Arturo Muselli versione fotografo: Sangue Blu racconta l'anima di uno scatto
SpettacoloGabriele Micalizzi e Arturo Muselli, l'attore interprete di Enzo-Sangue Blu di Gomorra La Serie, si confrontano sul tema della fotografia vista da chi ne fa una professione e chi la vive come una passione. L'incontro è stato organizzato da Leica nell'ambito di una serie di incontri nei quali fotografi professionisti e autori di vari ambiti culturali e artistici parlano delle loro foto, confrontando esperienze, passioni e linguaggi
(@BassoFabrizio)
La fotografia come modo di espressione. Come un racconto. L'appuntamento è con Gabriele Micalizzi e Arturo Muselli, il Sangue Blu di Gomorra la Serie. A combinare questo incontro è Leica che sta organizzando una serie di incontri nei quali fotografi professionisti e autori di vari ambiti culturali e artistici parlano delle loro foto, confrontando esperienze, passioni e linguaggi. Gabriele Micalizzi è un fotoreporter di guerra con cui Leica collabora da qualche anno e che si è imposto per bravura, capacità di relazione e visione rivoluzionaria; recentemente ha avuto un incidente in Siria, è stato colpito durante una battaglia e ha rischiato la vita. Arturo Muselli, molto noto grazie a Gomorra la Serie, si avvicina all’arte dell’immagine partendo proprio dalla fotografia. Un punto in comune dei due è che lavorano con la fotografia in ambiti molto complessi. Il punto di partenza per entrare nell'anima dell'immagine lo porge Micalizzi affermando che "la questione è che oggi la gente si ferma a fare i selfie non a fotografare". Ma per fortuna ci sono le eccezioni. Artuto Muselli racconta la sua esperienza di fotografo attraverso alcuni suoi progetti.
Ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi
Un po' di anni fa ha curato un progetto nell’ex manicomio Leonardo Bianchi che sta a Napoli, una struttura dismessa che oggi ospita solo gli uffici della Asl: "Ho sempre cercato foto di rapporti con l’umano ma qui cercavo di ricostruire una memoria riprendendo volti che sono passati da lì. Difficile raccontare quello che è passato e non c’è. Restavano tracce sui muri: in questa foto ecco una delle tante pareti perché i folli usavano scrivere sulle pareti, usando anche le unghie. Sono scritte di vario tipo, da è finita a una croce fino alle richieste di aiuto. Questo è il contatto attraverso il ricordo con chi è stato lì. Chiudi gli occhi e ancora ne percepisci la sofferenza. Erano campi di concentramento fatti diversamente e autorizzati. Una guardia giurata non consentiva l’ingresso. Ma parlando con la direttrice dell’Asl sono riuscito ad avere accesso anche se la guardia giurata ogni tanto mi cercava. Oggi è una struttura divorata dalla natura. Nelle foto ho usato il colore perché il bianco e nero funzionava ma trasmetteva segnali molto più drammatici. Farle in bianco e nero mi sembrava una sottolineatura eccessiva del dramma, mi sembrava di essere un po’ disonesto".
Arturo Muselli con le sue parole porta dentro la fotografia. Sembra di viverla. Una foto racconta la sala operatoria e sembra un film dell’orrore: "La ruggine richiamava un po’ il sangue. Anche se si facevano altri tipi di tortura. Scattando ho trovato molti oggetti, pur consapevole che è stato rubato quasi tutto, dalla pavimentazione alle camicie di forza, delle quali ne è rimasta solo una poggiata su un manichino di cartone coi baffi. Hanno rubato rubinetti e pezzi di sanitari. Poi hanno deciso di mettere in una cassaforte quello che è rimasto. L'oggetto più gettonato era il taglia unghie che veniva usato anche per tentare il suicidio. Poi ci sono lettere sequestrate, oggetti sacri tra cui parecchi santini. La cassaforte con questo reliquiario è custodita dalla signora dell’Asl. Ci sono le cartelle cliniche. L’idea è creare una area monumentale per le scuole e per chiunque volesse saperne di più. La Regione voleva sottrarla per destinarla ad altri usi ma la direttrice voleva salvarlo. Il piano è nelle mani di qualcuno che non è interessato a salvaguardare la memoria. Non potendo avere i pazienti, che non ci sono più, ho iniziato a fotografare le fotografie delle persone che hanno vissuto tra quelle pareti. Uno era un ragazzo rinchiuso perché omosessuale e sulla scheda clinica si legge che si profumava e per questo motivo il padre lo chiudeva nudo fuori al balcone. Era uno studente di chimica e con la legge Basaglia si è scoperto che non era sordomuto. A molte persone veniva data la condanna di sordomuto ma era per sopravvivere alla crudeltà di quei luoghi".
Il confine tra ansia e paura e tra persona e personaggio
Collegandosi a questo tema, quello della paura, delle pressioni, Gabriele Micalizzi mostra sue foto fatte vicino a Kobane quasi liberata dove "sono riuscito a stare qualche giorno. Prima era asserragliata dal governo di Assad e poi dall’Isis, che minano i capannoni non per uccidere per mutilare il nemico. La paura è un fattore che somatizziamo. Come l’ansia. Si arriva gradualmente alla front line, c'è un percorso preparatorio. Ci pensiamo a quello che può succedere, non ci crediamo immortali. L’esperienza ci aiuta molto, ti fa capire quando fermarti o osare". Arturo Muselli aggiunge che "anche sul set c’è paura. L’attore aiuta a nascondere quello che sei dietro il personaggio. Le altezze mi fanno paura ma sul set devo guardare giù. Ho iniziato a fare teatro da piccolo perché facevo un po’ fatica a parlare anche se non ero proprio balbuziente. L’arte come psicanalisi funziona. Io scatto foto con 35mm a circa tre metri dalla situazione. Non mi nascondo, forse mi nascondo di più come persona. Ricordo che fu uno shock fu per un ragazzo scoprire che le tre croci tatuate sul collo di Sangue Blu nella realtà erano finte. Quando vedono che la persona è diversa dal personaggio è come dire a un bambino che Babbo Natale non esiste. Li comprendi la distanza tra persona e personaggio. E capiscono che non parlano con Sangue Blu ma con una persona che lo interpreta. Mi dicono che sono un bravo attore: una volta un tassista mi disse che nella serie avevo un’altra voce, che mi doppiavano. Io gli ho spiegato che faccio un lavoro sulla voce ma non era convinto.
Un viaggio nelle periferie e la presenza delle baby gang
Arturo Muselli ricorda sorridendo che alla fine della terza stagione c’era una sola domanda: Ciro è morto? Parte da qui per spiegare che "tutto quello che riguarda Gomorra ha un tessuto sociale che va affrontato con molta delicatezza, va bandita ogni forma di superficialità. Alla fine della terza stagione sono andato un po’ a indagare su tematiche: le baby gang sono sempre esistite. Quando vivevo a Londra ce n’erano alcune che accoltellavano chi aveva la casa col giardino. Non erano persone agiate, vivevano in case pre-costruite. Ho deciso di azzerare tutto e lavorare su questa cosa. C’è un crollo di valori legato al senso civico e sociale che crea un vuoto. Dopo un po' ho deciso di parlare solo di essere umani: a chi spetta umanizzare le persone? Se le tratti come animali non puoi aspettarti che comprendano. Le periferie sono tutte uguali, cambia solo il dialetto".
Arturo Muselli e l'esperienza in un carcere minorile
Il Sangue Blu di Gomorra si prodiga, quando non è sul set, in attività sociali. Tra le altre c'è ne è una che lo ha visto impegnato per due anni in un carcere minorile: "C’era un ragazzo che lavorava come assistente. Il primo anno abbiamo scelto il libro di Ulisse, il secondo la comicità di Buster Keaton e Charlie Chaplin. Tramite i ragazzi egiziani abbiamo scoperto che c’era un comico che faceva ridere davvero da morire. Dopo anni ci siamo ritrovati per un film su Caravaggio voluto da Sky e poi lo ritrovo al cantiere 167 di Scampia dove fanno musica e cercano di ricostruire il quartiere. Hanno fatto uno sciopero al contrario: hanno bonificato la zona e portato in comune l'immondizia dicendo di pagare loro anziché chi è pagato e non lo fa. Lui si è fatto 12 anni di carcere ha una figlia…la vita a volte non dà scelte: mi ha confessato che non tornerebbe su una piazza di spaccio, glielo hanno già chiesto, spiega che già non ha una lira: che eredità lascerebbe a sua figlia? Almeno le lascia la redenzione di un padre. Per la sua piccola spera che vada a Londra a studiare e non finisca incinta a 14 anni. Questa è una resistenza a un sistema. A volte non si scappa da quel micromondo perché si crede sia la verità. Un bambino che a 5 anni esce di casa e vede un tossico che si buca assume una percezione della realtà diversa dalla mia. Parlo, sempre per immagini, di un altro ragazzo di Scampia con famigliari che cercano di tenere lui e il fratello piccolo fuori dalla strada. Gioca a calcio nella quadra della parrocchia e quando lo ho conosciuto mi ha fatto vedere le tre croci di sangue Blue disegnate nei capelli ma non c’entra nulla con quello che vorrebbe fare: si è slegato dagli amici storici perché si fanno le canne. Poi c'è la storia di Don Fabio il prete del carcere minorile che parla alle persone e gli dice gli piacciono gli esseri viventi e infatti nella sua diocesi ha un sacco di animali, il prodotto del creato; prende i ragazzi che escono dal carcere e non vogliono tornare a casa per non ricascarci, li ospite e gli prepara un percorso di reinserimento, a partire dal curriculum. Sono tutte storie molto intense, storie umane che vanno alimentate attraverso certi valori. Siamo in piccolo quartiere col 60 per cento dichiarato di assenteismo scolastico".
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