Premierato e autonomia differenziata, i due pilastri della destra riformista

Un’ombra sfocata incombe sulla destra italiana che si vuole opportunamente riformista oltreché conservatrice. Lasciando per ora ai margini ogni riflessione sulla riformulazione del sistema fiscale e su quanto in materia di concorrenza sarà oggetto di negoziato con la futura Eurocommissione, rimangono due capisaldi sui quali ragionare: l’autonomia differenziata e il premierato. Il premierato Su quest’ultimo, si dovrebbe subito sgomberare il campo da facili fraintendimenti e tentazioni strumentali: è davvero “la madre di tutte le riforme”, come l’ha definita il presidente del Consiglio. E non ne è certo in discussione la realizzazione quanto semmai la praticabilità entro i limiti della presente legislatura: i dubbi tecnici e costituzionali che si addensano da varie latitudini intorno alla prima stesura espongono il testo a una plausibile dilatazione temporale. Ciò detto, nulla impedisce che da qui a un anno Palazzo Chigi decida di proseguire a tappe serrate per l’approvazione d’un disegno semipresidenzialista che rappresenta da sempre il punto qualificante della governabilità vista da destra. Ma a dire il vero vista anche da una sinistra riformista che, almeno dagli anni Ottanta del Novecento fino a tutto il ventennio a cavallo tra la fin de siècle e il nuovo Millennio, non ha disdegnato di sedere ai tavoli del grande gioco costituente. Se il progetto socialista, già minato dalla retromarcia del Pci berlingueriano, entrò in sonno con la morte della Prima Repubblica; il successivo tentativo bicamerale di Silvio Berlusconi cozzò prima con il testacoda postcomunista praticato da Massimo D’Alema e infine – in assenza di larghi accordi parlamentari – contro un referendum dall’esito infausto condizionato dalla sconfitta elettorale del 2006. Da ultimo, nel 2016 il Partito democratico personificato in Matteo Renzi ha clamorosamente fallito l’obiettivo in una battaglia referendaria combattuta più dentro che fuori le mura domestiche della sua “Ditta”. Il ruolo del Presidente della Repubblica Adesso è il turno di Giorgia Meloni, forte di un consenso popolare vasto e d’un rapporto con il Quirinale assai differente da quello che ebbe il Cavaliere con i predecessori di Sergio Mattarella. A tale riguardo, non va sottovalutato un elemento dirimente: per quanto determinato nel misurare la riforma meloniana con ferma coscienza dei propri doveri “arbitrali” e nient’affatto notarili, l’attuale Capo dello Stato ha lasciato presagire la propria indisponibilità a rappresentare l’effigie strumentale del blocco controrifomista delle sinistre. Nessuna polarizzazione personale in vista, insomma. Del resto, dopo il precedente della rielezione di Giorgio Napolitano nel 2013, la prospettiva del “quattordicennio” quirinalizio di Mattarella rappresenta di per sé il segnacolo d’una supplenza, esercitata malgré soi e con un generosissimo spirito di servizio alla Res publica, rispetto alla cronica deficienza d’un sistema parlamentare in cui nelle ultime legislature si sono manifestati più governi tecnici e di larghe intese che non di coalizione. Il che vale come un ottimo argomento per avanzare nell’impresa, sia pure con le dovute correzioni, al punto tale da prefigurare l’azzardo del così detto “all-in”: una volta vidimata la riforma in quadruplice lettura, verificare con il Colle la possibilità di sciogliere le Camere e sperare di vincere il referendum sulla scia delle politiche. Chissà. L'autonomia differenziata Veniamo così al secondo pilastro riformista su cui invero rischia di pencolare l’architrave governativo: l’autonomia differenziata. Di là dalle velleitarie fantasticherie referendarie delle opposizioni, la legge ordinaria assegna già alle Regioni alcune potestà latenti che sconfinano perfino in politica estera e che travalicano il vincolo dei Livelli essenziali di prestazione . In altre parole: un debito programmatico contratto con l’ala vetero-nordista della Lega rischia di trasformarsi in una questione culturale trans-politica non meno che tecnica e dall’alto impatto sociale. Dietro la spinta centrifuga della riforma è lecito cogliere l’assenza d’uno sguardo organico onnicomprensivo come quello che mosse dal centro della Francia allorché, nel 2015, a Parigi si decise d’istituire 7 regioni metropolitane accorpandone 16. In tal caso si trattò di armonizzare dall’alto alcune istanze locali con la congenita force de frappe centralista per contare meno disordini burocratici in Patria e pesare in modo più coerente nella Dieta europea. In Italia? Il dispositivo ormai attivato può subire un rallentamento applicativo, sin quasi al congelamento nel porto delle nebbie post-unitarie, nella misura in cui resta piantata a Roma l’ultima parola sull’assegnazione delle competenze pretese dalle regioni. E così è, al momento. Tuttavia, già s’avverte l’eco di derive vandeane e l’agitarsi di nuovi feudalesimi in aperto contrasto con le radici risorgimentali e sociali della destra nazionale. Una sfida aperta.