziamento sociale ci faccia capire che le distanze servono solo a farci smarrire, e che quando potremo riavvicinarci saremo meno restii dall’abbracciare chi amiamo, saremo capaci di mettere da parte ego ed individualismo, capendo che da soli non siamo nulla, e che la condivisione è la massima espressione dell’amore. Potremmo chiamarlo L’AVVICINAMENTO SOCIALE, e mi piacerebbe vedere un decreto che ne obblighi la messa in opera!”
Art is a family business, il documentario di Sky Arte nel quale vedremo che cosa?
“ART IS A FAMILY BUSINESS, racconta la storia del mio viaggio artistico: un percorso reso possibile grazie proprio al legame indissolubile con la famiglia; nonostante la distanza, anche oggi, la chiave di svolta del mio mondo artistico è l’autenticità che mi è stata insegnata, l’amore per le piccole cose e la gratitudine verso chi mi ha donato questo miracolo. I sogni possono diventare imprese incredibili, se figli della semplicità. Il documentario farà entrare intimamente nel mio buffo mondo artistico, e lo farà dalla porta di ingresso di quella casa così importante a noi italiani: quel “luogo” chiamato Famiglia.
Vedremo come una famiglia formatasi in una piccola cittadina delle marche, ha reso possibile la realizzazione di questo sogno: un sogno che oggi vive nel mondo. Nonostante io sia andato oltreoceano, la mia famiglia è anche parte fondamentale del processo produttivo delle mie sculture che ancora vengono realizzate nelle mie brevi visite perlopiù in Italia nelle Marche, e vengono supervisionate nel meccanismo produttivo da mio padre, ed ora anche mia sorella. Sono diventato una sorta di ambasciatore delle tradizioni di un Paese straordinario come il nostro, e questo meccanismo ha fatto sì che nonostante il successo internazionale, il ponte con le mie radici non si spezzasse. È una storia ironica, vera, che fa sorridere ma spero anche incoraggi chiunque abbia dei sogni a non smettere mai di volerli realizzare. È un inno alla famiglia e alle nostre tradizioni. Penso che molti si ritroveranno in questa storia”.